A Neverending Summer (I)

A neverendign Summer (I)

Ansie, paure, pensieri… tutti lì fuori ad aspettarmi

– Tu mi vuoi far morireeeee! – gridò Gianni dal sedile passeggero della mia Ford fiesta.

Erano le nove e mezza passate. La notte era scesa prima del previsto, segno che le giornate si stavano accorciando. Guidavo o qualcosa di simile. Tenevo il volante bloccato con un ginocchio mentre finivo di scrivere una mail sulla querty del mio cellulare.
– Stai andando addosso a quel ciclista!! – urlò.
– Si l’ho visto! –
– Quello è un camion!! –
– Cavolo da dove è sbucato? – dissi evitandolo per un soffio.
– Basta! Dammi quel cellulare!! –
– No aspetta! Ho quasi finito! –
Gianni mi strappò il cellulare di mano. Cercai di riprendermelo mentre lui lo teneva sospeso lontano da me, proprio come si faceva alle elementari per prendere in giro gli altri ragazzini. – Ridammelo! – gli intimai, girato nella sua direzione. – No! –

Peeeee Peeeeee

Il suono di un clacson strombazzante ci fece girare entrambi verso la strada. Una panda blu guidata da un’ingenua e impaurita ragazza ci stava venendo addosso. In realtà eravamo noi ad andare addosso a lei, visto che eravamo dalla parte sbagliata della strada. Afferrai il volante e la scansai con una rapida manovra. La ragazza, con qualche anno di vita in meno, continuò a strombazzare anche dopo averci superati o sfiorati, per definire meglio la cosa.
Tornai a guardare Gianni. – Ridammelo! – gli dissi. Lui mi guardò e impugnò, minaccioso, la leva del freno a mano.
– Ciro, fermati e fammi guidare! Voglio vivere ancora un po’ io! – disse, mentre minacciava di tirare quella leva per bloccare la macchina.
Per evitare grane con Gianni, alzai le mani e accostai. Subito si mise alla guida e il viaggio continuò più tranquillamente. Tirai fuori dalla borsa la mia fotocamera. Montai un obbiettivo adatto e iniziai a fare qualche foto alle macchine.
Il buio, le luci dei lampioni, i fari e la striscia di mezzeria davanti a noi contribuivano ad alimentare quella strana e bella sensazione che invase il mio cuore.
Dietro di noi non c’era una strada… ma i miei pensieri. Fuggivamo da quelli. Fuggivamo dalla realtà. Per un attimo mi girai indietro sperando che fosse davvero così. Sarebbe stato troppo facile. E infatti, dietro, attraverso il lunotto posteriore vedevo solo macchine e strada, fari e lampioni. Le stesse cose che avevo davanti.
Maledizione… ci sarà una cura? Spero che questa fuga serva a qualcosa…

Il piano di quella sottospecie di vacanza era semplice. In barba ad ogni progetto che la mia mente ansiogena cercava di sprigionare, mi limitai a un semplice “Partiamo!”. Spiazzai la maggior parte degli organi rimasti che si riunirono in un assemblea condominiale. Il cuore chiese alla mente se fosse entrata in ferie in quel periodo visto che la dose di razionalità era brutalmente calata. La mente rispose con un secco “fatti i cazzi tuoi!” e tutti gli altri, stomaco, fegato e polmoni iniziarono ad applaudire con un conseguente boato. I polmoni, contenti del risultato, mi permisero di respirare aria dal dolce sapore di libertà.

Gianni colse al volo il mio invito e saltò a bordo della mia macchina in un batter d’occhio.
Direzione sud, Palinuro, a circa 200 chilometri da casa.
La più vicina patria del divertimento!

Storia di una casa (#34)

2006/2007

– 34 –

Le ore e i giorni passarono in un lampo e il silenzio tornò a essere il mio coinquilino più presente. Gli amici erano appena partiti per tornare a casa: Marco, Enrico, Marta e Cristina. Li salutai alla stazione con quella punta di malinconia che crebbe fino al mio ritorno a casa. Mi buttai subito sul letto come se le forze fossero partite anche loro. Pensavo… Pensavo a quei giorni in cui non provavo tristezza nel salutare un amico. Erano bei giorni allora. Giorni carichi di voglia di vivere, di scoprire insieme le sfaccettature di questo mondo sconosciuto. Trascorrevo così tanto tempo insieme a loro, da diventar loro la mia seconda famiglia: proteggendomi, assistendomi e consolandomi, per non parlare di tutte quelle volte che mi riportarono a casa, sano e salvo. Devo molto a quei ragazzi… e non lo immaginano nemmeno.

Voltai la testa verso la sedia in mezzo alla stanza. Sorrisi. Era ancora lì con il cordone dell’accappatoio che ciondolava indisturbato. “Povero Marco” pensai. “Se l’è meritato però!” E quante volte se l’era meritato! Aveva compiuto così tante cazzate nella sua cronologia che avrei dovuto odiarlo per sempre. Ma la sua generosità e la sua bontà ti scioglievano, disarmandoti. Non avrei mai potuto tenergli il broncio per più di cinque minuti. Era un ragazzo con molti pregi; come quello di farti apprezzare le cose semplici, di tralasciare il valore dei soldi, sempre troppo importanti per me. Enrico invece era diverso. Facevamo a gara a chi era più introverso. Parlavamo sempre poco di noi e sempre troppo degli altri. C’era sempre un profondo rispetto tra noi due. Non saprei dire se lo conosca abbastanza, nonostante sia il mio migliore amico.

E scese la notte. Più pesante del solito. In casa ero solo. Le stanze vuote mi facevano eco. Curioso, decisi di dare una controllata alla camera di Francesco. Aprii lentamente la porta, come a non voler disturbare una persona che non c’era. Sorrisi pensando con meraviglia che anche in quella stanza era notte. Avevo la strana concezione che quella parte di casa era un mondo distinto. Un qualcosa che non mi apparteneva, di non mio. Quest’atteggiamento derivava dal profondo rispetto per le cose, inculcatomi da mio padre. Accesi la luce. I letti erano in ordine. Merito sicuramente delle mie due ospiti femminili. Persino le ciabatte del mio coinquilino erano tornate al loro posto. Il divano, doveva aveva dormito Marco, non aveva niente che non andava. Dovrei dare più fiducia a quel ragazzo.

Notai che la finestra era aperta. Qualcuno dei ragazzi aveva pensato bene di far arieggiare la stanza prima di andarsene. Andai a chiuderla e sentii un rumore provenire dal bagno. Pensai che la corrente d’aria avesse chiuso d’impeto l’altra finestra. Andai in bagno a chiudere anche quella. Qualcosa però, stranamente, la bloccava. Provai più volte a chiuderla ma non ci riuscii. Ispezionai i bordi della cornice scoprendo un inghippo metallico che impediva la chiusura. Tirai fuori l’oggetto dalla guarnizione. Era una monetina. Una cento lire del ‘78 sulla cui faccia risaltava la testa dell’Italia laureata che rifletteva la luce della lampadina a incandescenza del bagno. Come un flash, mi tornò alla mente l’immagine di Marco che faceva ruotare quella moneta tra le dita, dicendo: “Questa è il mio portafortuna!” Gli sarà sicuramente caduta in quella serata brava che scappò dal bagno alla ricerca dell’ultimo goccio di Jack. Scossi la testa disapprovando quei momenti. Afferrai il cellulare.
“Marco, ho qui con me la tua cento lire… Appena ci vediamo te la rendo.”
“Bene! Ma tienila tu… così ti porterà un po’ di fortuna, che ne hai bisogno!”
…e ci sperai, e spero ancora, che quella tanto amata fortuna, un giorno arrivi.

Fine Seconda Parte

Storia di una casa (#33)

2006/2007

– 33 –

Era come essere davvero a casa. Gli amici arricchivano l’atmosfera turbata da molti mesi di solitudine. Con loro, sentivo questa città più vicina. Il freddo inizio, si stava pian piano accendendo, sotto i colpi di giorni piacevoli. Ero ostinato ad abbattere la malinconia della lontananza da casa, ma da solo non ce l’avrei mai fatta. Servivano sorrisi, facce felici, qualche battuta qua e là; e i miei amici erano molto bravi in questo.

-… e poi salì sul treno inaspettatamente! –
– Il solito Ciro! –
-..non mi sarei mai aspettata una cosa del genere! Poi quel giorno ero pure un disastro… –

Seduta sul mio letto, Francesca snocciolava i risvolti più minuziosi del nostro primo incontro. Marta e Cristina bramavano dettagli come se si fossero perse la più importante delle puntate di una telenovela. Avevo condiviso con parecchie serate con le mie amiche e avevo sempre mostrato il mio lato duro. Ora per loro, venire a conoscenza del mio lato “tenero” era un’occasione unica.
-… e poi? –
– Poi quello stronzo fece anche l’offeso! Se né andò nell’altra carrozza! –
– Che scemo… –
– Dovetti rincorrerlo… –

Alla scrivania invece, Marco mi stava mostrando l’ultimo video più cliccato della rete. Ne conosceva una più del diavolo quel ragazzo. Osservai il video divertito, quando improvvisamente entrò in camera Enrico. Sentii un rumore inconsueto, di suole di gomma dura, provenire esattamente dai suoi piedi. Con tono indagatore chiesi:
–       Enrico, dove hai preso quelle ciabatte? –
–       Boh… non so… erano di là. –
–       Di là dove? –
–       Nella camera del tuo coinquilino! –
–       …ai piedi del suo letto immagino… –
–       Precisamente… –
–       Togliti immediatamente quelle ciabatte!! – gli urlai.
Enrico tornò nell’altra stanza borbottando. Marco rise alzandosi dalla sedia per seguirlo. Lo fermai sulla porta chiedendogli il perché abbandonasse la nostra sessione di video a caso. Mi rispose: – Anch’io indosso qualcosa del tuo coinquilino… ma non saprai mai cos’è! –
Non volli saperlo e lo lasciai andare di là sperando che quei due non combinassero altri guai.
Mi diressi in cucina. Qualcuno doveva pur fare i doveri domestici. C’erano pentole e piatti accumulati nel lavello da più giorni. Mi rimboccai le maniche controvoglia e scardinai la montagna, piatto dopo piatto.

Tornato in stanza, notai Marco confabulare qualcosa con la mia ragazza. Appena accortisi della mia presenza, mi fissarono silenziosi. Trattennero a stento un risolino malizioso.
–       Che combinate voi due! –
–       Niente… –
Guardai in giro sospettoso. Quei due non la raccontavano giusta. Alzai lo sguardo e scoprii l’arcano. Sulla maglietta del mio cantante preferito erano spuntati due baffi artificiali.
–       Che cosa avete combinato! – dissi, prendendo una sedia per rimuovere il pezzo di carta. Quando però, avvicinai la mano alla maglietta appesa al quadro, notai che, dopotutto, non stavano cosi tanto male, sorrisi e scesi dalla sedia.  Guardai ancora la maglietta con aria divertita.
–       Li toglierò quando ve ne andrete via! –
Dissi, ma quei baffi appesi maldestramente alla faccia del mio cantante, stettero lì per molti anni a seguire.

Storia di una casa (#32)

2006/2007

– 32 –

Silenziosamente entrò in casa una figura dai tratti femminili. Si aggirò tra le stanze dell’appartamento in apparente ricerca di qualcosa. Il mattino era appena spuntato e la luce del sole volava basso, convogliata da tapparelle semichiuse. In una mano, stringeva un sacchetto di carta bianca che scricchiolava a ogni suo movimento. Vide davanti a se la porta della mia stanza. Accarezzò la maniglia, ma un istante prima di aprirla, si bloccò, come se le fosse venuta in mente qualcosa e, curiosa, si diresse verso la camera di Francesco. Ovviamente Francesco non c’era, ma al suo posto poté ammirare quattro ragazzi arrangiati alla meglio in tre letti. Vide Enrico, il più fortunato di tutti, che da solo occupava un letto intero, tutto per sé. Non potevano dire lo stesso Marta e Cristina, poco più in là, costrette a dividere un letto in due. Vicino alla porta, invece, sopra un divano cigolante, c’era Marco avvolto in una coperta di lana. L’oscura ragazza sorrise alla simpatica scena dell’accampamento domestico e lentamente uscì dalla stanza senza farsi sentire. Ritornò sui suoi passi lentamente, in modo che le scarpe non risuonassero sul pavimento. Tornò alla maniglia e questa volta l’aprì decisa e, come il siparista di un teatro, scoprì la scena tanto attesa. Subito i suoi occhi corsero al mio letto, si arrampicarono sul piumone rosso, per poi adagiarsi sul mio viso. Si avvicinò, domandandosi ad ogni passo sé stessi realmente dormendo. Sentii un peso appoggiarsi di fianco e poco dopo una mano carezzarmi la guancia. – Buongiorno Amore… – mi sussurrò all’orecchio.
A quel punto mi svegliati. Aprii gli occhi fulminandomi la retina con la luce del mattino.
–       Amore? – chiesi spaventato. Mi voltai e vidi lei: la ragazza misteriosa era Francesca.
–       Come hai fatto a entrare? – chiesi sfregandomi un occhio.
–       Hai dimenticato di chiudere la porta… –
Mi grattai la testa ammettendo che la sera prima avevamo sorvolato su molte imprudenze. Ma la conversazione con Francesca non era finita perché, improvvisamente, mi afferrò un orecchio e iniziò a torcerlo con violenza. – Perché non hai risposto al telefono ieri sera?! –
–       Ahia! Ahia! Non l’ho sentito! Ahia! –
–       Certo! Che cosa stavi facendo? –
–       Se te lo dicessi, non ci crederesti… –
Per la gioia del mio orecchio mi lasciò andare. Vedendomi dolorante, mi diede un bacio a mo’ di scuse e mi porse il sacchetto bianco.
–       Ci sono dei cornetti dentro. Ne ho presi 5… siete in 5 giusto? –
–       Sì… siamo cinque. Sono tutti nella stanza di Francesco. –
Svogliato e sonnolento mi alzai trascinando inavvertitamente un lembo delle lenzuola. Il letto non voleva lasciarmi andar via. Andai verso la stanza in cui dormivano i ragazzi.

–       Sveglia ciurmaglia! – esclamai.
Seguirono mugugni e rantoli di vario genere. Nessuno sembrava intenzionato ad alzarsi.
–       Ci sono i cornetti… – proseguii sventolando il sacchetto bianco.
Ad uno ad uno i piccoli occhietti dei miei amici sbocciarono come fiori a primavera. Mi fissarono per controllare l’esistenza effettiva dei cornetti e dopo averla valutata plausibile, lentamente, si alzarono.
Presentai i miei amici a Francesca aggiungendo che era stata lei a portare le brioches.
–       Grazie Francesca… non dovevi… ce n’è uno alla crema? – disse Marco con il suo solito charme. Anche Enrico non fu da meno, fiondandosi subito a rovistare nel sacchetto dopo una fugace presentazione.
–       …E queste sono Marta e Cristina… – dissi timoroso delle conseguenze.
Invece, Francesca si mostrò subito affabile e cordiale. Cristina era partita con un discorso impostato sullo scusarsi dell’improvvisata in casa mia. Marta continuò col dire che non erano a conoscenza del mio status di fidanzato né tantomeno che avessi una ragazza lì a Milano. A quel punto tutte e tre, si girarono e mi guardarono male.
–       Non gli avevi ancora detto che sei fidanzato?! – sbottò Francesca velatamente incitata dalle altre due.
Non c’era niente da fare, toccava solo arrendersi. La solidarietà femminile aveva ancora una volta scaricato la colpa sul solito maschio di turno. Mi svincolai con una mossa repentina, fiondandomi nel porto sicuro dei miei amici maschi, ancora intenti a mangiucchiare il cornetto.

Storia di una casa (#28)

2006/2007

– 28 –

“…Ospitarci per un paio di giorni.”

Era passato quasi un mese da quel breve messaggio che i miei amici mi avevano inviato. Ne fui colpito, meravigliato, emozionato. Quei ragazzi volevano farmi capire che, seppur lontani fisicamente, c’erano ancora, e nulla era cambiato. Invece io mi sentivo tremendamente in colpa ad averli abbandonati, allontanandomi per andare dall’altra parte dell’Italia a studiare. Ripensai a come, in passato, faticosamente ero riuscito a farmi qualche amico ed entrare in un gruppo già avviato, nonostante il mio carattere molto introverso; per poi abbandonarli tutti, dopo una manciata di anni, come vecchi oggetti che non funzionano più, che non danno più soddisfazione; e corsi via zaino in spalle, dai nostri luoghi, dalle nostre vite, dalle nostre strade…
Per finire qui, al quinto piano di un palazzo a osservare la strada inondata di foglie autunnali.
“Chissà da dove vengono queste foglie?” pensai, visto che la zona verde più vicina era a più di un centinaio di metri. “L’autunno è una stagione così strana.” Non si riesce mai a capire che tempo ci sia e quindi vestirsi di conseguenza. Vedevo persone in strada alternarsi chi in cappotti con sciarpe e chi in felpe con tute. Chi avesse azzeccato l’abbigliamento adatto avremo potuto saperlo solo a fine giornata.

Uno squillo di cellulare interruppe i miei pensieri volti chiaramente alla perdita di tempo.
“Stiamo arrivando” diceva il messaggio e accrebbe la mia inguaribile ansia.

Tornai a guardare la strada in direzione dell’uscita della metro. Sbirciavo i visi delle persone, cercando di scorgere quelli dei miei amici. Aspettavo Enrico e Marco, e forse qualcun altro che, sicuramente, s’era aggiunto ai viaggiatori nonostante il mio diniego.
L’ansia ticchettava e iniziai a contare le persone che sbucavano nel mio campo visivo stradale, come fossero secondi di un timer: 1, 2, 3,… Ed ognuna di essa si sottoponeva involontariamente al mio scanner visivo, dotato di commenti pregiudizievoli: troppo alto, troppo magro, non si vestirebbe mai così…
Conoscevo così bene i miei amici da poterli descrivere ad occhi chiusi e sapere già in anticipo come si sarebbero vestiti.
Mentre il mio timer di persone scorreva al numero 36, intravidi una persona dalla fisionomia conosciuta. Anche i modi e soprattutto la capigliatura rasta coincidevano con le sembianze di Marco. Subito dopo di lui, come da conferma, al numero 37, riconobbi Enrico con uno strano cappello che portava con sé un enorme borsone. Sorrisi nel vederli e il mio cuore si riempì di gioia. Ero impaziente che arrivassero­ davanti al mio palazzo.
Quand’è che entrambi si fermarono e si voltarono indietro ad osservare chissà chi. Subito la gioia si trasformò in ardente curiosità e…
“No… non può essere!”
Appena qualche metro più in là, vidi avvicinarsi ad Enrico una ragazza dall’inconfondibile massa mammaria più volte oggetto delle mie attenzioni.
Aguzzai gli occhi: “Marta, la sorella di Marco… cosa ci fa qui?!”
Ma le soprese non erano finite. Si avvicinò un’altra figura femminile al gruppetto, che sfoggiava un’inconfondibile capigliatura dal taglio maschile.
“No… anche lei!”
Cristina era un’amica stretta di Marta e una delle ragazze del gruppo che non avrei mai immaginato venisse a trovarmi.
Continuavo a fissare imbambolato i miei amici sperando che alzassero gli occhi al cielo e vedessero la mia disapprovazione mista a felicità. Non fu così e seguii il loro cammino in strada fin sotto il mio balcone.

Suonò il citofono e corsi a rispondere
– Sì chi è? –
– Ciro! Apri siamo noi! –
– No! Non vi apro! Vi ho visto! Siete in troppi! –
Non attesi risposta, spinsi il bottone e il portone si aprì.

Storia di una casa (#21)

2006/2007

– 21 –

Abbassai gli occhi tristi e rassegnati che speravano che un cielo clemente consegnasse alla vista qualche stella. Era tutto troppo luminoso perché la notte fosse davvero buia e il panorama migliore. E quasi invidiavo ciò che un tempo trovavo normale mentre tornavo tardi nella mia villetta di campagna. Lì il cielo mi coccolava, animando il tragitto con un tappeto di stelle sopra la mia cresta; e ogni volta che tornavo, magari stanco, ubriaco, disilluso, puntavo il naso all’insù e mi gustavo qualche istante dello spettacolo di ogni notte; e ogni notte mi promettevo che la notte successiva mi sarei fermato qualche momento in più; ma più i giorni passavano e più vicende alterate si sommavano al quadro generale… e rimandavo quel momento in eterno…

TRiiiiiiiinnnnnnn TRiiiiiiiiiiinnnn

Un suono squillante mi fece voltare di scatto verso la porta della mia stanza. Rientrai dal balcone e mi diressi nell’atrio. Capii subito che era il citofono ma aspettai un altro squillo per averne la conferma. Nell’attesa mi domandai chi mai potesse essere a quell’ora.

TRiiiiiiinnnn

–    Si? –
–    Ciao Ciro, sono Francesco! –
–  Ah Francesco! Che sorpresa! Ora ti apro… Aspetta che capisco come si fa… –

Schiacciai a caso alcuni tasti finché dalla cornetta non sentii il rumore metallico del pistoncino che scattava. Restai ancora ad ascoltare sperando che Francesco non incorresse in nessun intoppo nel suo ingresso nel palazzo. Poi, quando sentii il portone chiudersi, appesi la cornetta e crebbe in me un’ansia spropositata dominata dalla curiosità morbosa di sapere che aspetto avesse questo futuro coinquilino.
Con la mano tremolante girai la chiave per aprire il portone. Di fronte, un ascensore silenzioso attendeva il suo passeggero. Ma i minuti passavano e niente si muoveva. La strana attesa mi fece pensare che quel ragazzo odiasse i piccoli ascensori degli anni settanta. Così mi affacciai sulla tromba delle scale nell’intento di scrutare l’ombra di Francesco. Niente. Nel palazzo sembrava che nessuno fosse entrato. Deserto. Nessun rumore, nessuna voce, nessun suono. Stavo dubitando che quel ragazzo fosse effettivamente entrato ma ecco che la lucina dell’ascensore si posizionò su occupato e il motore iniziò a girare. Qualcuno stava salendo, doveva essere lui.
Tornai in casa lasciando il portone aperto per far capire al nuovo inquilino la corretta via da seguire. Sull’uscio, nel frattempo, osservai il portone della casa di fronte. Ancora non sapevo chi ci abitasse e feci diverse congetture, immaginando un’arzilla vecchietta con una torta fumante tra le mani; o un gruppetto di ragazzi scalmanati che, in una nuvola di fumo, si davano al poker texano; e per concludere, la solita filmesca fantasia di una vicina libertina che apriva la porta in asciugamano per prendere la posta.
Come corre a volte la mia immaginazione, non come questo catorcio di ascensore! Pensai.

E finalmente intravidi dalle porte le luci dell’interno dell’ascensore. Mi trattenni dallo sbirciare all’interno e rimasi sull’uscio. Ne uscì all’indietro il tanto atteso coinquilino. Si girò, mi vide e disse, porgendomi la mano:

– Piacere, io sono Francesco. –

Storia di una casa (#20)

2006/2007

– 20 –

Scese la sera e con essa il cielo si dipinse d’arancio, colorando le piccole nuvole sparse sulla città. Adoravo osservare il tramonto. Sin da bambino, restavo affascinato dalle movenze di quella sfera luminosa che attraversava, da lato a lato, l’intero arco celeste sopra la mia casa. Lo conoscevo bene ormai: dalla mattina, quando gli fuggivo via fino a scuola; al pomeriggio quando invece gli correvo incontro, perché tramontava, come nelle più consuete scene di film, in mezzo a due monti e proprio sulla strada che percorrevo. Amo il sole, soprattutto il tiepido sole d’autunno che riscalda quel tanto che basta da non lamentarsi né del freddo né del caldo. Cosa avrei dato per vedere il tramonto su quel balcone. Purtroppo, potevo godermi solo quel rossore celeste nell’attesa del buio. La mia camera era orientata verso est e da lì, solo albe potevano passare. Meglio così, i tramonti mi regalano troppa malinconia, e scrollarmene un po’ da dosso non m’avrebbe fatto male…

Un profumo di carne e peperoni, stuzzicò un languore assopito nel mio stomaco. Qualcuna tra le mie nuove vicine era intenta a cucinare quella prelibatezza, non curante di scatenare invidia in chi, come me, certe cose non poteva, né sapeva cucinarle. Il brontolare del mio stomaco mi ripeteva che era giunta anche per me l’ora di mangiare. Nei giorni precedenti, esclusi quelli in cui mia madre si era presa cura di me, avevo saltato parecchi pasti, mangiando poco e male in orari inconsueti. Era arrivato il momento di mettere mano a padelle e fornelli, come quando, a scuola guida, arriva il giorno di passare dalla teoria alla pratica.

Entrai in cucina con l’insolita sicurezza di un cuoco navigato. Vidi una padella arancione che spiccava tra le altre. Mia madre l’aveva lasciata qui, prima d’andarsene. La presi e la rigirai più volte sottosopra. L’osservai indeciso. Volevo preparare un semplice piatto di pasta ma iniziai a farmi mille domande. Quanta acqua? Quanto sale? Quanto sugo? Quanta pasta? Essendo un tipo abbastanza preciso e pignolo, provai angoscia per non aver quelle risposte pronte. Così, decisi di affidarmi al mio intuito, elemento di me, che mi ha tirato fuori da parecchie situazioni. Presi una pentola, la riempii d’acqua, accesi il fuoco. Salai l’acqua e buttai della pasta, misurata ad occhio in un piatto. Per il sugo lessi che bisognava solo riscaldarlo in padella e così feci, senza domandarmi per quanto tempo e a che fiamma. Il risultato fu gradevole alla vista ma il sapore era terribile. Rimasi quasi un minuto a domandarmi se riempirmi lo stomaco o farcire il cestino. Scelsi lo stomaco e con la mente cercai di contrastare ciò che le papille gustative stavano urlando spudoratamente.

Deluso ma con la pancia piena tornai al mio letto. Il sole ormai era tramontato e un altro giorno era finito. Uscii sul balcone con la solita pallina rossa tra le dita. Guardai il cielo e malinconico mi domandai: e le stelle dove sono?

  

Storia di una casa (#19)

2006/2007

– 19 –

–       Ciao Bambolina… –
–       Ciao tesoro… come stai? –
–       Bene… i miei genitori se ne sono andati da poco… –
–       Non ti sei fatto proprio sentire… –
–       Hai ragione… mi dispiace… –

Al telefono ascoltavo la tenera voce di Francesca che mi rimproverava dolcemente per la mia assenza. Da poco era diventata la mia ragazza. Da quando una manciata di giorni prima ci scambiammo un ti amo su una panchina di Lodi, in una sera di Settembre. Mi sembrava già esser passata un’eternità da quel giorno e noi esser cresciuti tanto. Le cose sembravano funzionare con lei. Dopo tutte le storie complicate che ho avuto, questa sembrava la meno incasinata. L’amavo tanto e l’amore che provavo per lei era così forte da sostituire il sangue nelle vene.

–       Com’è la casa? –
–       Carina… ma manca qualcosa… –
–       Cosa? –
–       Tu… –
–       Scemo… appena posso, ti vengo a trovare… –

Saperla così vicina e non poterla vedere mi dava un senso di frustrazione che cercavo di contenere. Sapevo che non aveva l’età per essere indipendente e non poteva saltar qui a Milano, da sola, dal suo paesino in provincia. Non potevo chiederle troppo. Vederci sarebbe stata dura almeno per qualche mese. Lei aveva la scuola da mandare avanti ed io intraprendere quest’ambita carriera universitaria. Però mi rasserenava il pensiero che, se avesse potuto, avrebbe fatto anche quello per me.
–       Ora devo andare… tra un po’ suona la campanella… e il prof di statistica è un rompiscatole… –
–       Sì, tranquilla… vai… –
–       Ci sentiamo dopo? –
–       Ci sentiamo dopo –

Tornò il silenzio e sentii addosso uno strano alone di malinconia e solitudine. Presi la mia pallina tra le dita e mi avvicinai al balcone. Dal vetro osservavo la facciata del palazzo di fronte e con lo sguardo carezzavo i tetti di quelli successivi. Essere così in alto mi faceva apprezzare di più quella città. Ma un dubbio m’assaliva. Per quale motivo ero lì? Milano era davvero la città dei miei sogni o avevo solo inseguito l’amore? Non era la prima volta del resto… Ne avrei da raccontarne sullo strano connubio tra amore e pazzia che mi dominava in passato.
Ero di nuovo finito in quel vortice eterno?
Avevo di nuovo dato retta al cuore invece che alla mente?

 

 

 

Storia di una casa (#18)

2006/2007

– 18 –

 

Quel mattino arrivò con un richiamo casalingo: l’odore del caffè appena fatto. La premurosa mano materna era intenta a versare il liquido scuro nelle tazzine, con lo scrupoloso intento di non toccare la porcellana con il beccuccio della caffettiera.
Mi allontanai un istante da quella scena per affacciarmi al balcone della camera. Cercavo, tra le macchine parcheggiate, una color verde acqua poiché, lì vicino, avrei sicuramente intravisto mio padre. Era sceso poco prima a portar giù le valigie ma a vederlo indugiare pensai che le valigie fossero solo una scusa per dar un occhio in più alla macchina. Conoscevo bene quell’uomo e con il tempo ho imparato a conoscere almeno la metà delle preoccupazioni che avvinghiavano quella testa brizzolata e baffuta. Sapevo che, nonostante la bella gita fuoriporta a Milano, non vedeva l’ora di tornare a casa a risolvere i problemi che aveva lasciato a metà; e pensare che uno degli eterni problemi lasciati a metà ero io. Chissà come avrebbe attenuato l’ansia che gli potevo procurare da qui, senza potermi mostrare il suo sguardo severo pieno di rimproveri. C’è da dire però, che sicuramente gli avrei tolto qualche grattacapo, visto come sono andati gli ultimi anni del liceo. Ora poteva finalmente dedicarsi a qualche passatempo nell’immenso vuoto lasciato dall’assenza dei miei casini.
–       Tieni, attento che scotta… –
Mia madre mi raggiunse alle spalle e mi porse il caffè tenendo la tazzina come il braccio di una di quelle macchinette afferrapupazzi. Si sporse anche lei e guardò mio padre che si stava allontanando in direzione del palazzo.
–       Ti ho sistemato i panni in quella libreria. Meglio di niente per adesso… –
–       Va bene così mamma, tanto sono solo vestiti… – tenni a sminuire quell’impiccio.
–       Mi raccomando, tienili in ordine altrimenti si sgualciscono tutti! –

Sentii la porta aprirsi e il solito borbottio raggiungere le mie orecchie. Mio padre entrò nella camera e osservò il dito di mia madre che puntava la sua tazzina di caffè sul tavolo.
–       Siamo pronti? – disse mio padre, includendo anche me nella compagnia di viaggio.
Li accompagnai alla porta d’ingresso. Mia madre mi abbracciò e mi diede un bacio affettuoso. Abbracciai anche mio padre, con meno intensità, ma con eguale affetto. Mi fecero le solite raccomandazioni e ultimarono il discorso con -… tanto appena possiamo, facciamo un salto qui… – Peccato che quella fu l’unica volta che misero piede in quella casa.

Mi abbandonai sul letto. Sorrisi pensando alla giornata trascorsa con i miei genitori e l’immaginai seduti in macchina a battibeccare su argomenti di poco conto. Osservavo il mio nuovo armadio. Certo, era difficile definirlo tale solo perché dentro ci appoggiavo i vestiti. Nonostante tutti gli sforzi d’immaginazione, quella cosa in legno con porte in vetro, restava una libreria. Ci sarà qualcosa che posso fare? pensai alzandomi dal letto e prendendo le chiavi.
Comprai alla cartoleria in strada un blocco di fogli colorati. Con lo scotch biadesivo l’incollai, sopra i vetri delle porte, in modo da coprire ogni spazio trasparente. Ammirai soddisfatto il risultato. Il mio armadio non doveva più vergognarsi di essere una libreria.

Tornai sul letto ma il telefono squillò…

 

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