Storia di una casa (#31)

2006/2007

– 31 –

– Tenetelo! –
– Dai Marco su! Non fare il difficile! –
– Voi siete i miei migliori amici… –
– Si Marco… certo… tutto quello che vuoi… ma adesso torniamo a casa! –

L’ascensore non tardò ad arrivare. Enrico ed io, ficcammo alla meglio Marco all’interno. Marta e Cristina preferirono aspettare a salire. Per mancanza di spazio, fu la loro scusa ma era evidente che non volevano stare troppo vicine a Marco che era diventato ingestibile. L’alcool ci aveva mandato tutti un po’ su di giri ma lui quella sera aveva esagerato oltre ogni modo. Arrivammo al piano, cercando difficilmente di tenere in piedi Marco che non voleva saperne di restare schiacciato contro la parete dalle nostre mani.
Aprii le porte e feci segno ad Enrico di portarlo fuori. Marco sembrava disorientato. Guardava la luce dell’ascensore vaneggiando su strane ipotesi di morte. Enrico lo spinse fuori ma inavvertitamente un lembo del jeans gli s’incastrò nelle porte e Marco rovinò al suolo. Fu fortunato però, davanti a lui c’ero io che gli avevo attutito la caduta.
–       Aiutami Enrico! Aiutami! –
I miei lamenti si diffusero come un tuono nella tranquillità notturna del pianerottolo del quinto piano. Enrico accorse redarguendo un Marco assente. Mi rialzai e cercai le chiavi nella tasca. Dopo averle trovate con qualche difficoltà, tentai di infilarle in una delle due porte che vedevo davanti a me. Stranamente la chiave non girava. Dietro di me, si aprirono le porte dell’ascensore e comparvero le ragazze.
–       Ciro, perché stai cercando di infilare le chiavi nel campanello? – disse Marta ridendo.
–       Oh… ecco perché… –
Mi aiutò a trovare la serratura e finalmente entrammo in casa. I problemi però non erano finiti. Marco stava diventando irrequieto. Era finita la fase del “vedo la luce, vai verso la luce” ed era passato al “Dov’è l’alcool! Dove cazzo è l’alcool!”
Enrico lo teneva a stento. Anche lui era brillo dopotutto. Le ragazze cercarono di farlo ragionare. Specialmente Marta, sua sorella.
–       Voglio un’altra pinta! Signorina, una bionda doppio malto, grazie! – chiese Marco in
preda al delirio. Marta lo schiaffeggiò e gli ordinò di smetterla.
–       Ahia! Ma in questo locale si trattano così i clienti?! –
–       Marco… sei a casa mia! – gli dissi pacatamente.
–       Siamo già tornati a casa?! No! Adesso scendo e mi cerco un bar più gentile di voi! –
–       Smettila Marco!  Sei ubriaco! Se vuoi c’è un po’ di Jack Daniel’s in cucina… – risposi,
incosciente di aver commesso un grave errore. Marco non doveva bere più e gli avevo appena detto dove trovare dell’alcol. Tutti mi fissarono in silenzio, anche Marco. Il tempo sembrò bloccarsi per un secondo. Sembrava uno di quei duelli western, dove vince chi estrae per primo la pistola. Marco scattò dalla sedia e corse in cucina alla ricerca della tanto amata bottiglia di Jack.
–       Prendetelo! – urlò la sorella.
Ci fiondammo tutti in cucina e lo trovammo a rovistare negli stipetti come un barbone fa con i cestini dei rifiuti.
–       Bingo! – disse appena vide il suo “tesoro”.
–       Cazzo l’ha trovata! Prendiamolo! –
Marco nascose la bottiglia sotto la maglia e corse fuori dalla cucina. Lo rincorremmo per tutta la casa. Sembrava più in forma di noi. Le ragazze gli sbarrarono la strada per la stanza da letto e noi lo accerchiammo da dietro. Lui, sentendosi in trappola, tirò fuori la bottiglia e tentò di berla. Glielo impedimmo e gli strappammo via il Jack. Marco iniziò a scalciare mentre Enrico lo teneva per le spalle.
–       Fermo Marco… Fermo! –
Non c’era verso di farlo smettere. Finché non mi venne un’idea. Andai in bagno e ritornai con il cordoncino dell’accappatoio. Guardai Enrico e dissi con decisione: – Leghiamolo! –
Con molta fatica lo trascinammo a sedere su una sedia in legno della casa. Enrico lo teneva fermo, mentre gli fermavo le mani dietro lo schienale. Quando finii di annodare Marco iniziò subito a cercare di liberarsi.
–       Dai ragazzi! Si trattano così gli amici? – disse, cercando d’impietosirci.
–       Sì! Quelli molesti si legano alle sedie! –
–       Volevo solo farmi l’ultimo bicchierino… –
–       Per stasera basta! –
–       Ok… ma adesso devo andare in bagno… –
–       Certo… ed io ci credo! –
–       Se non credi a me, tra poco crederai alla pipì che si diffonderà sul pavimento della tua stanza da letto! –
Mi consultai con Enrico e giungemmo alla conclusione che, il nostro amico, era abbastanza decerebrato da poter compiere un’azione tanto estrema quanto quella di urinarsi addosso.
Lo slegammo e lo scortammo alla porta del bagno come un detenuto di massima sicurezza.
Chiudemmo la porta e tornammo in stanza. Le ragazze non erano tanto avvezze a questo genere di cose e iniziarono a preoccuparsi. Le tranquillizzammo raccontando qualche passata esperienza adolescenziale simile a questa, dove tutto, alla fine, si era risolto con un gran mal di testa mattutino.
Improvvisamente:
–       Aiuto! Aiuto! – sentimmo urlare dal bagno e accorremmo tutti.
–       Marco! Ti senti bene? Marco? – dissi, attraverso la porta chiusa.
Vedendo che Marco non rispondeva iniziammo a domandarci se abbattere la porta o meno poiché era chiusa a chiave dall’interno. Poteva essere successo di tutto e il nostro amico poteva essere in gravi condizioni. Le ragazze dietro di noi, cominciarono a spaventarsi. Specialmente Marta, la sorella, che continuava a chiamare Marco in attesa di risposta.
–       E se fosse svenuto?… –
Improvvisamente sentimmo dei rumori provenienti dalla mia stanza da letto. Tornammo velocemente tutti lì e sorprendemmo Marco mentre tentava di arrivare alla bottiglia di Jack che avevo prudentemente piazzato in alto, sopra una libreria.
–       Gran figlio di una… vieni qui!! –
Lo rincorremmo, lui scappò sul balcone e tornò in bagno attraverso la finestra dalla quale era scappato. “Che mente diabolica!” pensai sorridendo.

Dopo circa un’ora di corse e rincorse, la situazione si calmò. Riuscimmo ad impedire a Marco di vuotare la mia bottiglia di Jack. Ci abbandonammo tutti sui nostri letti, io nella mia stanza e i miei amici in quella del mio coinquilino momentaneamente assente. Come l’avrebbe presa Francesco se avesse visto la sua stanza invasa di ragazzi? In quel momento però, tutte le preoccupazioni riguardo l’ordine e il rispetto delle cose altrui erano annegate in circa un litro di birra che avevo in corpo. Le palpebre erano diventate pesantissime. Colpa forse, dell’attività ginnica che Marco ci aveva costretto a fare. Chiusi gli occhi sperando in una notte tranquilla anche se, in lontananza, avvertivo un fastidioso ronzio che la rovinava.
Era il mio cellulare, ma ormai, ero già tra le braccia di Morfeo.

Storia di una casa (#29)

2006/2007

– 29 –

Appena la porta si aprì, Marco mi saltò al collo urlando il mio nome. Era proprio entusiasta di vedermi. Seguì Enrico, la cui emozione si limitò a un sorriso e una stretta di mano. Dopo di loro, mi affacciai subito fuori dalla porta. Vidi le due ragazze che attendevano d’entrare e con fare perentorio esclamai:
–       Stop! Voi chi siete? Da dove venite? E perché siete qui? –
Marco rispose per loro – Ci siamo incontrati in viaggio. Erano a Perugia e le ho invitate a venire a Milano anche loro. Ho fatto male? –
–       Dovevi avvertirmi! –
–       Scusa Cì – rispose Marco con aria fintamente affranta.
Le ragazze ancora timidamente in silenzio e ancora immobilizzate sul pianerottolo ripeterono in coro: – Scusa Cì –
–       Ahh… niente scuse! Forza entrate! –

La casa sembrò animarsi di colpo. Il solito silenzio tra le stanze si trasformò in un perpetuo vociare. Mostrai velocemente la casa ai ragazzi. Piacque molto, compresa la camera di Francesco.
–       Qui non si entra! – precisai, spingendo tutti fuori.
–       E noi dove dormiamo? –
–       Non so… in un modo ci arrangeremo… – risposi.
–       Perché non possiamo dormire in questa camera? Ci sono tre letti! – disse Marta.
–       Marta… le donne non hanno facoltà di parola in questa casa! – ironizzai.
Nel frattempo, Marco ed Enrico entrarono nella camera, stendendosi uno sul letto e l’altro sul divano.
–       Ehi! Che fate voi due?! –
–       Siamo stanchi Cì… lasciaci riposare un po’… –
–       Qui no! –
–       Ma perché? Dov’è il tuo coinquilino? – chiese Marco.
–       E’ sceso a Benevento… –
–       Quindi vorresti dire che questa camera sarà vuota almeno per una settimana? –
–       Sì, ma… –
–       Yuppie! Allora io dormo qui! –
–       Ed io qui… – continuò Enrico stropicciando letto e cuscino.
Le due ragazze invece presero possesso dell’ultimo letto rimasto. – Noi qui! –
Tutti i miei buoni tentativi di farli desistere da quella scelta non vennero nemmeno ascoltati. Nemmeno con la forza riuscii a tirarli fuori dalla camera. Appena riuscivo a cacciare qualcuno, subito ne rientrava un altro. Dovevo cedere alle loro decisioni. Come l’avrebbe presa, Francesco, al suo ritorno? Non doveva saperlo e per farlo intimai i miei amici di non toccare niente e di creare meno disordine possibile. Mi risposero di stare tranquillo. Ma “tranquillo” era l’ultima cosa che mi poteva passare per la mente. Stavo per far dormire dei casinisti patentati in una camera non mia, a cui non osavo nemmeno avvicinarmi per rispetto delle regole di convivenza.

Mentre i miei amici s’ambientavano lanciandosi vestiti, andai in cucina a lavare i piatti che avevo lasciato dalla sera prima. Quand’è che squillò il mio cellulare.
“Francesca”
“Ed ora che le dico?”
–       Pronto amore… –
–       Tesoro… come stai? Non ti ho proprio sentito oggi… –
–       Beh… Bene… –
–       Tutto a posto? I tuoi amici sono arrivati? –
–       Sì… diciamo di sì… –
Intanto alle mie spalle arrivò Cristina con in mano un vestito nero con strane striature colorate. – Ciro hai mica una stampella per… –
Mi girai immediatamente verso di lei e le feci cenno di tacere. Cristina, imbarazzata si ammutolì all’istante.
–       Chi era? – chiese la mia ragazza al telefono.
–       Niente… –
–       Niente un corno! Ho sentito la voce di una ragazza! –
–       Era… Cristina… –
–       Chi cavolo è Cristina?!? –
–       Un’amica di Marta… –
–       Chi cavolo è Marta?!?! –
–       La sorella di Marco… –
–       E perché sono in casa del MIO ragazzo? –
–       Si sono aggiunte al gruppo… –
–       Quindi dormiranno da te? –
–       Beh… tecnicamente… sì… –
Tuuu tuuu tuuu
Mi attaccò il telefono in faccia. Era decisamente incazzata. Non sapevo cosa fare eccetto lasciarla sbollire.

Intanto, a pochi metri da me, Cristina mi fissava con una faccia colpevole, con ancora in mano il suo vestito nero.

Storia di una casa (#19)

2006/2007

– 19 –

–       Ciao Bambolina… –
–       Ciao tesoro… come stai? –
–       Bene… i miei genitori se ne sono andati da poco… –
–       Non ti sei fatto proprio sentire… –
–       Hai ragione… mi dispiace… –

Al telefono ascoltavo la tenera voce di Francesca che mi rimproverava dolcemente per la mia assenza. Da poco era diventata la mia ragazza. Da quando una manciata di giorni prima ci scambiammo un ti amo su una panchina di Lodi, in una sera di Settembre. Mi sembrava già esser passata un’eternità da quel giorno e noi esser cresciuti tanto. Le cose sembravano funzionare con lei. Dopo tutte le storie complicate che ho avuto, questa sembrava la meno incasinata. L’amavo tanto e l’amore che provavo per lei era così forte da sostituire il sangue nelle vene.

–       Com’è la casa? –
–       Carina… ma manca qualcosa… –
–       Cosa? –
–       Tu… –
–       Scemo… appena posso, ti vengo a trovare… –

Saperla così vicina e non poterla vedere mi dava un senso di frustrazione che cercavo di contenere. Sapevo che non aveva l’età per essere indipendente e non poteva saltar qui a Milano, da sola, dal suo paesino in provincia. Non potevo chiederle troppo. Vederci sarebbe stata dura almeno per qualche mese. Lei aveva la scuola da mandare avanti ed io intraprendere quest’ambita carriera universitaria. Però mi rasserenava il pensiero che, se avesse potuto, avrebbe fatto anche quello per me.
–       Ora devo andare… tra un po’ suona la campanella… e il prof di statistica è un rompiscatole… –
–       Sì, tranquilla… vai… –
–       Ci sentiamo dopo? –
–       Ci sentiamo dopo –

Tornò il silenzio e sentii addosso uno strano alone di malinconia e solitudine. Presi la mia pallina tra le dita e mi avvicinai al balcone. Dal vetro osservavo la facciata del palazzo di fronte e con lo sguardo carezzavo i tetti di quelli successivi. Essere così in alto mi faceva apprezzare di più quella città. Ma un dubbio m’assaliva. Per quale motivo ero lì? Milano era davvero la città dei miei sogni o avevo solo inseguito l’amore? Non era la prima volta del resto… Ne avrei da raccontarne sullo strano connubio tra amore e pazzia che mi dominava in passato.
Ero di nuovo finito in quel vortice eterno?
Avevo di nuovo dato retta al cuore invece che alla mente?

 

 

 

Storia di una casa (#18)

2006/2007

– 18 –

 

Quel mattino arrivò con un richiamo casalingo: l’odore del caffè appena fatto. La premurosa mano materna era intenta a versare il liquido scuro nelle tazzine, con lo scrupoloso intento di non toccare la porcellana con il beccuccio della caffettiera.
Mi allontanai un istante da quella scena per affacciarmi al balcone della camera. Cercavo, tra le macchine parcheggiate, una color verde acqua poiché, lì vicino, avrei sicuramente intravisto mio padre. Era sceso poco prima a portar giù le valigie ma a vederlo indugiare pensai che le valigie fossero solo una scusa per dar un occhio in più alla macchina. Conoscevo bene quell’uomo e con il tempo ho imparato a conoscere almeno la metà delle preoccupazioni che avvinghiavano quella testa brizzolata e baffuta. Sapevo che, nonostante la bella gita fuoriporta a Milano, non vedeva l’ora di tornare a casa a risolvere i problemi che aveva lasciato a metà; e pensare che uno degli eterni problemi lasciati a metà ero io. Chissà come avrebbe attenuato l’ansia che gli potevo procurare da qui, senza potermi mostrare il suo sguardo severo pieno di rimproveri. C’è da dire però, che sicuramente gli avrei tolto qualche grattacapo, visto come sono andati gli ultimi anni del liceo. Ora poteva finalmente dedicarsi a qualche passatempo nell’immenso vuoto lasciato dall’assenza dei miei casini.
–       Tieni, attento che scotta… –
Mia madre mi raggiunse alle spalle e mi porse il caffè tenendo la tazzina come il braccio di una di quelle macchinette afferrapupazzi. Si sporse anche lei e guardò mio padre che si stava allontanando in direzione del palazzo.
–       Ti ho sistemato i panni in quella libreria. Meglio di niente per adesso… –
–       Va bene così mamma, tanto sono solo vestiti… – tenni a sminuire quell’impiccio.
–       Mi raccomando, tienili in ordine altrimenti si sgualciscono tutti! –

Sentii la porta aprirsi e il solito borbottio raggiungere le mie orecchie. Mio padre entrò nella camera e osservò il dito di mia madre che puntava la sua tazzina di caffè sul tavolo.
–       Siamo pronti? – disse mio padre, includendo anche me nella compagnia di viaggio.
Li accompagnai alla porta d’ingresso. Mia madre mi abbracciò e mi diede un bacio affettuoso. Abbracciai anche mio padre, con meno intensità, ma con eguale affetto. Mi fecero le solite raccomandazioni e ultimarono il discorso con -… tanto appena possiamo, facciamo un salto qui… – Peccato che quella fu l’unica volta che misero piede in quella casa.

Mi abbandonai sul letto. Sorrisi pensando alla giornata trascorsa con i miei genitori e l’immaginai seduti in macchina a battibeccare su argomenti di poco conto. Osservavo il mio nuovo armadio. Certo, era difficile definirlo tale solo perché dentro ci appoggiavo i vestiti. Nonostante tutti gli sforzi d’immaginazione, quella cosa in legno con porte in vetro, restava una libreria. Ci sarà qualcosa che posso fare? pensai alzandomi dal letto e prendendo le chiavi.
Comprai alla cartoleria in strada un blocco di fogli colorati. Con lo scotch biadesivo l’incollai, sopra i vetri delle porte, in modo da coprire ogni spazio trasparente. Ammirai soddisfatto il risultato. Il mio armadio non doveva più vergognarsi di essere una libreria.

Tornai sul letto ma il telefono squillò…

 

Storia di una casa (#14)

2006/2007

– 14 –

Un improvviso scintillio balenò nei miei occhi. La mente era tutta un fermentare d’idee, trasformazioni e cambiamenti. I pensieri ribollivano come acqua a cento gradi, facendo saltellare il coperchio della pentola su in cima. Con quell’affermazione la proprietaria si era assicurata un’ottima chance di vedersi la sua casa affittata. La donna ci aveva preso in pieno. Forse, saper cogliere negli occhi dei visitatori i loro bisogni, faceva parte del suo bagaglio di esperta affittacamere.
– Possiamo spostare un letto qui e il divano metterlo al posto del letto nell’altra camera… e poi questo va lì… questo va là… –
Portai una mano al mento e, pensieroso, lo pizzicai con delicatezza. Feci qualche passo verso il balcone pesando che quella visuale sarebbe diventata tutta mia, se il progetto della donna avesse avuto un lasciapassare. Voltandomi notai che la proprietaria non c’era più.
– Non sembra poi così difficile da spostare… – disse, parlando dall’altra stanza con una mano sulla testiera del letto. In pochi passi la raggiunsi. – Si… al massimo si smonta e si rimonta. – costatai.
– … e il divano si sposta così com’è. Poi in due dovreste farcela! A proposito, la signora Pina mi aveva parlato anche di un altro ragazzo… –
– Ehm… sì. Francesco. –
– Sai quando arriverà? – chiese dubbiosa.
– In realtà non so niente di lui… –
Spiegai alla donna tutta la storia. Le raccontai del mio dilemma e dell’estenuante ricerca. Lei ascoltava e annuiva silenziosa. Pensava, aspettando il momento giusto per intervenire.
– Quindi sta solo a te decidere. Visto che a lui va bene qualsiasi cosa… – concluse riassumendo in una frase il mio discorso, estraendone il punto cardine della questione, o almeno il punto che interessava a lei. Sì, tutto era nelle mie mani o meglio, nella mia lingua che doveva pronunciare solo una semplice frase. Una proposizione affermativa dotata della giusta sintassi.
Purtroppo proprio non mi usciva facile soffiare al vento quelle parole, cosicché rimandai la questione di qualche ora.

Uscii dall’appartamento sollevato. I miei passi sembravano più leggeri sull’asfalto che fungeva da marciapiede. I pensieri avevano assunto la forma di un piatto d’insalata che mischiava gli ingredienti tentando di amalgamare cibo e condimento. E a spiegazione della metafora il cibo rispecchiava quell’appartamento con le sue stanze e i suoi mobili inerti; mentre il condimento era il dolce sottofondo della descrizione della proprietaria che arricchiva e deliziava di dettagli ogni cosa.
Trovai un parchetto poco distante e quella manciata di panchine faceva al caso mio.
Mi sedetti su una di loro. Un signore anziano, la cui mansione giornaliera era far da balia a un bastardino, mi guardò incuriosito. Dopo qualche istante abbassai lo sguardo sul mio cellulare pensando a quale contatto chiamar prima della mia rubrica
Chiamai la signora Pina… poi mio padre… e poi mia madre; e stranamente le mie parole bisognose di consigli, non seppero far breccia in nessuna delle tre persone. Tutti rimisero la scelta nelle mani di un ragazzo, seduto a gambe incrociate su una panchina in mezzo al verde e al cemento, a chilometri e chilometri lontano da casa. Così non esitai più e lasciai che il mio destino si compisse.

– Ok Signora, la prendo. –

Fine prima parte

Storia di una casa (#13)

2006/2007

– 13 –

Appena la porta si aprì, un bagliore di luce guizzò verso di me. Qualcosa d’ignoto disse al mio piede di muoversi in avanti. Sarà stata la presenza della proprietaria alle mie spalle a spingermi o la maturata familiarità con il luogo a darmi fiducia. Cosicché, senza nemmeno accorgermi ero al centro della sala.
La proprietaria, entrando di soppiatto, mi sgusciò dietro le spalle. Andò verso la porta del balcone e l’aprì. Disse qualcosa che non ascoltai. Ero incantato nell’osservare un piccolo televisore su di un mobile da salotto. Un mobile basso, piano, rettangolare, in legno chiaro. Uno di quei materiali a cui avresti proprio voglia di dare una ridipinta di una tonalità più scura. Ci fissai lo sguardo e poi, come un compasso che poggia la mina sul foglio, iniziai a girare lentamente.
Vidi una libreria disadorna e spartana, dello stesso colore del mobile della televisione. C’era un solo libro su un ripiano e accanto un oggetto cilindrico dall’origine ignota. Tutto il resto era vuoto e niente come una libreria vuota accendeva in me la voglia maniacale di riempirla. Questo istinto cominciai ad averlo da bambino, nel trovarmi spesso a giocare con scatole di cartone inutilizzate.
Il mio cerchio visivo contino’ il suo corso su un tavolo nell’angolo accompagnato da una singola sedia; poi un divano in stile moderno sprovvisto di braccioli sostituiti da due cuscini rotondi. Il tessuto ruvido era di un beige chiaro e la forma del piano di seduta sembrava quella di un materasso singolo. Infatti la donna mi fece notare che lo schienale poteva ruotarsi e il tutto diventare un comodo letto; e continuò il suo discorso allettandomi con l’ipotesi di poter ospitare qualche amico nei fine settimana.
Passai poi al balcone, la cui visuale era ostruita dalla figura della proprietaria e finii con la seconda libreria che costeggiava il mobiletto basso della TV.
– Vieni a vedere la vista che da questo balcone – disse la donna uscendo all’esterno – Si vede tutta la strada da qui! –
– Vedo… – risposi sporgendomi col busto verso il vuoto.
Il parapetto del balcone aveva una larga parte in vetro, riempito da un reticolato di ferro sottile. Pensai che fosse da sciocchi utilizzare un materiale così fragile come il vetro per assolvere la funzione di resistenza e protezione. Sopra di me c’era una piccola tettoia in plastica ondulata e semitrasparente. Sotto di me invece, tanti piccoli tasselli colorati formavano il pavimento del balcone. Sentendo sotto i piedi la sensazione d’innumerevoli pietruzze sconnesse, mi sembrava di essere in una di quelle chiese dell’antica Roma. Più le guardavo e più m’incuriosivano; tutti quei colori spenti e quella casualità originata dall’abile e paziente lavoro di un operaio, mi stupirono. Sembra così facile stupirmi a volte.
E proprio nel mentre in cui guardavo un tassello di color blu notte, capii che la mia visita guidata era terminata. Quella che avevo attraversato era l’ultima porta della casa e il balcone su cui stavo rappresentava l’ultima cosa da visionare in quell’appartamento. Assimilai il pensiero e cercai di chiudere il cerchio mentale che mi ero costruito, riempendolo con qualche futile dettaglio racimolato visivamente qua e là, per guadagnare tempo per riflettere.
– Ed eccoci qua, questa è la casa, come ti sembra? –
– …accogliete e… ordinata! –
– Si… però ha veramente bisogno di una ripulita. Purtroppo è da mesi che non l’abita nessuno guarda qui! – disse la donna calciando un ricciolo di polvere. – Quindi? Cosa facciamo? Traslochiamo? – concluse.
– Aspetti signora! Aspetti! – risposi con un mezzo sorriso. – La casa non è male. Beh… il problema è la camera in comune… ehm… cercavo una singola perché non mi sento a mio agio a dormire con altre persone… –
– Certo… capisco… – borbotto la donna passeggiando per la stanza in modo pensieroso. Poi risollevò il capo e come Einstein colto da un lampo di genio, disse:
– …ho un’idea! E se trasformassimo questa stanza nella tua stanza? –

Storia di una casa (#12)

 2006/2007

– 12 –

La descrizione della casa, prima di volgere al termine, si spostò su una di quelle stanze che spesso i proprietari di case sorvolano nel loro giro d’ispezione: il bagno. Costatai, con uno sguardo del volto e dalle parole pompose con cui la proprietaria pronunciava: l’abbiamo ristrutturato da poco, che quella era una delle stanze di cui essa stessa andava fiera. Negli anni poi, appresi che la parola ristrutturare, in una città come questa, con prezzi e tariffe dettate dalla poca manovalanza disponibile sul mercato, era roba da ricchi.
Comunque sia, il bagno era accettabile. Aveva tutto il necessario piantato nel posto giusto. Ovviamente il concetto di doccia tardava ancora a radicarsi nella mentalità e nelle case di antica generazione di cui Milano era piena. Se volevo viver lì, dovevo abituarmi ad assolvere il mio bisogno di pulizia in quel surrogato di lavaggio verticale.
– …e qui c’è la lavatrice. Tutto chiaro? –
– Si… tutto chiaro… –
– Bene… passiamo al ripostiglio, è proprio qui, dietro questa porta –

La donna, dopo aver aperto la porta dello stanzino, si scansò di lato per permettermi di osservare. Lo spazio era poco e per affacciarmi all’interno, mi trovai con la parte destra del corpo, quasi a contatto con la signora di mezz’età, diventata ormai il mio Cicerone. Di solito mantengo una certa distanza, sia con gli estranei sia con le persone in generale. Il contatto fisico lo cerco poco relegandolo marginalmente ai saluti convenzionali come le strette di mano. E lì stavo osando. Stavo oltrepassando una linea che il mio istinto non poteva sopportare ancora. Mi tirai indietro da quello spazio. Mi allontanai con garbo dalla donna e sorrisi annuendo, dando l’impressione di aver osservato ogni minimo dettaglio.
Cosa non vera, data la mia scarsa memoria di quel momento.
La proprietaria tirò un sospiro di sollievo e disse: Eccoci giunti all’ultima stanza, il salotto.
In quel momento ebbi la sensazione di essere su una meravigliosa giostra rotante nell’istante in cui il giostraio pronunciava l’unica frase che un bambino non vorrebbe mai sentire: ultimo giro!
Anche se non sapevo ancora se quella sarebbe diventata casa mia, quel tour guidato casalingo mi era piaciuto parecchio. Si vedeva che la donna aveva esperienza di affitti, di certo arricchita dalla sua acutezza e precisione.

…E rullo di tamburi, l’ultima porta s’aprì.
Si presentò davanti a me ciò che pensai essere la vera chicca della casa, checché ne dicesse e ne pensasse la proprietaria. E questa volta, fui il primo a entrare…

Storia di una casa (#11)

2006/2007

– 11-

La porta si aprì e davanti a me si presentò il posto, dove avrei dovuto passare le mie notti, spesso insonni, per gli anni a seguire. La proprietaria, come ormai di consueto, si fiondò verso il confine della stanza. Col suo movimento repentino, cercò di calamitarmi a sé; spingermi a entrare nell’ambiente; a osare ciò che la mia timidezza m’impediva.
– Apro un po’ la finestra… – disse – faccio entrare un po’ d’aria! –
E dopo aver sbrigato le dovute manovre percependo che il mio sguardo era l’unica cosa che riusciva a calamitare, m’indicò, stendendo il braccio e poi un dito, i tre protagonisti della stanza.

– Come vedi ci sono tre letti… sono abbastanza nuovi e tutti Ikea… li abbiamo cambiati da poco perché gli altri… – e si addentrò nella storia passata di quella casa che le mie orecchie proprio non volevano sapere. Era un po’ come raccontare la sorpresa che si cela in una di quelle uova di pasqua da quattro soldi. Credo che nessuno voglia sapere cosa sia. Si preferisce restare nell’oblio dell’ignoranza per generare la fede e la curiosità in qualcosa di buono.

Era questo che pensavo in quel momento, volevo tener lontane le storie passate di qui, per formare nella mia testa un’idea tutta mia di casa.
Poi pensai al vero problema del momento: quei letti erano troppi.

– In passato ho affittato questa casa a tre persone per volta… – disse mentre il mio sguardo basso fingeva di osservare dei grossi cassettoni sotto i letti per mascherare il mio disappunto.
Sarebbero stati troppi due coinquilini, e soprattutto non sapevo nemmeno dove andarli a cercare in questa nuova città. L’unica possibilità che avevo, era il ragazzo che aveva contattato la signora Pina per me. Di cui non conoscevo praticamente ancora niente. Ma ragazzo o non ragazzo, quei letti erano troppi lo stesso e avrei voluto tanto buttarne uno giù dal balcone per sistemare la cosa.
La donna però, sembrò leggermi nella mente, e, per salvaguardare l’incolumità del suo letto in più, disse: – … poi a me non interessa quante persone affittano l’appartamento… possono essere una, due o tre! –

– Quindi… – fiatai lasciando passare qualche secondo. – …anche due persone le andrebbero bene? – chiesi con la dovuta calma.
– Ma certo! Poi, ovviamente l’affitto lo dividete in due! –
Questo era scontato, pensai, mentre portavo a casa una magra consolazione: abitare con meno persone possibili.

L’altra battaglia invece, che in quel momento avrei sicuramente perso, era quella di ottenere una stanza tutta per me. In tasca però, al riparo da occhi indiscreti, tenevo le dita incrociate su quell’idea che mi frullava per la testa e che non aveva ancora una base su cui appoggiarsi.
Dovevo finire di vedere il resto della casa prima di avanzare le mie proposte.

Passai oltre e misi un punto temporaneo a quei pensieri. Ora toccava alla proprietaria sapermi vendere quella stanza per far salire il suo voto in pagella.
– Come vedi, c’è il parquet qui… Lo fece mettere mia suocera… anni fa ormai. Ho sempre detto ai ragazzi e alle ragazze che hanno abitato in passato, di stare attenti a pulirlo… il legno è molto delicato… –
Solo allora notai che il pavimento era formato da tasselli di legno incastrati in forme geometriche regolari. Non avevo idea di come si pulisse un parquet, e a pensarci bene non avevo la minima idea di come si pulisse un pavimento in generale. Ma questi, sarebbero stati problemi futuri.

– …e infine… c’è un armadio a tre ante che, se andava bene per tre persone, figuriamoci per due! –
E figuriamoci per una! Pensai con un po’ di malinconia e desiderio mentre la donna ultimava il suo lavoro in quella stanza.

Storia di una casa (#10)

 2006/2007

– 10 –

La prima stanza che mi fu presentata fu la cucina. Si accedeva da una porta subito a sinistra nel piccolo atrio che fungeva da ingresso. Entrai calpestando un pavimento diverso da quello precedente. Restai sull’uscio ad osservare, mentre la donna era già in fondo alla stanza. Indicava e parlava. Le parole sembravano uscire come l’acqua da un rubinetto, senza esitazione o tentennamenti. Il clima era calmo e cordiale. La proprietaria utilizzava tutti gli artifici linguistici per mettermi a mio agio. Elargiva domande e commenti con dovuto peso. Proponeva ipotesi di spostamenti di oggetti, mobili o quant’altro, per aiutare la mia fantasia a socializzare con quell’ambiente estraneo, dimostrando anche una minima abilità d’arredatrice. La cucina però, non esaltava di particolari moderni se non per un piccolo microonde sopra il frigo. I mobili erano in legno di ciliegio e si amalgamavano per bene sullo sfondo bianco donato dalle pareti.
Un tavolo con tre sedie mi fornì un’informazione non detta: tre persone era la capienza massima che quelle mura potevano contenere. Quindi, nella mia mente si formò un’idea approssimata della grandezza massima che quella casa potesse avere.
La proprietaria, notando la mia immobilità, cercò di sbloccarmi invitandomi ad ammirare la vista che dava il piccolo balconcino della cucina.
– Vieni a vedere, da qui si vede l’interno… poi c’è un altro balcone, nell’altra stanza, che da sulla strada. Ci sono anche due staffe qui, dove si possono mettere i fili per stendere. –
Mi limitai a pronunciare un “vedo” annuendo con la testa, cosa che modificò il sorriso della donna che mi stava mostrando la chicca della stanza.
– Torniamo dentro che ti mostro il cucinotto… –

La parola “cucinotto” risuonò strana alle mie orecchie. Cercai negli angoli reconditi della mia testa, tra forme dialettali e neologismi, qualcosa che potesse darmi un significato. Niente, non comprendevo il motivo per cui l’angolo cottura venisse chiamato così. Nel seguito degli anni poi, feci un’abbondante cultura dei diversi modi di specificare una cucina a seconda di come sia disposta. Una delle tante terminologie che mi lasciò perplesso fu la differenza tra cucina abitabile e non abitabile. Venni a conoscenza che, in una città moderna, esistono cucine così piccole da non permettere alla gente di mangiare comodamente sedute a un tavolo. Da dove provenivo io, una cucina senza un tavolo con un minimo di 6 posti espandibili a 10 nei giorni di festa, non poteva esser degna di chiamarsi tale. Così, feci la mano con i nuovi neologismi imparati, come “angolo cottura”, “cucina a vista”, “cucinino”, “cucinotto” eccetera, eccetera…

Compresi che non potevo nemmeno aspirare a ottenere una cucina come quella che aveva la mia casa natale. La mia cucina sembrava oro colato in confronto. E pensare a tutte quelle lamentele che scagliavo contro mia madre per via delle ridotte dimensioni dell’ambiente in cui eravamo “costretti” a mangiare. Quanta ingenuità avevo negli anni addietro!
– Ecco! Qui c’è il lavandino, qui dei pensili, dove lasciar asciugare le robe; e qui la cucina! –
La cucina era una di quelle a gas. Quelle classiche bianche che si usavano un tempo. Ricordai che mia nonna ne aveva una uguale in garage che utilizzava in caso di emergenza per sopperire all’invasione di nipoti affamati con enormi quantità di fritture di vario genere.
Mi sembrava tutto così antico. Un tipo di antico che però non dispiaceva.

– Vieni di qua Ciro, che ti mostro il resto della casa… –
La proprietaria m’invitò a seguirla così che, uscendo, sorvolai con lo sguardo sugli altri particolari che mi restavano da vedere. Feci un rapido giudizio complessivo e valutai con una sufficienza la piccola cucina abitabile. Misi quel voto in un registro mentale in attesa di far media con le altre parti della casa, sperando, come uno studente agli sgoccioli dell’anno scolastico, che il voto complessivo potesse evitare la bocciatura.
Credevo in quella casa…

– Seguimi… aspetta che apro la porta… Ecco: questa è la camera da letto! –

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