Diario #5

HPIM0694

Campovolo 2005

Foto ritrovata tra le mille cose… e sotto un pezzo di ciò che scrissi al tempo:

 

 

Reggio Emilia. 6:00 am
Il treno era quasi arrivato.
Il sole stava spuntando all’orizzonte, tenue ed indifeso, lasciando schiudere pian piano i miei occhi. Avevamo viaggiato tutta la notte per essere lì.
Gli altri miei compagni di viaggio dormivano ancora ma io ero troppo impaziente per poterlo fare.
Mi alzai cercando di non svegliare nessuno e mi avvicinai al finestrino.
Vidi una grande pianura che sembrava non finire mai.
e in lontananza…
finalmente..
Distante da me una manciata di chilometri…
Lui..
Il Campo Volo…
Il tanto atteso Campo volo!
Iniziai a gridare “Ragazzi! Il campo Volo!.. Il Campo Volo!.. sveglia!.. siamo arrivati!..”
Rimasi lì a guardarlo attonito..
Il palco doveva essere gigantesco..
Le luci erano accese quasi a dire… “Siamo qui… aspettiamo te”…
Era tutto spettacolare…
Il cuore iniziava a battermi..
i miei occhi non erano mai stati tanto vicini al a quel cantante fino ad allora..
trattenevo a stento le lacrime..
Finalmente il treno si fermò..

Frammenti di vita #63

IMG_20160107_105631_editIMG_20160107_105624_edit1

 

Amiche che tornano dalle vacanze cariche come dromedari sulla via della seta e ti obbligano a fare i lavori pesanti…

(p.s. il suo zaino pesava quanto un adolescente obeso e a tratti sembrava scalciare davvero… )

Corsi e Ricorsi Storici (VII)

Passante Porta Venezia

(Foto personale)

Annalisa è un’insegnante di scuola media e svolge questa nobile professione in una scuola del milanese, insieme alla sua amica Lia. Non domandatemi come faccia una come lei a insegnare geografia o italiano a dei poveri studenti annoiati; so solo, (e ne sono certo) che quei preadolescenti passino il tempo a odiarla e amarla allo stesso modo. Del resto, anch’io l’avrei fatto.
Quell’anno, l’insegnante vintage/indy, s’era accaparrata le ferie per l’ambitissimo ponte dell’immacolata. Cosa che non era stato possibile per la sua collega.
Quindi, Lia, in quel momento, era bloccata a lavoro.
Guardavo Anna, mentre camminavamo nel sottopasso della stazione di Porta Venezia. Cercavo di capire a cosa pensasse quella mente incomprensibile. Di solito non ci voleva tanto. Si trattava di capire di cosa stessero discutendo gli unici due neuroni che aveva.
–  Anna… che facciamo? – le chiesi.
Anna si fermò. Si guardò intorno. Cacciò il telefono dalla borsa e compose un numero.
Iniziò a squillare. Me lo porse…
–  Tieni… sto chiamando la segreteria della scuola. Inventati qualcosa per far uscire Lia. –
–  Anna! Ma sei seria? Anna no! Cazz… Pronto è la scuola media *******? Salve. Avrei bisogno di parlare con la signorina Lia ****** è una emergenza. Grazie. –
“Attenda un attimo”
–  Anna ma sei pazza! – dissi sottovoce alla mia amica, gesticolando come un babbuino.
–  Shhh che ti sentono! – rispose
“Pronto chi è? Che è successo?”
Al telefono si sentì una voce femminile. Era Lia. Anna prese il telefono e lo portò al suo orecchio.
–  We, Lia. Ciao. Tranquilla non è successo niente! – rise.
–  Non ancora… forse un omicidio tra poco! – aggiunsi
–  Senti, ti ho preso il biglietto per scendere. Partiamo tra un’ora. –
“Tu cosa? Anna io sono a scuola!”
–  Su esci! Inventati qualcosa! Dai! Ti aspettiamo all’uscita del passante di Porta Venezia, tra un quarto d’ora! –
click
Annalisa ripose il telefono in borsa con estrema calma e mi guardò.
–  Secondo te ce la farà? – mi chiese dubbiosa.
Non risposi. Le presi una ciocca di capelli e iniziai a tirarla.

Poco dopo ci raggiunse Lia. La scuola non era lontana da dove ci trovavamo. La vidi arrivare tutta concitata. Affannata. Chissà cosa si era inventata per uscire. Non volevo saperlo. Non volevo altre grane quel giorno. Volevo tornarmene a casa e cercare di recuperare qualche ora di sonno in un comodo letto. Ero distrutto. Avevo un aspetto orribile. Annalisa aspettava di fianco a me. Guardavamo Lia raggiungerci. Notai però, qualcosa di strano nel volto di Lia. Qualcosa che mi diceva che quella giornata non sarebbe finita lì.

–       Ciao ragazzi! – ci salutò Lia.
–       Ciao tesoro! – rispose Annalisa con un bacio.
La salutai anch’io. Mi sentivo un tappo tra di loro nonostante il mio metro e ottanta. Entrambe erano alte e slanciate. Lia, dopo aver scambiato i soliti convenevoli con Annalisa, abbassò lo sguardo infilando la mano nella borsa.
–       Anna, sono uscita da scuola con una scusa orribile che nemmeno ti spiego! Ma… – disse Lia.
–       Ma?! – dissi in sincrono con Anna.
–       Beh… mi ero dimenticata che, nell’ora precedente, avevo sequestrato due cellulari ai miei alunni… e… non posso portarli con me! E non posso nemmeno tornare a scuola! Come facciamo? –
–       Neanche io posso tornare a scuola! Ho inventato una scusa peggiore della tua per uscire! – rispose Anna.
A quel punto, prevedendo già come sarebbe andata a finire la cosa, feci un paio di passi indietro, come chi cerca di fuggire da un animale pericoloso senza farsi sentire.
Le ragazze, dopo essersi guardate negli occhi per un paio di secondi, si ricordarono della mia presenza e si voltarono all’unisono verso di me.
Spaventato come se la mia finta fuga fosse stata scoperta, alzai le mani in segno di resa dicendo:
– No, Ragazze! Non ci pensate nemmeno! Io non ci vado in quella scuola! –

continua…

Frammenti di vita #10

Italo Treno stazione-1241

In ritorno nella mia adorata Milano…
Anche quest’estate è finita…
Poteva andar meglio… o peggio.
Chi lo sa?
Sono ancora tutto intero però.
Gambe, ossa e fegato sono ancora al loro posto.
La mente no…
La mente muore quando non ho una storia da raccontare…
Ho voglia di scrivere…

Avrò tempo per farlo?

Weekend finanziario (II)

Weekend finanziario 2-1-2

Foto: il mio fedele trolley da viaggio

Appena varcata l’entrata respirai un’aria densa di un vociare continuo, di suoni e rumori familiari, e luce.. tanta, tantissima luce. Feci un respiro profondo e tirai diritto come chi attraversa un percorso irto d’insidie. Scansai gli stands, evitai i promoters, cercai di non fissare le hostess per non attirarle verso di me con i loro volantini. Ero appena arrivato e non volevo caricarmi la borsa con gadjets e pubblicità. Avevo altro per la mente. Cercavo la sala Trader.
La troverò?

Per chi non è mai stato a questo genere di fiere, è importante sapere che spesso ci si perde all’interno di esse. Ogni anno, nell’immensa sala principale, costruiscono un vero e proprio labirinto di stands e da lì, una volta entrato,difficilmente si riesce a trovare la via giusta per la giusta meta. Infatti, mi ero perso.
Chiesi aiuto a una simpatica morettina allo stand dell’Unicredit.
– Scusami, cerco la sala trader… –
– Guarda, devi girare lì e percorrere il corridoio… –
– Grazie! –
– Tieni prendi una penna! Vuoi anche la borsa? Conosci già i nostri Certificates? Vuoi fare il nostro gioco? –
Ommioddio ho scatenato l’inferno, pensai.
Rifiutai ogni cosa con garbo e mi dileguai alla svelta cercando di passare inosservato anche alla hostess di Mediobanca che mi aveva adocchiato.

Arrivai alla sala, preoccupato di essere in ritardo e non trovare posto come sempre. Invece, ero in perfetto anticipo e di posto c’e n’era tanto. Mi sedetti e tirai un lungo sospiro di sollievo.

La sala aveva luci basse, in netto contrasto con l’ambiente della fiera. Ci saranno stati una trentina di persone sedute. Molte teste bianche, pochi giovani… Al centro uno scenografico ring da box con sopra, al posto dei due consueti pugili, due file di scrivanie. Quattro trader per lato e in mezzo una sorta di arbitro a moderare l’incontro.
Tutto artisticamente curato per far spettacolo. La vera sostanza però era la sfida. Ogni trader aveva la sua postazione con il proprio pc collegato alla rete e al grande proiettore della sala. Dietro di me c’era una zona dedita alla regia che controllava lo switch tra i vari schermi sul proiettore, cosicché anche il pubblico potesse osservare i movimenti dei vari trader. Dalle casse si sentì un forte suono di campana che mi destò, e la sfida sul ring partì. La sfida era semplice: guadagnare in borsa più soldi dell’avversario. I trader si sfidavano in coppie da due, come mostrava l’immagine che mandava il proiettore sul telo bianco. Tutto in reale, niente di simulato, soldi finti o robe del genere.
Soldi veri, mercato vero, rischio vero.
Una pazzia. pensai sin dalla prima volta che lessi di questa sfida. Sono dei veri pazzi! 
Penso che lanciarsi da un elicottero in mare sia meno rischioso. Io non lo farei mai, la sfida intendo. Sono d’accordo che per investire in borsa ci voglia un minimo di pazzia (altrimenti compri i Btp e stai a casa) ma qui si esagera.
Per far un paragone. Quando gioco in borsa, la mia stanza è completamente al buio. Non deve filtrare nemmeno un filo di luce. L’unica luce che devo vedere è quella dei miei monitor. Metto i tappi nelle orecchie per attenuare i rumori, m’imbottisco di caffeina e non opero fino a quando non sono perfettamente concentrato. Ovviamente dal lato tecnico curo ogni cosa. Fibra a 100 mega in lan per evitare perdite di dati, pc raffreddato per evitare che si surriscaldi e una cara e vecchia calcolatrice.
Ora, vedere quei tizi lì, su una piccola scrivania non loro, con un portatile collegato ad una chissà quanto precaria rete, osservati da tutti e interrotti a volte dal commentatore per verificare l’andamento della sfida, beh… concorderete con me quanta pazzia ci voglia per farlo con soldi veri.
Intanto la sfida era iniziata. Davanti a me, e ben visibile, avevo il volto del trader polacco che fissava impassibile lo schermo del pc. Era così serio e concentrato. Aveva la tipica fisionomia dell’est europa. Bianchiccio di carnagione, magro, occhi chiarissimi… aveva delle lunghe dita affusolate con cui si grattava il mento. Dal suo volto non traspariva niente… forse perchè non aveva ancora iniziato a giocare. Accanto a lui, sulla stessa fila, c’erano gli altri trader italiani, anche loro concentrati sui propri monitor.
Presi il portatile dalla borsa. L’avevo portato apposta per seguire le quotazioni insieme a loro. Dopotutto, sono un trader anch’io e per un trader il mercato è la sua droga…

Storia di una casa (#34)

2006/2007

– 34 –

Le ore e i giorni passarono in un lampo e il silenzio tornò a essere il mio coinquilino più presente. Gli amici erano appena partiti per tornare a casa: Marco, Enrico, Marta e Cristina. Li salutai alla stazione con quella punta di malinconia che crebbe fino al mio ritorno a casa. Mi buttai subito sul letto come se le forze fossero partite anche loro. Pensavo… Pensavo a quei giorni in cui non provavo tristezza nel salutare un amico. Erano bei giorni allora. Giorni carichi di voglia di vivere, di scoprire insieme le sfaccettature di questo mondo sconosciuto. Trascorrevo così tanto tempo insieme a loro, da diventar loro la mia seconda famiglia: proteggendomi, assistendomi e consolandomi, per non parlare di tutte quelle volte che mi riportarono a casa, sano e salvo. Devo molto a quei ragazzi… e non lo immaginano nemmeno.

Voltai la testa verso la sedia in mezzo alla stanza. Sorrisi. Era ancora lì con il cordone dell’accappatoio che ciondolava indisturbato. “Povero Marco” pensai. “Se l’è meritato però!” E quante volte se l’era meritato! Aveva compiuto così tante cazzate nella sua cronologia che avrei dovuto odiarlo per sempre. Ma la sua generosità e la sua bontà ti scioglievano, disarmandoti. Non avrei mai potuto tenergli il broncio per più di cinque minuti. Era un ragazzo con molti pregi; come quello di farti apprezzare le cose semplici, di tralasciare il valore dei soldi, sempre troppo importanti per me. Enrico invece era diverso. Facevamo a gara a chi era più introverso. Parlavamo sempre poco di noi e sempre troppo degli altri. C’era sempre un profondo rispetto tra noi due. Non saprei dire se lo conosca abbastanza, nonostante sia il mio migliore amico.

E scese la notte. Più pesante del solito. In casa ero solo. Le stanze vuote mi facevano eco. Curioso, decisi di dare una controllata alla camera di Francesco. Aprii lentamente la porta, come a non voler disturbare una persona che non c’era. Sorrisi pensando con meraviglia che anche in quella stanza era notte. Avevo la strana concezione che quella parte di casa era un mondo distinto. Un qualcosa che non mi apparteneva, di non mio. Quest’atteggiamento derivava dal profondo rispetto per le cose, inculcatomi da mio padre. Accesi la luce. I letti erano in ordine. Merito sicuramente delle mie due ospiti femminili. Persino le ciabatte del mio coinquilino erano tornate al loro posto. Il divano, doveva aveva dormito Marco, non aveva niente che non andava. Dovrei dare più fiducia a quel ragazzo.

Notai che la finestra era aperta. Qualcuno dei ragazzi aveva pensato bene di far arieggiare la stanza prima di andarsene. Andai a chiuderla e sentii un rumore provenire dal bagno. Pensai che la corrente d’aria avesse chiuso d’impeto l’altra finestra. Andai in bagno a chiudere anche quella. Qualcosa però, stranamente, la bloccava. Provai più volte a chiuderla ma non ci riuscii. Ispezionai i bordi della cornice scoprendo un inghippo metallico che impediva la chiusura. Tirai fuori l’oggetto dalla guarnizione. Era una monetina. Una cento lire del ‘78 sulla cui faccia risaltava la testa dell’Italia laureata che rifletteva la luce della lampadina a incandescenza del bagno. Come un flash, mi tornò alla mente l’immagine di Marco che faceva ruotare quella moneta tra le dita, dicendo: “Questa è il mio portafortuna!” Gli sarà sicuramente caduta in quella serata brava che scappò dal bagno alla ricerca dell’ultimo goccio di Jack. Scossi la testa disapprovando quei momenti. Afferrai il cellulare.
“Marco, ho qui con me la tua cento lire… Appena ci vediamo te la rendo.”
“Bene! Ma tienila tu… così ti porterà un po’ di fortuna, che ne hai bisogno!”
…e ci sperai, e spero ancora, che quella tanto amata fortuna, un giorno arrivi.

Fine Seconda Parte

Storia di una casa (#32)

2006/2007

– 32 –

Silenziosamente entrò in casa una figura dai tratti femminili. Si aggirò tra le stanze dell’appartamento in apparente ricerca di qualcosa. Il mattino era appena spuntato e la luce del sole volava basso, convogliata da tapparelle semichiuse. In una mano, stringeva un sacchetto di carta bianca che scricchiolava a ogni suo movimento. Vide davanti a se la porta della mia stanza. Accarezzò la maniglia, ma un istante prima di aprirla, si bloccò, come se le fosse venuta in mente qualcosa e, curiosa, si diresse verso la camera di Francesco. Ovviamente Francesco non c’era, ma al suo posto poté ammirare quattro ragazzi arrangiati alla meglio in tre letti. Vide Enrico, il più fortunato di tutti, che da solo occupava un letto intero, tutto per sé. Non potevano dire lo stesso Marta e Cristina, poco più in là, costrette a dividere un letto in due. Vicino alla porta, invece, sopra un divano cigolante, c’era Marco avvolto in una coperta di lana. L’oscura ragazza sorrise alla simpatica scena dell’accampamento domestico e lentamente uscì dalla stanza senza farsi sentire. Ritornò sui suoi passi lentamente, in modo che le scarpe non risuonassero sul pavimento. Tornò alla maniglia e questa volta l’aprì decisa e, come il siparista di un teatro, scoprì la scena tanto attesa. Subito i suoi occhi corsero al mio letto, si arrampicarono sul piumone rosso, per poi adagiarsi sul mio viso. Si avvicinò, domandandosi ad ogni passo sé stessi realmente dormendo. Sentii un peso appoggiarsi di fianco e poco dopo una mano carezzarmi la guancia. – Buongiorno Amore… – mi sussurrò all’orecchio.
A quel punto mi svegliati. Aprii gli occhi fulminandomi la retina con la luce del mattino.
–       Amore? – chiesi spaventato. Mi voltai e vidi lei: la ragazza misteriosa era Francesca.
–       Come hai fatto a entrare? – chiesi sfregandomi un occhio.
–       Hai dimenticato di chiudere la porta… –
Mi grattai la testa ammettendo che la sera prima avevamo sorvolato su molte imprudenze. Ma la conversazione con Francesca non era finita perché, improvvisamente, mi afferrò un orecchio e iniziò a torcerlo con violenza. – Perché non hai risposto al telefono ieri sera?! –
–       Ahia! Ahia! Non l’ho sentito! Ahia! –
–       Certo! Che cosa stavi facendo? –
–       Se te lo dicessi, non ci crederesti… –
Per la gioia del mio orecchio mi lasciò andare. Vedendomi dolorante, mi diede un bacio a mo’ di scuse e mi porse il sacchetto bianco.
–       Ci sono dei cornetti dentro. Ne ho presi 5… siete in 5 giusto? –
–       Sì… siamo cinque. Sono tutti nella stanza di Francesco. –
Svogliato e sonnolento mi alzai trascinando inavvertitamente un lembo delle lenzuola. Il letto non voleva lasciarmi andar via. Andai verso la stanza in cui dormivano i ragazzi.

–       Sveglia ciurmaglia! – esclamai.
Seguirono mugugni e rantoli di vario genere. Nessuno sembrava intenzionato ad alzarsi.
–       Ci sono i cornetti… – proseguii sventolando il sacchetto bianco.
Ad uno ad uno i piccoli occhietti dei miei amici sbocciarono come fiori a primavera. Mi fissarono per controllare l’esistenza effettiva dei cornetti e dopo averla valutata plausibile, lentamente, si alzarono.
Presentai i miei amici a Francesca aggiungendo che era stata lei a portare le brioches.
–       Grazie Francesca… non dovevi… ce n’è uno alla crema? – disse Marco con il suo solito charme. Anche Enrico non fu da meno, fiondandosi subito a rovistare nel sacchetto dopo una fugace presentazione.
–       …E queste sono Marta e Cristina… – dissi timoroso delle conseguenze.
Invece, Francesca si mostrò subito affabile e cordiale. Cristina era partita con un discorso impostato sullo scusarsi dell’improvvisata in casa mia. Marta continuò col dire che non erano a conoscenza del mio status di fidanzato né tantomeno che avessi una ragazza lì a Milano. A quel punto tutte e tre, si girarono e mi guardarono male.
–       Non gli avevi ancora detto che sei fidanzato?! – sbottò Francesca velatamente incitata dalle altre due.
Non c’era niente da fare, toccava solo arrendersi. La solidarietà femminile aveva ancora una volta scaricato la colpa sul solito maschio di turno. Mi svincolai con una mossa repentina, fiondandomi nel porto sicuro dei miei amici maschi, ancora intenti a mangiucchiare il cornetto.

Storia di una casa (#28)

2006/2007

– 28 –

“…Ospitarci per un paio di giorni.”

Era passato quasi un mese da quel breve messaggio che i miei amici mi avevano inviato. Ne fui colpito, meravigliato, emozionato. Quei ragazzi volevano farmi capire che, seppur lontani fisicamente, c’erano ancora, e nulla era cambiato. Invece io mi sentivo tremendamente in colpa ad averli abbandonati, allontanandomi per andare dall’altra parte dell’Italia a studiare. Ripensai a come, in passato, faticosamente ero riuscito a farmi qualche amico ed entrare in un gruppo già avviato, nonostante il mio carattere molto introverso; per poi abbandonarli tutti, dopo una manciata di anni, come vecchi oggetti che non funzionano più, che non danno più soddisfazione; e corsi via zaino in spalle, dai nostri luoghi, dalle nostre vite, dalle nostre strade…
Per finire qui, al quinto piano di un palazzo a osservare la strada inondata di foglie autunnali.
“Chissà da dove vengono queste foglie?” pensai, visto che la zona verde più vicina era a più di un centinaio di metri. “L’autunno è una stagione così strana.” Non si riesce mai a capire che tempo ci sia e quindi vestirsi di conseguenza. Vedevo persone in strada alternarsi chi in cappotti con sciarpe e chi in felpe con tute. Chi avesse azzeccato l’abbigliamento adatto avremo potuto saperlo solo a fine giornata.

Uno squillo di cellulare interruppe i miei pensieri volti chiaramente alla perdita di tempo.
“Stiamo arrivando” diceva il messaggio e accrebbe la mia inguaribile ansia.

Tornai a guardare la strada in direzione dell’uscita della metro. Sbirciavo i visi delle persone, cercando di scorgere quelli dei miei amici. Aspettavo Enrico e Marco, e forse qualcun altro che, sicuramente, s’era aggiunto ai viaggiatori nonostante il mio diniego.
L’ansia ticchettava e iniziai a contare le persone che sbucavano nel mio campo visivo stradale, come fossero secondi di un timer: 1, 2, 3,… Ed ognuna di essa si sottoponeva involontariamente al mio scanner visivo, dotato di commenti pregiudizievoli: troppo alto, troppo magro, non si vestirebbe mai così…
Conoscevo così bene i miei amici da poterli descrivere ad occhi chiusi e sapere già in anticipo come si sarebbero vestiti.
Mentre il mio timer di persone scorreva al numero 36, intravidi una persona dalla fisionomia conosciuta. Anche i modi e soprattutto la capigliatura rasta coincidevano con le sembianze di Marco. Subito dopo di lui, come da conferma, al numero 37, riconobbi Enrico con uno strano cappello che portava con sé un enorme borsone. Sorrisi nel vederli e il mio cuore si riempì di gioia. Ero impaziente che arrivassero­ davanti al mio palazzo.
Quand’è che entrambi si fermarono e si voltarono indietro ad osservare chissà chi. Subito la gioia si trasformò in ardente curiosità e…
“No… non può essere!”
Appena qualche metro più in là, vidi avvicinarsi ad Enrico una ragazza dall’inconfondibile massa mammaria più volte oggetto delle mie attenzioni.
Aguzzai gli occhi: “Marta, la sorella di Marco… cosa ci fa qui?!”
Ma le soprese non erano finite. Si avvicinò un’altra figura femminile al gruppetto, che sfoggiava un’inconfondibile capigliatura dal taglio maschile.
“No… anche lei!”
Cristina era un’amica stretta di Marta e una delle ragazze del gruppo che non avrei mai immaginato venisse a trovarmi.
Continuavo a fissare imbambolato i miei amici sperando che alzassero gli occhi al cielo e vedessero la mia disapprovazione mista a felicità. Non fu così e seguii il loro cammino in strada fin sotto il mio balcone.

Suonò il citofono e corsi a rispondere
– Sì chi è? –
– Ciro! Apri siamo noi! –
– No! Non vi apro! Vi ho visto! Siete in troppi! –
Non attesi risposta, spinsi il bottone e il portone si aprì.

Storia di una casa (#24)

2006/2007

 – 24 –

La caffettiera fumava e brontolava in un insolito sabato mattina. Insolito, perché l’ospite cui stavo servendo il caffè, non immaginava affatto di doversi catapultare lì a quell’ora.
Solo per una strana coincidenza e un maldestro disguido, mi trovai, seduto al tavolo della cucina, con Paola.
–       … Quindi studi economia? – mi chiese.
–       Sì, ho appena iniziato… –
– Anch’io ho studiato economia, e l’anno scorso sono andata in erasmus in Cina. –
–       In Cina?! –
–       Sì, è stata una bella esperienza e poi i cinesi sono così simpatici… –
–       Mah… io non so se avrei il coraggio di andare così lontano… e in Cina per giunta! –
Paola mi raccontò un po’ di sé. I capelli biondi le incorniciavano una faccia acqua e sapone e gli occhi azzurri le davano un’aria da ragazzina ingenua. I suoi discorsi, invece, smentivano l’apparenza, rivelando la ragazza matura qual era. Aveva studiato le stesse materie difficili che stavo apprendendo; aveva fatto pratica lavorando; aveva viaggiato all’estero standoci per mesi e mesi, al contrario di me che ancora restavo affezionato al suolo italiano. Fu curioso ascoltare il suo percorso accademico nell’ambito economico. Sembrava un modello da seguire, un miraggio, un angelo catapultato in casa per indicarmi la via giusta. Forse, qualcuno lassù aveva ascoltato le mie ansie e le mie paure per il futuro incerto, su una dissestata carriera universitaria.
–       Oh cavolo… devo andare! Ciro… è stato un piacere conoscerti. –
–       Anche per me… –
–       Grazie per il caffè… era buono. –
–       Come sei brava a dire le bugie! –
Paola mi sorrise e se ne andò. Non servì che l’accompagnai perché conosceva l’uscita di casa alla perfezione. Chiusi il portone e guardai le chiavi nella mia mano pensando al perché quella ragazza era finita in casa mia.

Qualche ora prima dormivo beatamente in un letto che ancora doveva prendere la mia forma. Con molta difficoltà, abbracciai Morfeo, che stranamente aveva assunto le sembianze del mio cuscino. Il rumore del portone che si chiuse mi svegliò e, guardando il sole già alto, capii che era troppo tardi per fare colazione. Solo a quel punto mi accorsi che, mentre un piede veniva coccolato dal tepore delle coperte, l’altro era intento a saggiare la fresca aria di fine ottobre da chissà quante ore. Sentii un rumore di chiavi e poi nulla più.
Francesco è partito. Pensai.
Mi alzai zoppicando sul piede congelato. Trascinai il mio corpo in bagno e dopo qualche colpo d’acqua in faccia, il mondo tornò a colori. Mi spogliai, mi vestii e fui pronto per l’appuntamento con la mia ragazza. Sarei andato a prenderla a scuola in quel di Lodi, ma dovevo sbrigarmi per non fare tardi. Chiusi la porta della stanza e fui davanti al portone dell’appartamento. Lo guardai sapendo che Francesco lo aveva chiuso prima di andarsene. Così appoggiai la mano sul mobiletto in vetro accanto all’entrata. Stranamente la mia mano non riusciva ad afferrare le chiavi cosicché guardai e vidi che effettivamente non c’erano.
Merda. Sicuramente le aveva prese Francesco scambiandole per le sue. Avevamo preso entrambi l’abitudine di poggiare le chiavi su quel mobiletto, sia all’uscita che al ritorno. Presi il cellulare e cercai il numero nella rubrica ma, prima di chiamarlo, mi avvicinai alla sua stanza.
Forse la sua copia è in camera sua…
Aprii e in punta di piedi entrai. Guardai ovunque ma non trovai niente che assomigliasse a una chiave. Mandai un messaggio a Francesco che, profondamente dispiaciuto, mi comunicò che si trovava su un treno diretto verso sud e che aveva con sé entrambe le copie.
Dannazione! Dissi muovendo la maniglia in modo compulsivo. Come avrei fatto a uscire?
Per prima cosa rovistai in ogni angolo della casa alla ricerca di una fantomatica chiave di riserva. Correvo in giro per la casa come un forsennato per ritrovarmi in balcone con l’idea strampalata di saltare su quello del mio vicino. Ma, mentre stavo per alzare una gamba oltre il parapetto, ebbi un acceso diverbio con la mia coscienza che mi ricordò di essere al quinto piano e che, presentarsi in casa d’altri attraverso il balcone non sembrava molto gradevole. Tornai sui miei passi. Mi sedetti a terra e, cellulare alla mano, chiamai la mia ultima chance.
–       Pronto signora… avrei bisogno di aiuto. Vede… sono rimasto chiuso dentro! –
–       Oddio Ciro! E ora come si fa? Non posso muovermi ora! Sono fuori tutto il giorno. –
–       Quindi sono in prigione in pratica! –
–       Beh… forse c’è una soluzione. Chiamo mia figlia Paola… speriamo che sia a Milano. –
–       Speriamo… –

Blog su WordPress.com.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: