Frammenti di vita #92

scheda bar mario

Chi l’avrebbe mai detto….
Anni passati a seguirti…
Migliaia di gadget comprati..
Una decina di concerti visti… (tra cui il primo campovolo)
e mai avevo pensato d’iscrivermi al tuo fanclub.
Lo stesso che negli anni ho visto nascere e crescere.
Ricordo ancora il vecchio Ligabue.com…
poi ligachannel…
Ed ora… barmario…
Ci sono anch’io…

sfondo.jpg

Qualche mia storia: Link

Diario #5

HPIM0694

Campovolo 2005

Foto ritrovata tra le mille cose… e sotto un pezzo di ciò che scrissi al tempo:

 

 

Reggio Emilia. 6:00 am
Il treno era quasi arrivato.
Il sole stava spuntando all’orizzonte, tenue ed indifeso, lasciando schiudere pian piano i miei occhi. Avevamo viaggiato tutta la notte per essere lì.
Gli altri miei compagni di viaggio dormivano ancora ma io ero troppo impaziente per poterlo fare.
Mi alzai cercando di non svegliare nessuno e mi avvicinai al finestrino.
Vidi una grande pianura che sembrava non finire mai.
e in lontananza…
finalmente..
Distante da me una manciata di chilometri…
Lui..
Il Campo Volo…
Il tanto atteso Campo volo!
Iniziai a gridare “Ragazzi! Il campo Volo!.. Il Campo Volo!.. sveglia!.. siamo arrivati!..”
Rimasi lì a guardarlo attonito..
Il palco doveva essere gigantesco..
Le luci erano accese quasi a dire… “Siamo qui… aspettiamo te”…
Era tutto spettacolare…
Il cuore iniziava a battermi..
i miei occhi non erano mai stati tanto vicini al a quel cantante fino ad allora..
trattenevo a stento le lacrime..
Finalmente il treno si fermò..

CampoVolo… Settembre 2015

Rispondo anch’io al saluto

con questo post…

Ricordando quei magici momenti…

Grazie…

di…

insomma…

farmi capire che la vita… vale la pena viverla…

.

Campovolo 2015.jpg

.

Ciao.

.


					

Frammenti di vita #33

Ciao Casa…
Torno a Milano a combattere col mondo..
Grazie della tranquillita’ che mi hai regalato..
Ci vedremo al prossimo natale…
Forse…

“Che vento che tira
taglia il respiro spinge un po’ in là
forse ci vuol cambiare
mi sa che non ce la farà
Mi riesci a sentire
in questo rumore?
Vieni un po’ qua
fammi sentire il mare
al centro di questa città
Tu sai che ciò che so
sai la vita che ho
riparati un po’
forse ti piove dentro
usa la casa che ho
Fino a che
tutte le strade portano a te
lascia che piova pure
prendiamo il sole che c’è
Fino a che
tutte le strade portano a te
non ci si può sbagliare
prendiamo il tempo che c’è…”

Storia di una casa (#42)

Storia di una casa #42 Blog

2007/2008

– 42 –

Tra i pregi di Floria c’era quello di essere riuscita a mettermi a mio agio. Non era una cosa da poco. Di solito con le ragazze appena conosciute sono estremamente logorroico o estremamente silenzioso. Con lei riuscivo a restare nella giusta via di mezzo mascherando tutte le mie timidezze. Nonostante la differenza d’età, tenevo testa egregiamente ai suoi discorsi, perlopiù pieni di frivolezze. Film, serie tv, locali per divertirsi… Niente di difficile per un ragazzo di vent’anni che, nonostante l’introversione acuta, sapeva bene come si stava evolvendo la società là fuori.
In circa mezz’ora, tornammo dalla nostra fugace cena a base di pizza oleosa e patatine iperfritte. Mentre salivamo in ascensore, cercavo di farmi perdonare dal mio stomaco per l’immensa mole di lavoro che gli avevo procurato. Floria, invece, sembrava tranquilla, come se quel genere di cena fosse una delle sue preferite.
Girai la chiave nella porta ed entrai. La mia coinquilina mi seguì ma, appena fummo in casa, prendemmo strade diverse: lei andò in camera sua ed io nella mia.
Quando chiusi la porta alle mie spalle feci un sospiro di sollievo. Mi sentivo come se avessi passato un esame universitario. Il primo giorno di un lungo anno di convivenza era iniziato e, fortunatamente, Floria sembrava una brava ragazza. La mia paura di condividere la casa con persone dalle strambe abitudini si era dissolta. Potevo rilassarmi.
Portai una mano alla tasca per cercare il cellulare. Non trovandolo nella sua consueta posizione mi preoccupai. “Possibile che ho lasciato il cellulare a casa?” pensai. Indagai in giro con un rapido sguardo sui mobili della stanza. “Dove sei?”. Mi sedetti sul letto a pensare all’ultimo posto in cui avessi potuto lasciarlo. “Vediamo… prima di uscire ero… sì!”.
Uscii dalla mia stanza e arrivai di fronte alla porta della camera di Floria. Il vetro satinato emetteva luce, segno che non era ancora andata a dormire. Esitai un attimo, poi bussai.
–       Entra pure! – sentii gridare.
Entrai e vidi la mia coinquilina ancora intenta a piegare vestiti.
–       Scusami Floria… devo aver lasciato il cellul… ah eccolo! –
Quando lo afferrai notai subito le numerosissime chiamate senza risposta impresse sul piccolo schermo del mio Nokia. – Torno di là… – m’affrettai a dire a Floria che continuava indisturbata.

Sbloccai subito il cellulare. Il cuore andò in ansia. Avevo già immaginato chi fosse.
La mia ragazza.
“Cavolo! E ora che le dico?” pensai.
“Nascondile tutto! Non invitarla più a casa tua!” rispose ironicamente la mia coscienza maligna. “Dovrò dirglielo in qualche modo…”, “S’incazzerà…”, “e di brutto anche!”
Dopo tutti i diverbi intellettuali, mi feci coraggio e la chiamai.

–       Pronto… amore! Che fine avevi fatto! – disse.
–       Ehm sì… ero sceso un attimo… –
–       E hai dimenticato il cellulare? Non lo dimentichi mai… – disse sospettosa.
–       Non c’ho pensato… ero con… –
–       CON? –
–       Con… Floria… –
–       Una ragazza? Eri con una ragazza?! –
–       Sì… –
–       Tu mi manderai al manicomio lo sai? Chi è questa tizia? –
–       Mmm come dire… la mia nuova coinquilina… –
Subito dopo ci fu un minuto di silenzio. Come quando un caccia bombardiere sgancia una bomba e attende solo il momento dello scoppio. E lo scoppio arrivò… dal mio telefono uscì un urlo talmente forte che, probabilmente, sentirono anche i vicini.

continua…

Galleria d’Arte #35

Ligabue Mondovisione Album

..Per sempre..

Corsi e Ricorsi Storici (VIII)

Corsi e Ricorsi storici 8 Nino Bixio

(Foto personale)

 

Fu così che mi ritrovai a correre di nuovo, lungo la mia amatissima Nino Bixio. Stanco e sfatto, con un’insopportabile borsa di troppo: la busta di stoffa contenente l’irrinunciabile insalata pronta da condire di Annalisa. Quella ragazza alla fine c’era riuscita a farmela portare a presso. La prossima volta però, non mi frega!
In mano avevo i due cellulari che Lia mi aveva chiesto di consegnare a scuola. I miei “no” alla fine avevano ceduto di fronte alle loro dolci insistenze. Annalisa e Lia avevano un treno da prendere. Il treno che avevamo prenotato qualche ora prima. Forse Lia non sapeva ancora che doveva farsi tutto il viaggio in piedi perché quella pazza di Anna aveva preso i biglietti senza il posto assegnato. Non dissi niente a riguardo, lasciando a Lia il gusto della sorpresa. Dopo averle salutate, presi i cellulari ricevendo qualche vaga indicazione sul luogo, la scuola, i ragazzi e le azioni da compiere. Poi corsi via da loro… “L’orario scolastico” era quasi ultimato e non volevo di certo trovarmi in mezzo ad una baraonda di ragazzi chiassosi.
Ma… rimettendo insieme tutte le informazioni che Lia mi aveva dato frettolosamente, capii che c’erano molti buchi vuoti nel piano. Non conoscevo niente eccetto l’indirizzo della scuola dove dovevo andare. Aule, corridoi, nomi dei ragazzi, i bidelli… Mille domande sbucavano da ogni dove nella mia testa iperprogrammatica, mentre, svoltando a destra, lasciavo Bixio per un’altra strada. Vidi il palazzo della scuola da lontano. Attraversai la strada e mi diressi all’ingresso. Non so, ma avevo la pelle d’oca a entrare in una scuola. Non ero più abituato. Sentivo sulle spalle il peso dei ricordi, come se fosse una pesantissima cartella piena di libri. Ricordai il Ciro adolescente di molti anni prima. Ricordai i piccoli problemi di ogni giorno che rapportati a quelli di adesso sembravano sassolini. Ricordavo tutto, ma non la felicità. Era presente allora?
Ricordo:
 
Quella volta che, ad occhi spenti e verso il basso…
Pioveva…
Sulle spalle una cartella pesantissima…
e nelle orecchie le cuffiette di un walkman grigio.
Aspettavo mia madre che venisse a prendermi.
Solo.
La pioggia mi aveva inzuppato tutto.
Lasciavo scendere le gocce insieme alle mie lacrime.
Dicevano che l’adolescenza doveva essere la stagione dei primi amori e della spensieratezza.
Tutte balle…
Soffrivo col cuore a pezzi
Nel mio piccolo giubbino di jeans ormai di una tonalità più scura.
Quel giorno una ragazza mi aveva lasciato.
Non seppi nemmeno bene il perché…
Ma guardai per la prima volta la mia scuola, odiandola.
Odiavo quel posto per avermi portato così tanto dolore.
E volevo fuggir via.
 
Una macchina si fermò.
Scese una donna.
“Ti avevo detto di portarti l’ombrello!”
Non risposi…
perché l’ombrello era nella mia pesantissima cartella.
Quel giorno… io volevo la pioggia.
 
Guardai il cielo nuvoloso. Anche quel giorno si apprestava a piovere. Misi la mano sulla maniglia della porta d’ingresso della scuola media di Porta Venezia. Feci un respiro e tirai la maniglia verso il basso.
Non si apre!
Provai più e più volte ma niente. La porta era chiusa. Mi allontanai leggermente.
Come avrei fatto ad entrare? Mi guardai intorno alla ricerca di una soluzione. Notai poco distante una ulteriore porta d’ingresso. Mi avvicinai a quella ma era chiusa anche lei.
Cavolo!
Cercai qualche pulsante o citofono nei paraggi, non sapendo nemmeno cosa dire per entrare.
Improvvisamente qualcuno uscì da quella porta. Mi avvicinai e appena quella che doveva essere una professoressa fu uscita, mi avvicinai e afferrai la maniglia prima che la porta si chiudesse. Fatta! Ero dentro. Guardai a destra: corridoio. Guardai avanti: corridoio. Guardai a sinistra: corridoio. Dove cavolo vado?! Cercai di ricordare la sezione che mi aveva detto Lia. Doveva essere la E o la D. Detesto la mia memoria corta! Seguii le indicazioni per entrambe e arrivai al secondo piano. Nei corridoi non c’era nessuno eccetto una bidella anzianotta che puliva il pavimento. Mi fissava ed io fissavo lei. Mi avvicinai timoroso.
–       Salve, io dovrei consegnare questi cellulari a due studenti da parte della professoressa Lia ****** –
–       Ah, sì! La signorina *******? So che è dovuta uscire per un’urgenza. Non è niente di grave vero? – mi disse la bidella preoccupata.
–       Beh… si spera che non sia nulla di grave… – dissi restando nel vago.
–       Guardi, i ragazzi sono in quell’aula lì ora glieli chiamo. –
–       No, ascolti, li tenga lei e glieli consegni alla fine della lezione. Così io vado. –
–       Va bene e mi saluti la signorina ********. –

Appena fuori dalla scuola tirai un sospiro di sollievo.
Forse ora posso davvero tornare a casa.

continua…

Corsi e Ricorsi Storici (VII)

Passante Porta Venezia

(Foto personale)

Annalisa è un’insegnante di scuola media e svolge questa nobile professione in una scuola del milanese, insieme alla sua amica Lia. Non domandatemi come faccia una come lei a insegnare geografia o italiano a dei poveri studenti annoiati; so solo, (e ne sono certo) che quei preadolescenti passino il tempo a odiarla e amarla allo stesso modo. Del resto, anch’io l’avrei fatto.
Quell’anno, l’insegnante vintage/indy, s’era accaparrata le ferie per l’ambitissimo ponte dell’immacolata. Cosa che non era stato possibile per la sua collega.
Quindi, Lia, in quel momento, era bloccata a lavoro.
Guardavo Anna, mentre camminavamo nel sottopasso della stazione di Porta Venezia. Cercavo di capire a cosa pensasse quella mente incomprensibile. Di solito non ci voleva tanto. Si trattava di capire di cosa stessero discutendo gli unici due neuroni che aveva.
–  Anna… che facciamo? – le chiesi.
Anna si fermò. Si guardò intorno. Cacciò il telefono dalla borsa e compose un numero.
Iniziò a squillare. Me lo porse…
–  Tieni… sto chiamando la segreteria della scuola. Inventati qualcosa per far uscire Lia. –
–  Anna! Ma sei seria? Anna no! Cazz… Pronto è la scuola media *******? Salve. Avrei bisogno di parlare con la signorina Lia ****** è una emergenza. Grazie. –
“Attenda un attimo”
–  Anna ma sei pazza! – dissi sottovoce alla mia amica, gesticolando come un babbuino.
–  Shhh che ti sentono! – rispose
“Pronto chi è? Che è successo?”
Al telefono si sentì una voce femminile. Era Lia. Anna prese il telefono e lo portò al suo orecchio.
–  We, Lia. Ciao. Tranquilla non è successo niente! – rise.
–  Non ancora… forse un omicidio tra poco! – aggiunsi
–  Senti, ti ho preso il biglietto per scendere. Partiamo tra un’ora. –
“Tu cosa? Anna io sono a scuola!”
–  Su esci! Inventati qualcosa! Dai! Ti aspettiamo all’uscita del passante di Porta Venezia, tra un quarto d’ora! –
click
Annalisa ripose il telefono in borsa con estrema calma e mi guardò.
–  Secondo te ce la farà? – mi chiese dubbiosa.
Non risposi. Le presi una ciocca di capelli e iniziai a tirarla.

Poco dopo ci raggiunse Lia. La scuola non era lontana da dove ci trovavamo. La vidi arrivare tutta concitata. Affannata. Chissà cosa si era inventata per uscire. Non volevo saperlo. Non volevo altre grane quel giorno. Volevo tornarmene a casa e cercare di recuperare qualche ora di sonno in un comodo letto. Ero distrutto. Avevo un aspetto orribile. Annalisa aspettava di fianco a me. Guardavamo Lia raggiungerci. Notai però, qualcosa di strano nel volto di Lia. Qualcosa che mi diceva che quella giornata non sarebbe finita lì.

–       Ciao ragazzi! – ci salutò Lia.
–       Ciao tesoro! – rispose Annalisa con un bacio.
La salutai anch’io. Mi sentivo un tappo tra di loro nonostante il mio metro e ottanta. Entrambe erano alte e slanciate. Lia, dopo aver scambiato i soliti convenevoli con Annalisa, abbassò lo sguardo infilando la mano nella borsa.
–       Anna, sono uscita da scuola con una scusa orribile che nemmeno ti spiego! Ma… – disse Lia.
–       Ma?! – dissi in sincrono con Anna.
–       Beh… mi ero dimenticata che, nell’ora precedente, avevo sequestrato due cellulari ai miei alunni… e… non posso portarli con me! E non posso nemmeno tornare a scuola! Come facciamo? –
–       Neanche io posso tornare a scuola! Ho inventato una scusa peggiore della tua per uscire! – rispose Anna.
A quel punto, prevedendo già come sarebbe andata a finire la cosa, feci un paio di passi indietro, come chi cerca di fuggire da un animale pericoloso senza farsi sentire.
Le ragazze, dopo essersi guardate negli occhi per un paio di secondi, si ricordarono della mia presenza e si voltarono all’unisono verso di me.
Spaventato come se la mia finta fuga fosse stata scoperta, alzai le mani in segno di resa dicendo:
– No, Ragazze! Non ci pensate nemmeno! Io non ci vado in quella scuola! –

continua…

Storia di una casa (#34)

2006/2007

– 34 –

Le ore e i giorni passarono in un lampo e il silenzio tornò a essere il mio coinquilino più presente. Gli amici erano appena partiti per tornare a casa: Marco, Enrico, Marta e Cristina. Li salutai alla stazione con quella punta di malinconia che crebbe fino al mio ritorno a casa. Mi buttai subito sul letto come se le forze fossero partite anche loro. Pensavo… Pensavo a quei giorni in cui non provavo tristezza nel salutare un amico. Erano bei giorni allora. Giorni carichi di voglia di vivere, di scoprire insieme le sfaccettature di questo mondo sconosciuto. Trascorrevo così tanto tempo insieme a loro, da diventar loro la mia seconda famiglia: proteggendomi, assistendomi e consolandomi, per non parlare di tutte quelle volte che mi riportarono a casa, sano e salvo. Devo molto a quei ragazzi… e non lo immaginano nemmeno.

Voltai la testa verso la sedia in mezzo alla stanza. Sorrisi. Era ancora lì con il cordone dell’accappatoio che ciondolava indisturbato. “Povero Marco” pensai. “Se l’è meritato però!” E quante volte se l’era meritato! Aveva compiuto così tante cazzate nella sua cronologia che avrei dovuto odiarlo per sempre. Ma la sua generosità e la sua bontà ti scioglievano, disarmandoti. Non avrei mai potuto tenergli il broncio per più di cinque minuti. Era un ragazzo con molti pregi; come quello di farti apprezzare le cose semplici, di tralasciare il valore dei soldi, sempre troppo importanti per me. Enrico invece era diverso. Facevamo a gara a chi era più introverso. Parlavamo sempre poco di noi e sempre troppo degli altri. C’era sempre un profondo rispetto tra noi due. Non saprei dire se lo conosca abbastanza, nonostante sia il mio migliore amico.

E scese la notte. Più pesante del solito. In casa ero solo. Le stanze vuote mi facevano eco. Curioso, decisi di dare una controllata alla camera di Francesco. Aprii lentamente la porta, come a non voler disturbare una persona che non c’era. Sorrisi pensando con meraviglia che anche in quella stanza era notte. Avevo la strana concezione che quella parte di casa era un mondo distinto. Un qualcosa che non mi apparteneva, di non mio. Quest’atteggiamento derivava dal profondo rispetto per le cose, inculcatomi da mio padre. Accesi la luce. I letti erano in ordine. Merito sicuramente delle mie due ospiti femminili. Persino le ciabatte del mio coinquilino erano tornate al loro posto. Il divano, doveva aveva dormito Marco, non aveva niente che non andava. Dovrei dare più fiducia a quel ragazzo.

Notai che la finestra era aperta. Qualcuno dei ragazzi aveva pensato bene di far arieggiare la stanza prima di andarsene. Andai a chiuderla e sentii un rumore provenire dal bagno. Pensai che la corrente d’aria avesse chiuso d’impeto l’altra finestra. Andai in bagno a chiudere anche quella. Qualcosa però, stranamente, la bloccava. Provai più volte a chiuderla ma non ci riuscii. Ispezionai i bordi della cornice scoprendo un inghippo metallico che impediva la chiusura. Tirai fuori l’oggetto dalla guarnizione. Era una monetina. Una cento lire del ‘78 sulla cui faccia risaltava la testa dell’Italia laureata che rifletteva la luce della lampadina a incandescenza del bagno. Come un flash, mi tornò alla mente l’immagine di Marco che faceva ruotare quella moneta tra le dita, dicendo: “Questa è il mio portafortuna!” Gli sarà sicuramente caduta in quella serata brava che scappò dal bagno alla ricerca dell’ultimo goccio di Jack. Scossi la testa disapprovando quei momenti. Afferrai il cellulare.
“Marco, ho qui con me la tua cento lire… Appena ci vediamo te la rendo.”
“Bene! Ma tienila tu… così ti porterà un po’ di fortuna, che ne hai bisogno!”
…e ci sperai, e spero ancora, che quella tanto amata fortuna, un giorno arrivi.

Fine Seconda Parte

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