Galleria d’Arte ##28

47* posto della classifica dei 100 migliori film americani

“Posso aiutarla?”
“Devo prendere un tram che si chiama desiderio…”

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Un film molto interessante. Due storie diverse che s’intrecciano, finendo, poi, per scontrarsi. In pieno clima americano anni ’50, in una New Orleans operaia e lasciva.

Ho apprezzato tanto il modo in cui è stata delineata la storia; stesa sullo schermo con la stessa semplicità con cui si stende un tappeto rosso. Mi sono sentito in qualche modo rispettato dal film, che mi concedeva, man mano che scorreva, dettagli preziosi per accrescere la mia curiosità. La trama parte lenta e tranquilla con questa appariscente donna bionda che aspetta il tram. E’ il ritratto della felicità, capelli in ordine, vestito alla moda, borsetta. Nulla lascia trasparire dai suoi occhi. Sembra sia nata in quel momento, senza passato. Va a trovare la sorella, e per farlo, prende questo tram che si chiama Desiderio.

La sorella è la perfetta antitesi. Sia nell’aspetto che nel carattere. Vive con suo marito Stanley in un “tugurio” di casa.

Pian piano la trama s’infittisce. I vari caratteri dei tre personaggi principali escono fuori.

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Blanche, la bionda viaggiatrice, che maschera con un viaggio di piacere una missione per la propria redenzione dai suoi problemi: alcol e sesso.

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Stella, la perfetta massaia americana. Insicura come un filo d’erba e facilmente plasmabile. Tenera e apprensiva con tutti.

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Stanley è il marito. Interpretato da una magnifico Marlo Brando (ma doppiato barbaramente in italiano, come fosse un documentario) Ha un carattere burbero e rozzo. Divide le sue giornate tra lavoro e partite al poker con gli amici.

Ora il film inizia a correre…

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La trama, eccetto lo sketch iniziale, sembra discostarsi molto dal titolo. Solo dopo una seconda visione feci caso a piccoli dettagli, come il rumore di un tram in sottofondo in alcune scene concitate del film.

Stanley sprigiona subito tutti i brutti lati del suo carattere. Sempre padrone di se e della sua casa nonostante la presenza estranea della sorella della moglie. Sente da subito puzza di marcio in quella ragazza dalla pelle liscia e candida. Qualcosa non quadrava in quella visita inaspettata e decise d’indagare sul suo passato.

Intanto Blanche fa la conoscenza degli uomini del vicinato. Si fa ammirare, corteggiare, adorare. Tratta tutti con sottigliezze provenienti dalle sue molteplici letture poetiche. Non cede a nessuna corte fino a quando, resasi conto che un uomo sarebbe stato il modo migliore di cancellare il passato, concede a Mitch, amico intimo di Stanley, una possibilità.
Ma appena Stanley scopre il tormentoso trascorso della donna, va subito a riferirlo al suo amico. Sicché, la situazione si fa pesante. L’alcol inizia ad abbondare nella bocca di tutti. Le parole, i gesti, le urla, la violenza, portano scompiglio nella piccola casa della dolce Stella; e quest’ultima, stanca di tutto ciò, scappa nascondendosi dall’amica al piano superiore.
Qui, Stanley, ripresosi dall’alcol grazie ad una doccia fredda, capisce che la sua donna è scappata via. La sua amatissima Stella.
Non può perderla. Non può permettere che accada.

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“Voglio la mia Stella” grida
“Hey Stellaaa” grida ancora; e lo farà fino a quando non la vedrà scendere da quelle scale.
Stella, dopo un attimo d’esitazione, lo stringe forte tra le sue braccia. Sa che quell’uomo è il suo veleno… ma stranamente non può farne a meno.

(Film: Un tram che si chiama desiderio, 1951, Marlon Brando, Vivien Leigh, Kim Hunter)

Weekend finanziario (III)

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Foto: Piattaforma multimonitors Banca Sella

Rosso… Tutto decisamente e profondamente in rosso!

Giornata negativa.

E la colpa non era nemmeno nostra. Il vento di negatività arrivava dall’oriente. Dal Giappone. Tokio ci stava dando delle belle grane. Lei e la sua politica monetaria “stampaechissenefrega”. Davvero cazzuti i Giapponesi. In barba a qualsiasi teoria economica si son messi a stampare banconote come se non ci fosse un domani, nel vero senso della parola. Dall’altra parte del mondo, invece, gli Americani impiegarono mesi e mesi per definire il loro Quantitative Easing e finalmente elargire liquidità gratis a tutti. Noi invece, indovinate un po’? Una manovra del genere non ce la possiamo nemmeno sognare. Sembra che la strategia della nostra ripresa sia improntata sull’attendere il fallimento degli altri.

Purtroppo però, l’effetto contrario del far piovere soldi dal cielo, oltre la sicura inflazione, è che la borsa, prima o poi ti risponde con un ancora più cazzutissimo -7%, come quella mattina. Forse per i Giapponesi potrebbe essere normale, ma da noi, già un -3% è da panico generale con titolone in prima pagina.

Vista la giornata negativa, immaginai le varie ipotesi di gioco che avrebbero potuto intraprendere i traders. Scrutai i loro volti e capii che avevano già iniziato ad operare.
L’avevo intuito dalle loro espressioni facciali mutate. Lo studio del linguaggio del corpo mi ha aiutato parecchio a capire le persone. Il trader polacco continuava a strizzare le labbra, tipico segnale di stress.  L’italiano a fianco si grattava il mento e l’altro, con molta enfasi, sbadigliava e si stiracchiava. La regia, dietro di me, mandava le immagini dei monitors dei vari trader sul proiettore. Molti erano in negativo, altri in positivo. il polacco aveva messo a segno una buona operazione e una bella freccia verde era stampata accanto alla sua immagine. Un ragazzo italiano stava rischiando grosso, -13%, chissà quanto sarà stato, in percentuale sul suo conto. Una bella botta comunque.

So bene cosa vuol dire aprire una posizione e poi questa ti va in perdita. Succede ad ogni trader. E qui che entra in gioco la vera bravura del trader che, non sta tanto nel guadagnare soldi, (a farlo siam bravi tutti, basta comprare a poco e vendere a tanto, come mele al mercato) quanto nel saper uscire da situazioni difficili. Quando il mercato ti va contro, e le tue mele sono marce. Cosa fai? Tutto sta nel riuscire a piazzare un buon prezzo di vendita, mele o azioni che siano. Intanto però, ti ritrovi lì, a fissare il tuo bel segno meno davanti ai tuoi soldi. Quanta freddezza ci vuole a mantenere il sangue freddo per prendere la giusta decisione? Tanta! E l’ho imparato a mie spese.

Per ammazzare il tempo e distogliere un po’ l’attenzione dalla sfida, sfogliai il depliant del programma della sala in cui mi trovavo. Lessi che il trader polacco dava un seminario sulle sue teorie basate sui cicli lunari. Ma che cazz..? pensai con evidente scetticismo. Come era possibile associare l’andamento dei mercati con le fasi della Luna? Che riferimenti ci possono essere? Certo… a me viene un po’ di mal di testa quando siamo in plenilunio, ma non esageriamo! Povera Luna… se vogliamo addossarle anche la colpa della crisi economica non ne usciremo proprio più!

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Suonò la campana. I giudici salirono sul ring per controllare i conti. Subito decretarono il vincitore del round: un tedesco seduto dall’altra parte. Approfittai della pausa per fare un giro tra gli stand. Uscii dalla sala e la luce mi strinse gli occhi. Pian piano mi abituai mentre percorrevo il lungo corridoio.

C’era molta gente. Molti ragazzi e pochissime ragazze, escluse hostess e promoters. Trovare una donna che faccia trading è quasi impossibile. Non ho ancora ben capito il perché. Dopotutto non è una pratica difficile. Ci son cose ben più difficili. Tipo la medicina, con le sue mille nozioni da tenere a mente e i giusti casi in cui poterle applicare. L’economia, per me, è molto più elastica e soprattutto non muore nessuno se sbagli. C’è sempre un rimedio economico per i tuoi errori. Anche la crisi è fra di essi e con una buona cura dovremmo uscirne.

Dicono. 

Per come la penso, essendo entrati nella situazione di mercati concorrenziali tra stati, non se ne uscirà mai. Alcuni giornali l’hanno chiamata guerra economica o guerra delle valute. Si combatte con la svalutazione della propria moneta, per poter offrire al mondo prodotti a prezzi stracciati. Tradotto: scordiamocela la ripresa.

Se sotto i nostri bicchieri, posate, piatti, ecc… troviamo scritto “made in china” significa che l’azienda italiana che li produceva è fallita e ci vorranno almeno 10 anni prima che ritorni. A noi consumatori sta bene spendere di meno ma non lamentiamoci se poi, il ciclo economico si sposta dal nostro paese a un altro. Se le aziende chiudono o delocalizzano lasciando migliaia di cittadini senza lavoro.

Il bello di tutto, è che la colpa la danno alla finanza, che l’unica colpa che ha avuto, è stato far credere alle persone di potersi permettere ciò che non si poteva…

Una gran bella illusione…

E ci siamo cascati tutti, in pieno…

Storia di una casa (#34)

2006/2007

– 34 –

Le ore e i giorni passarono in un lampo e il silenzio tornò a essere il mio coinquilino più presente. Gli amici erano appena partiti per tornare a casa: Marco, Enrico, Marta e Cristina. Li salutai alla stazione con quella punta di malinconia che crebbe fino al mio ritorno a casa. Mi buttai subito sul letto come se le forze fossero partite anche loro. Pensavo… Pensavo a quei giorni in cui non provavo tristezza nel salutare un amico. Erano bei giorni allora. Giorni carichi di voglia di vivere, di scoprire insieme le sfaccettature di questo mondo sconosciuto. Trascorrevo così tanto tempo insieme a loro, da diventar loro la mia seconda famiglia: proteggendomi, assistendomi e consolandomi, per non parlare di tutte quelle volte che mi riportarono a casa, sano e salvo. Devo molto a quei ragazzi… e non lo immaginano nemmeno.

Voltai la testa verso la sedia in mezzo alla stanza. Sorrisi. Era ancora lì con il cordone dell’accappatoio che ciondolava indisturbato. “Povero Marco” pensai. “Se l’è meritato però!” E quante volte se l’era meritato! Aveva compiuto così tante cazzate nella sua cronologia che avrei dovuto odiarlo per sempre. Ma la sua generosità e la sua bontà ti scioglievano, disarmandoti. Non avrei mai potuto tenergli il broncio per più di cinque minuti. Era un ragazzo con molti pregi; come quello di farti apprezzare le cose semplici, di tralasciare il valore dei soldi, sempre troppo importanti per me. Enrico invece era diverso. Facevamo a gara a chi era più introverso. Parlavamo sempre poco di noi e sempre troppo degli altri. C’era sempre un profondo rispetto tra noi due. Non saprei dire se lo conosca abbastanza, nonostante sia il mio migliore amico.

E scese la notte. Più pesante del solito. In casa ero solo. Le stanze vuote mi facevano eco. Curioso, decisi di dare una controllata alla camera di Francesco. Aprii lentamente la porta, come a non voler disturbare una persona che non c’era. Sorrisi pensando con meraviglia che anche in quella stanza era notte. Avevo la strana concezione che quella parte di casa era un mondo distinto. Un qualcosa che non mi apparteneva, di non mio. Quest’atteggiamento derivava dal profondo rispetto per le cose, inculcatomi da mio padre. Accesi la luce. I letti erano in ordine. Merito sicuramente delle mie due ospiti femminili. Persino le ciabatte del mio coinquilino erano tornate al loro posto. Il divano, doveva aveva dormito Marco, non aveva niente che non andava. Dovrei dare più fiducia a quel ragazzo.

Notai che la finestra era aperta. Qualcuno dei ragazzi aveva pensato bene di far arieggiare la stanza prima di andarsene. Andai a chiuderla e sentii un rumore provenire dal bagno. Pensai che la corrente d’aria avesse chiuso d’impeto l’altra finestra. Andai in bagno a chiudere anche quella. Qualcosa però, stranamente, la bloccava. Provai più volte a chiuderla ma non ci riuscii. Ispezionai i bordi della cornice scoprendo un inghippo metallico che impediva la chiusura. Tirai fuori l’oggetto dalla guarnizione. Era una monetina. Una cento lire del ‘78 sulla cui faccia risaltava la testa dell’Italia laureata che rifletteva la luce della lampadina a incandescenza del bagno. Come un flash, mi tornò alla mente l’immagine di Marco che faceva ruotare quella moneta tra le dita, dicendo: “Questa è il mio portafortuna!” Gli sarà sicuramente caduta in quella serata brava che scappò dal bagno alla ricerca dell’ultimo goccio di Jack. Scossi la testa disapprovando quei momenti. Afferrai il cellulare.
“Marco, ho qui con me la tua cento lire… Appena ci vediamo te la rendo.”
“Bene! Ma tienila tu… così ti porterà un po’ di fortuna, che ne hai bisogno!”
…e ci sperai, e spero ancora, che quella tanto amata fortuna, un giorno arrivi.

Fine Seconda Parte

Storia di una casa (#33)

2006/2007

– 33 –

Era come essere davvero a casa. Gli amici arricchivano l’atmosfera turbata da molti mesi di solitudine. Con loro, sentivo questa città più vicina. Il freddo inizio, si stava pian piano accendendo, sotto i colpi di giorni piacevoli. Ero ostinato ad abbattere la malinconia della lontananza da casa, ma da solo non ce l’avrei mai fatta. Servivano sorrisi, facce felici, qualche battuta qua e là; e i miei amici erano molto bravi in questo.

-… e poi salì sul treno inaspettatamente! –
– Il solito Ciro! –
-..non mi sarei mai aspettata una cosa del genere! Poi quel giorno ero pure un disastro… –

Seduta sul mio letto, Francesca snocciolava i risvolti più minuziosi del nostro primo incontro. Marta e Cristina bramavano dettagli come se si fossero perse la più importante delle puntate di una telenovela. Avevo condiviso con parecchie serate con le mie amiche e avevo sempre mostrato il mio lato duro. Ora per loro, venire a conoscenza del mio lato “tenero” era un’occasione unica.
-… e poi? –
– Poi quello stronzo fece anche l’offeso! Se né andò nell’altra carrozza! –
– Che scemo… –
– Dovetti rincorrerlo… –

Alla scrivania invece, Marco mi stava mostrando l’ultimo video più cliccato della rete. Ne conosceva una più del diavolo quel ragazzo. Osservai il video divertito, quando improvvisamente entrò in camera Enrico. Sentii un rumore inconsueto, di suole di gomma dura, provenire esattamente dai suoi piedi. Con tono indagatore chiesi:
–       Enrico, dove hai preso quelle ciabatte? –
–       Boh… non so… erano di là. –
–       Di là dove? –
–       Nella camera del tuo coinquilino! –
–       …ai piedi del suo letto immagino… –
–       Precisamente… –
–       Togliti immediatamente quelle ciabatte!! – gli urlai.
Enrico tornò nell’altra stanza borbottando. Marco rise alzandosi dalla sedia per seguirlo. Lo fermai sulla porta chiedendogli il perché abbandonasse la nostra sessione di video a caso. Mi rispose: – Anch’io indosso qualcosa del tuo coinquilino… ma non saprai mai cos’è! –
Non volli saperlo e lo lasciai andare di là sperando che quei due non combinassero altri guai.
Mi diressi in cucina. Qualcuno doveva pur fare i doveri domestici. C’erano pentole e piatti accumulati nel lavello da più giorni. Mi rimboccai le maniche controvoglia e scardinai la montagna, piatto dopo piatto.

Tornato in stanza, notai Marco confabulare qualcosa con la mia ragazza. Appena accortisi della mia presenza, mi fissarono silenziosi. Trattennero a stento un risolino malizioso.
–       Che combinate voi due! –
–       Niente… –
Guardai in giro sospettoso. Quei due non la raccontavano giusta. Alzai lo sguardo e scoprii l’arcano. Sulla maglietta del mio cantante preferito erano spuntati due baffi artificiali.
–       Che cosa avete combinato! – dissi, prendendo una sedia per rimuovere il pezzo di carta. Quando però, avvicinai la mano alla maglietta appesa al quadro, notai che, dopotutto, non stavano cosi tanto male, sorrisi e scesi dalla sedia.  Guardai ancora la maglietta con aria divertita.
–       Li toglierò quando ve ne andrete via! –
Dissi, ma quei baffi appesi maldestramente alla faccia del mio cantante, stettero lì per molti anni a seguire.

Storia di una casa (#32)

2006/2007

– 32 –

Silenziosamente entrò in casa una figura dai tratti femminili. Si aggirò tra le stanze dell’appartamento in apparente ricerca di qualcosa. Il mattino era appena spuntato e la luce del sole volava basso, convogliata da tapparelle semichiuse. In una mano, stringeva un sacchetto di carta bianca che scricchiolava a ogni suo movimento. Vide davanti a se la porta della mia stanza. Accarezzò la maniglia, ma un istante prima di aprirla, si bloccò, come se le fosse venuta in mente qualcosa e, curiosa, si diresse verso la camera di Francesco. Ovviamente Francesco non c’era, ma al suo posto poté ammirare quattro ragazzi arrangiati alla meglio in tre letti. Vide Enrico, il più fortunato di tutti, che da solo occupava un letto intero, tutto per sé. Non potevano dire lo stesso Marta e Cristina, poco più in là, costrette a dividere un letto in due. Vicino alla porta, invece, sopra un divano cigolante, c’era Marco avvolto in una coperta di lana. L’oscura ragazza sorrise alla simpatica scena dell’accampamento domestico e lentamente uscì dalla stanza senza farsi sentire. Ritornò sui suoi passi lentamente, in modo che le scarpe non risuonassero sul pavimento. Tornò alla maniglia e questa volta l’aprì decisa e, come il siparista di un teatro, scoprì la scena tanto attesa. Subito i suoi occhi corsero al mio letto, si arrampicarono sul piumone rosso, per poi adagiarsi sul mio viso. Si avvicinò, domandandosi ad ogni passo sé stessi realmente dormendo. Sentii un peso appoggiarsi di fianco e poco dopo una mano carezzarmi la guancia. – Buongiorno Amore… – mi sussurrò all’orecchio.
A quel punto mi svegliati. Aprii gli occhi fulminandomi la retina con la luce del mattino.
–       Amore? – chiesi spaventato. Mi voltai e vidi lei: la ragazza misteriosa era Francesca.
–       Come hai fatto a entrare? – chiesi sfregandomi un occhio.
–       Hai dimenticato di chiudere la porta… –
Mi grattai la testa ammettendo che la sera prima avevamo sorvolato su molte imprudenze. Ma la conversazione con Francesca non era finita perché, improvvisamente, mi afferrò un orecchio e iniziò a torcerlo con violenza. – Perché non hai risposto al telefono ieri sera?! –
–       Ahia! Ahia! Non l’ho sentito! Ahia! –
–       Certo! Che cosa stavi facendo? –
–       Se te lo dicessi, non ci crederesti… –
Per la gioia del mio orecchio mi lasciò andare. Vedendomi dolorante, mi diede un bacio a mo’ di scuse e mi porse il sacchetto bianco.
–       Ci sono dei cornetti dentro. Ne ho presi 5… siete in 5 giusto? –
–       Sì… siamo cinque. Sono tutti nella stanza di Francesco. –
Svogliato e sonnolento mi alzai trascinando inavvertitamente un lembo delle lenzuola. Il letto non voleva lasciarmi andar via. Andai verso la stanza in cui dormivano i ragazzi.

–       Sveglia ciurmaglia! – esclamai.
Seguirono mugugni e rantoli di vario genere. Nessuno sembrava intenzionato ad alzarsi.
–       Ci sono i cornetti… – proseguii sventolando il sacchetto bianco.
Ad uno ad uno i piccoli occhietti dei miei amici sbocciarono come fiori a primavera. Mi fissarono per controllare l’esistenza effettiva dei cornetti e dopo averla valutata plausibile, lentamente, si alzarono.
Presentai i miei amici a Francesca aggiungendo che era stata lei a portare le brioches.
–       Grazie Francesca… non dovevi… ce n’è uno alla crema? – disse Marco con il suo solito charme. Anche Enrico non fu da meno, fiondandosi subito a rovistare nel sacchetto dopo una fugace presentazione.
–       …E queste sono Marta e Cristina… – dissi timoroso delle conseguenze.
Invece, Francesca si mostrò subito affabile e cordiale. Cristina era partita con un discorso impostato sullo scusarsi dell’improvvisata in casa mia. Marta continuò col dire che non erano a conoscenza del mio status di fidanzato né tantomeno che avessi una ragazza lì a Milano. A quel punto tutte e tre, si girarono e mi guardarono male.
–       Non gli avevi ancora detto che sei fidanzato?! – sbottò Francesca velatamente incitata dalle altre due.
Non c’era niente da fare, toccava solo arrendersi. La solidarietà femminile aveva ancora una volta scaricato la colpa sul solito maschio di turno. Mi svincolai con una mossa repentina, fiondandomi nel porto sicuro dei miei amici maschi, ancora intenti a mangiucchiare il cornetto.

Storia di una casa (#31)

2006/2007

– 31 –

– Tenetelo! –
– Dai Marco su! Non fare il difficile! –
– Voi siete i miei migliori amici… –
– Si Marco… certo… tutto quello che vuoi… ma adesso torniamo a casa! –

L’ascensore non tardò ad arrivare. Enrico ed io, ficcammo alla meglio Marco all’interno. Marta e Cristina preferirono aspettare a salire. Per mancanza di spazio, fu la loro scusa ma era evidente che non volevano stare troppo vicine a Marco che era diventato ingestibile. L’alcool ci aveva mandato tutti un po’ su di giri ma lui quella sera aveva esagerato oltre ogni modo. Arrivammo al piano, cercando difficilmente di tenere in piedi Marco che non voleva saperne di restare schiacciato contro la parete dalle nostre mani.
Aprii le porte e feci segno ad Enrico di portarlo fuori. Marco sembrava disorientato. Guardava la luce dell’ascensore vaneggiando su strane ipotesi di morte. Enrico lo spinse fuori ma inavvertitamente un lembo del jeans gli s’incastrò nelle porte e Marco rovinò al suolo. Fu fortunato però, davanti a lui c’ero io che gli avevo attutito la caduta.
–       Aiutami Enrico! Aiutami! –
I miei lamenti si diffusero come un tuono nella tranquillità notturna del pianerottolo del quinto piano. Enrico accorse redarguendo un Marco assente. Mi rialzai e cercai le chiavi nella tasca. Dopo averle trovate con qualche difficoltà, tentai di infilarle in una delle due porte che vedevo davanti a me. Stranamente la chiave non girava. Dietro di me, si aprirono le porte dell’ascensore e comparvero le ragazze.
–       Ciro, perché stai cercando di infilare le chiavi nel campanello? – disse Marta ridendo.
–       Oh… ecco perché… –
Mi aiutò a trovare la serratura e finalmente entrammo in casa. I problemi però non erano finiti. Marco stava diventando irrequieto. Era finita la fase del “vedo la luce, vai verso la luce” ed era passato al “Dov’è l’alcool! Dove cazzo è l’alcool!”
Enrico lo teneva a stento. Anche lui era brillo dopotutto. Le ragazze cercarono di farlo ragionare. Specialmente Marta, sua sorella.
–       Voglio un’altra pinta! Signorina, una bionda doppio malto, grazie! – chiese Marco in
preda al delirio. Marta lo schiaffeggiò e gli ordinò di smetterla.
–       Ahia! Ma in questo locale si trattano così i clienti?! –
–       Marco… sei a casa mia! – gli dissi pacatamente.
–       Siamo già tornati a casa?! No! Adesso scendo e mi cerco un bar più gentile di voi! –
–       Smettila Marco!  Sei ubriaco! Se vuoi c’è un po’ di Jack Daniel’s in cucina… – risposi,
incosciente di aver commesso un grave errore. Marco non doveva bere più e gli avevo appena detto dove trovare dell’alcol. Tutti mi fissarono in silenzio, anche Marco. Il tempo sembrò bloccarsi per un secondo. Sembrava uno di quei duelli western, dove vince chi estrae per primo la pistola. Marco scattò dalla sedia e corse in cucina alla ricerca della tanto amata bottiglia di Jack.
–       Prendetelo! – urlò la sorella.
Ci fiondammo tutti in cucina e lo trovammo a rovistare negli stipetti come un barbone fa con i cestini dei rifiuti.
–       Bingo! – disse appena vide il suo “tesoro”.
–       Cazzo l’ha trovata! Prendiamolo! –
Marco nascose la bottiglia sotto la maglia e corse fuori dalla cucina. Lo rincorremmo per tutta la casa. Sembrava più in forma di noi. Le ragazze gli sbarrarono la strada per la stanza da letto e noi lo accerchiammo da dietro. Lui, sentendosi in trappola, tirò fuori la bottiglia e tentò di berla. Glielo impedimmo e gli strappammo via il Jack. Marco iniziò a scalciare mentre Enrico lo teneva per le spalle.
–       Fermo Marco… Fermo! –
Non c’era verso di farlo smettere. Finché non mi venne un’idea. Andai in bagno e ritornai con il cordoncino dell’accappatoio. Guardai Enrico e dissi con decisione: – Leghiamolo! –
Con molta fatica lo trascinammo a sedere su una sedia in legno della casa. Enrico lo teneva fermo, mentre gli fermavo le mani dietro lo schienale. Quando finii di annodare Marco iniziò subito a cercare di liberarsi.
–       Dai ragazzi! Si trattano così gli amici? – disse, cercando d’impietosirci.
–       Sì! Quelli molesti si legano alle sedie! –
–       Volevo solo farmi l’ultimo bicchierino… –
–       Per stasera basta! –
–       Ok… ma adesso devo andare in bagno… –
–       Certo… ed io ci credo! –
–       Se non credi a me, tra poco crederai alla pipì che si diffonderà sul pavimento della tua stanza da letto! –
Mi consultai con Enrico e giungemmo alla conclusione che, il nostro amico, era abbastanza decerebrato da poter compiere un’azione tanto estrema quanto quella di urinarsi addosso.
Lo slegammo e lo scortammo alla porta del bagno come un detenuto di massima sicurezza.
Chiudemmo la porta e tornammo in stanza. Le ragazze non erano tanto avvezze a questo genere di cose e iniziarono a preoccuparsi. Le tranquillizzammo raccontando qualche passata esperienza adolescenziale simile a questa, dove tutto, alla fine, si era risolto con un gran mal di testa mattutino.
Improvvisamente:
–       Aiuto! Aiuto! – sentimmo urlare dal bagno e accorremmo tutti.
–       Marco! Ti senti bene? Marco? – dissi, attraverso la porta chiusa.
Vedendo che Marco non rispondeva iniziammo a domandarci se abbattere la porta o meno poiché era chiusa a chiave dall’interno. Poteva essere successo di tutto e il nostro amico poteva essere in gravi condizioni. Le ragazze dietro di noi, cominciarono a spaventarsi. Specialmente Marta, la sorella, che continuava a chiamare Marco in attesa di risposta.
–       E se fosse svenuto?… –
Improvvisamente sentimmo dei rumori provenienti dalla mia stanza da letto. Tornammo velocemente tutti lì e sorprendemmo Marco mentre tentava di arrivare alla bottiglia di Jack che avevo prudentemente piazzato in alto, sopra una libreria.
–       Gran figlio di una… vieni qui!! –
Lo rincorremmo, lui scappò sul balcone e tornò in bagno attraverso la finestra dalla quale era scappato. “Che mente diabolica!” pensai sorridendo.

Dopo circa un’ora di corse e rincorse, la situazione si calmò. Riuscimmo ad impedire a Marco di vuotare la mia bottiglia di Jack. Ci abbandonammo tutti sui nostri letti, io nella mia stanza e i miei amici in quella del mio coinquilino momentaneamente assente. Come l’avrebbe presa Francesco se avesse visto la sua stanza invasa di ragazzi? In quel momento però, tutte le preoccupazioni riguardo l’ordine e il rispetto delle cose altrui erano annegate in circa un litro di birra che avevo in corpo. Le palpebre erano diventate pesantissime. Colpa forse, dell’attività ginnica che Marco ci aveva costretto a fare. Chiusi gli occhi sperando in una notte tranquilla anche se, in lontananza, avvertivo un fastidioso ronzio che la rovinava.
Era il mio cellulare, ma ormai, ero già tra le braccia di Morfeo.

Storia di una casa (#28)

2006/2007

– 28 –

“…Ospitarci per un paio di giorni.”

Era passato quasi un mese da quel breve messaggio che i miei amici mi avevano inviato. Ne fui colpito, meravigliato, emozionato. Quei ragazzi volevano farmi capire che, seppur lontani fisicamente, c’erano ancora, e nulla era cambiato. Invece io mi sentivo tremendamente in colpa ad averli abbandonati, allontanandomi per andare dall’altra parte dell’Italia a studiare. Ripensai a come, in passato, faticosamente ero riuscito a farmi qualche amico ed entrare in un gruppo già avviato, nonostante il mio carattere molto introverso; per poi abbandonarli tutti, dopo una manciata di anni, come vecchi oggetti che non funzionano più, che non danno più soddisfazione; e corsi via zaino in spalle, dai nostri luoghi, dalle nostre vite, dalle nostre strade…
Per finire qui, al quinto piano di un palazzo a osservare la strada inondata di foglie autunnali.
“Chissà da dove vengono queste foglie?” pensai, visto che la zona verde più vicina era a più di un centinaio di metri. “L’autunno è una stagione così strana.” Non si riesce mai a capire che tempo ci sia e quindi vestirsi di conseguenza. Vedevo persone in strada alternarsi chi in cappotti con sciarpe e chi in felpe con tute. Chi avesse azzeccato l’abbigliamento adatto avremo potuto saperlo solo a fine giornata.

Uno squillo di cellulare interruppe i miei pensieri volti chiaramente alla perdita di tempo.
“Stiamo arrivando” diceva il messaggio e accrebbe la mia inguaribile ansia.

Tornai a guardare la strada in direzione dell’uscita della metro. Sbirciavo i visi delle persone, cercando di scorgere quelli dei miei amici. Aspettavo Enrico e Marco, e forse qualcun altro che, sicuramente, s’era aggiunto ai viaggiatori nonostante il mio diniego.
L’ansia ticchettava e iniziai a contare le persone che sbucavano nel mio campo visivo stradale, come fossero secondi di un timer: 1, 2, 3,… Ed ognuna di essa si sottoponeva involontariamente al mio scanner visivo, dotato di commenti pregiudizievoli: troppo alto, troppo magro, non si vestirebbe mai così…
Conoscevo così bene i miei amici da poterli descrivere ad occhi chiusi e sapere già in anticipo come si sarebbero vestiti.
Mentre il mio timer di persone scorreva al numero 36, intravidi una persona dalla fisionomia conosciuta. Anche i modi e soprattutto la capigliatura rasta coincidevano con le sembianze di Marco. Subito dopo di lui, come da conferma, al numero 37, riconobbi Enrico con uno strano cappello che portava con sé un enorme borsone. Sorrisi nel vederli e il mio cuore si riempì di gioia. Ero impaziente che arrivassero­ davanti al mio palazzo.
Quand’è che entrambi si fermarono e si voltarono indietro ad osservare chissà chi. Subito la gioia si trasformò in ardente curiosità e…
“No… non può essere!”
Appena qualche metro più in là, vidi avvicinarsi ad Enrico una ragazza dall’inconfondibile massa mammaria più volte oggetto delle mie attenzioni.
Aguzzai gli occhi: “Marta, la sorella di Marco… cosa ci fa qui?!”
Ma le soprese non erano finite. Si avvicinò un’altra figura femminile al gruppetto, che sfoggiava un’inconfondibile capigliatura dal taglio maschile.
“No… anche lei!”
Cristina era un’amica stretta di Marta e una delle ragazze del gruppo che non avrei mai immaginato venisse a trovarmi.
Continuavo a fissare imbambolato i miei amici sperando che alzassero gli occhi al cielo e vedessero la mia disapprovazione mista a felicità. Non fu così e seguii il loro cammino in strada fin sotto il mio balcone.

Suonò il citofono e corsi a rispondere
– Sì chi è? –
– Ciro! Apri siamo noi! –
– No! Non vi apro! Vi ho visto! Siete in troppi! –
Non attesi risposta, spinsi il bottone e il portone si aprì.

Storia di una casa (#27)

2006/2007

– 27 –

 

Qualche giorno dopo, la febbre passò. Avevo trascorso gran parte del tempo disteso sul letto a pensare. Volevo tirare le somme dei mesi passati lontano da casa ma non riuscivo a dare un voto positivo alla mia dipartita universitaria. I giorni passati in malattia mi avevano costretto a saltare parecchie ore di corsi e non sapevo se sarei riuscito a tornare di nuovo in pari con gli altri. Tutto sembrava così fragile ai miei occhi e di certo era solo la mia delusione. Ancora una volta, la salute cagionevole, mi stava dando problemi con l’andamento della vita. Già in passato soffrii di questo problema. Ero preoccupato che, pur mettendocela tutta, non sarei riuscito a dare gli esami come avrei voluto.

Mi alzai dal letto e trascinai i miei passi verso la porta; e nel momento in cui stavo attraversando l’atrio della casa, vidi entrare Francesco dal portone.
–       Ciao! –
–       Ciao… – rispose.
Entrò subito in camera. La maggior parte delle nostre conversazioni si limitavano a semplici saluti. Chissà se si è accorto che sono stato male questi giorni? Pensai.
La cucina era rimasta come l’avevo lasciata. Sembrava che Francesco non avesse toccato niente, oppure era stata la mia ragazza a pulire diligentemente ogni cosa, prima di andarsene.
Osservai l’insolito cielo scuro delle cinque del pomeriggio dalla portafinestra del balconcino della cucina. Riempii la teiera e la poggiai sul fornello ardente.
Misi in infusione la bustina di tè. Scelsi una delle tazze blu dalla credenza. Mi fermai un attimo a riflettere su quante mani e padroni avevano visto quelle tazze da tè. Tutte mostravano i segni del tempo e dell’usura: un’ammaccatura lungo il bordo, un graffio, una botta sulla ceramica… a qualcuna mancava il manico ed erano sempre quelle che restavano sul fondo del ripiano in attesa di essere scelte per ultime. Mi sedetti al tavolo con la tazza tra le mani. Il calore mi riscaldava le dita giacciate.

Mentre ero intento a contemplare il mio tè, sbucò dalla sua camera il mio coinquilino taciturno e con aria affranta si rivolse a me.
–       Ciro… –
–       Dimmi Francesco… – gli chiesi.
Prima di rispondere si sedette con estrema lentezza. Spostò la sedia come se fosse qualcosa di molto prezioso e, dopo essersi seduto, mi guardò negli occhi tirando un respiro profondo.
–       Beh, vedi… non so se starò a Milano fino Settembre prossimo. –
Ecco, l’aveva detto. Si era tolto il peso dalla coscienza. Sembrava quasi sollevato. Aveva lanciato un masso nello stagno e ora attendeva le reazioni…
– … e quando andresti via? –
–       Beh… molto probabilmente starò qui fino a Giugno… –
–       Bene. – risposi abbassando lo sguardo sul tavolo.
E invece non andava affatto bene. Pensai
Tornai al mio tè mentre Francesco tornò nella sua stanza più velocemente di quanto avessi preveduto. Il mio coinquilino aveva aggiunto un altro problema al mucchio. Perché non me l’ha detto prima?! Mi chiesi. Avrebbe potuto dirmelo all’inizio, almeno non avrei contato su di lui. Avrei cercato un’altra casa… Avrei cercato un’altra persona… Avrei… Avrei… Non avrei potuto far niente in realtà. Era il destino che si divertiva a torcere il fil di ferro che mi legava alla vita.

Quindi, mi toccava cercare un sostituto che affittasse la camera di Francesco, altrimenti tutto l’affitto della casa, sarebbe ricaduto su di me.
Mio padre mi ucciderà… pensai rassegnato. Beh… è meglio che inizi a scavarmi la fossa…
Tutto a un tratto il telefono squillò. Guardai lo schermo come un professore che osserva il compito dell’ultimo della classe, certo di trovarci qualche errore; e come il professore pregiudizioso, cercavo l’ennesimo imprevisto della giornata, nascosto tra i caratteri di un messaggio.

“Ciro! Eravamo qui che ci chiedevamo se per caso il nostro amico milanese potesse…”

Storia di una casa (#26)

2006/2007

– 26 –

Dormivo.
Oppure sognavo di dormire. Era un dilemma che la mia testa cercava di sciogliere ardentemente. Ero in un letto avvolto da coperte leggere che sembravano non bastare a riscaldare la carne appiccicata al tessuto del pigiama. La testa mi scoppiava. Lo sguardo girava e volteggiava per conto suo nella stanza. Era giorno e capii di esser sveglio quando la mia mano toccò la fronte e tornò umida di sudore. Scoprii pian piano, arto dopo arto, che anche tutto il resto del corpo era coperto di sudore. Volevo muovermi ma i muscoli non sembravano d’accordo. Mi sentivo inerme come un naufrago su una zattera, lambito da piccole e fredde onde oceaniche. Presi a fissare un punto di luce solare sul soffitto. Non seppi nemmeno quantificare il tempo che lo fissai. Quando scomparì, decisi che era giunto il momento di alzarmi. Raccolsi le mie ossa e cercai di mettermi in piedi. A stento riuscii a tenere l’equilibrio. Andai in bagno per sciacquarmi la faccia. Ma l’acqua sembrava inefficace a raffreddare la mia fronte rovente. Tronai in camera e rovistai tra i farmaci per trovare qualcosa che avrebbe alleviato le mie pene. Presi un po’ di tutto cosicché il mio stomaco diventò un cocktail di tachipirina, ketoprofene e antinfiammatori vari. Mi stesi impaziente che il miscuglio producesse il suo effetto e intanto misurai la temperatura con il termometro. 40. Controllai meglio. Sì, la barretta di mercurio aveva toccato proprio una delle ultime tacche. Avrei dovuto chiamare mia madre ma sapevo che a quell’ora era intenta ad infilzare braccia con aghi appuntiti a chilometri e chilometri lontana da me. Dovevo cavarmela da solo. Lei, se fosse stata lì, mi avrebbe appoggiato una pezza umida in fronte e preparato qualcosa di caldo da mangiare. Saltai le tappe e mi buttai di colpo sotto una doccia fredda. Tremavo come una foglia al vento, nudo, in una fredda vasca da bagno. Tremavo così tanto che a un certo punto smisi, come se i muscoli si fossero stancati di protestare contro la mia ostinazione. Chiusi l’acqua e mi asciugai. Mi buttai sul letto e chiusi gli occhi lasciando scorrere la giornata sulla mia testa.

Li riaprii quando sentii qualcuno picchiettare sulla mia fronte.
–       Perché non hai risposto al cellulare! –
Era Francesca. Era venuta a farmi una visita imprevista, preoccupata dalla mia assenza.
–       Guarda come sei ridotto! Hai mangiato? –
–       No… –
–       Vado a prepararti qualcosa… tu non muoverti! –
Girai con fatica la testa dolorante e la guardai scorrere via dalla mia stanza. Sembrava un angelo senza ali. Chi l’aveva chiamata? Era stato il suo sesto senso a portarla qui.
Dopo un po’ sentii un forte odore di brodo provenire dalla cucina. La vidi arrivare con un piatto fumante tra le mani.
–       Mangia! – m’intimò come le più ostinate infermiere.
Sorrisi prendendo il cucchiaio, sotto il suo occhio severo ma premuroso. Mi tranquillizzai sapendo che c’era qualcuno che si prendeva cura di me. Dopotutto ero cresciuto al fianco di una madre iperprotettiva, ed averla persa nel momento in cui mi ero trasferito a Milano, aveva creato un vuoto incolmabile. C’è da aggiungere che all’epoca non avevo un sistema immunitario eccellente e tendevo ad ammalarmi molto spesso. E questa era una delle mie paure, dover combattere i miei mali da solo.

Mentre mangiavo la mano di Francesca si posò sulla mia guancia. Accarezzò la mia ruvida barba contro pelo.
– Sembri proprio un barbone! – esclamò scherzosamente.

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