Storia di una casa (#14)

2006/2007

– 14 –

Un improvviso scintillio balenò nei miei occhi. La mente era tutta un fermentare d’idee, trasformazioni e cambiamenti. I pensieri ribollivano come acqua a cento gradi, facendo saltellare il coperchio della pentola su in cima. Con quell’affermazione la proprietaria si era assicurata un’ottima chance di vedersi la sua casa affittata. La donna ci aveva preso in pieno. Forse, saper cogliere negli occhi dei visitatori i loro bisogni, faceva parte del suo bagaglio di esperta affittacamere.
– Possiamo spostare un letto qui e il divano metterlo al posto del letto nell’altra camera… e poi questo va lì… questo va là… –
Portai una mano al mento e, pensieroso, lo pizzicai con delicatezza. Feci qualche passo verso il balcone pesando che quella visuale sarebbe diventata tutta mia, se il progetto della donna avesse avuto un lasciapassare. Voltandomi notai che la proprietaria non c’era più.
– Non sembra poi così difficile da spostare… – disse, parlando dall’altra stanza con una mano sulla testiera del letto. In pochi passi la raggiunsi. – Si… al massimo si smonta e si rimonta. – costatai.
– … e il divano si sposta così com’è. Poi in due dovreste farcela! A proposito, la signora Pina mi aveva parlato anche di un altro ragazzo… –
– Ehm… sì. Francesco. –
– Sai quando arriverà? – chiese dubbiosa.
– In realtà non so niente di lui… –
Spiegai alla donna tutta la storia. Le raccontai del mio dilemma e dell’estenuante ricerca. Lei ascoltava e annuiva silenziosa. Pensava, aspettando il momento giusto per intervenire.
– Quindi sta solo a te decidere. Visto che a lui va bene qualsiasi cosa… – concluse riassumendo in una frase il mio discorso, estraendone il punto cardine della questione, o almeno il punto che interessava a lei. Sì, tutto era nelle mie mani o meglio, nella mia lingua che doveva pronunciare solo una semplice frase. Una proposizione affermativa dotata della giusta sintassi.
Purtroppo proprio non mi usciva facile soffiare al vento quelle parole, cosicché rimandai la questione di qualche ora.

Uscii dall’appartamento sollevato. I miei passi sembravano più leggeri sull’asfalto che fungeva da marciapiede. I pensieri avevano assunto la forma di un piatto d’insalata che mischiava gli ingredienti tentando di amalgamare cibo e condimento. E a spiegazione della metafora il cibo rispecchiava quell’appartamento con le sue stanze e i suoi mobili inerti; mentre il condimento era il dolce sottofondo della descrizione della proprietaria che arricchiva e deliziava di dettagli ogni cosa.
Trovai un parchetto poco distante e quella manciata di panchine faceva al caso mio.
Mi sedetti su una di loro. Un signore anziano, la cui mansione giornaliera era far da balia a un bastardino, mi guardò incuriosito. Dopo qualche istante abbassai lo sguardo sul mio cellulare pensando a quale contatto chiamar prima della mia rubrica
Chiamai la signora Pina… poi mio padre… e poi mia madre; e stranamente le mie parole bisognose di consigli, non seppero far breccia in nessuna delle tre persone. Tutti rimisero la scelta nelle mani di un ragazzo, seduto a gambe incrociate su una panchina in mezzo al verde e al cemento, a chilometri e chilometri lontano da casa. Così non esitai più e lasciai che il mio destino si compisse.

– Ok Signora, la prendo. –

Fine prima parte

Storia di una casa (#13)

2006/2007

– 13 –

Appena la porta si aprì, un bagliore di luce guizzò verso di me. Qualcosa d’ignoto disse al mio piede di muoversi in avanti. Sarà stata la presenza della proprietaria alle mie spalle a spingermi o la maturata familiarità con il luogo a darmi fiducia. Cosicché, senza nemmeno accorgermi ero al centro della sala.
La proprietaria, entrando di soppiatto, mi sgusciò dietro le spalle. Andò verso la porta del balcone e l’aprì. Disse qualcosa che non ascoltai. Ero incantato nell’osservare un piccolo televisore su di un mobile da salotto. Un mobile basso, piano, rettangolare, in legno chiaro. Uno di quei materiali a cui avresti proprio voglia di dare una ridipinta di una tonalità più scura. Ci fissai lo sguardo e poi, come un compasso che poggia la mina sul foglio, iniziai a girare lentamente.
Vidi una libreria disadorna e spartana, dello stesso colore del mobile della televisione. C’era un solo libro su un ripiano e accanto un oggetto cilindrico dall’origine ignota. Tutto il resto era vuoto e niente come una libreria vuota accendeva in me la voglia maniacale di riempirla. Questo istinto cominciai ad averlo da bambino, nel trovarmi spesso a giocare con scatole di cartone inutilizzate.
Il mio cerchio visivo contino’ il suo corso su un tavolo nell’angolo accompagnato da una singola sedia; poi un divano in stile moderno sprovvisto di braccioli sostituiti da due cuscini rotondi. Il tessuto ruvido era di un beige chiaro e la forma del piano di seduta sembrava quella di un materasso singolo. Infatti la donna mi fece notare che lo schienale poteva ruotarsi e il tutto diventare un comodo letto; e continuò il suo discorso allettandomi con l’ipotesi di poter ospitare qualche amico nei fine settimana.
Passai poi al balcone, la cui visuale era ostruita dalla figura della proprietaria e finii con la seconda libreria che costeggiava il mobiletto basso della TV.
– Vieni a vedere la vista che da questo balcone – disse la donna uscendo all’esterno – Si vede tutta la strada da qui! –
– Vedo… – risposi sporgendomi col busto verso il vuoto.
Il parapetto del balcone aveva una larga parte in vetro, riempito da un reticolato di ferro sottile. Pensai che fosse da sciocchi utilizzare un materiale così fragile come il vetro per assolvere la funzione di resistenza e protezione. Sopra di me c’era una piccola tettoia in plastica ondulata e semitrasparente. Sotto di me invece, tanti piccoli tasselli colorati formavano il pavimento del balcone. Sentendo sotto i piedi la sensazione d’innumerevoli pietruzze sconnesse, mi sembrava di essere in una di quelle chiese dell’antica Roma. Più le guardavo e più m’incuriosivano; tutti quei colori spenti e quella casualità originata dall’abile e paziente lavoro di un operaio, mi stupirono. Sembra così facile stupirmi a volte.
E proprio nel mentre in cui guardavo un tassello di color blu notte, capii che la mia visita guidata era terminata. Quella che avevo attraversato era l’ultima porta della casa e il balcone su cui stavo rappresentava l’ultima cosa da visionare in quell’appartamento. Assimilai il pensiero e cercai di chiudere il cerchio mentale che mi ero costruito, riempendolo con qualche futile dettaglio racimolato visivamente qua e là, per guadagnare tempo per riflettere.
– Ed eccoci qua, questa è la casa, come ti sembra? –
– …accogliete e… ordinata! –
– Si… però ha veramente bisogno di una ripulita. Purtroppo è da mesi che non l’abita nessuno guarda qui! – disse la donna calciando un ricciolo di polvere. – Quindi? Cosa facciamo? Traslochiamo? – concluse.
– Aspetti signora! Aspetti! – risposi con un mezzo sorriso. – La casa non è male. Beh… il problema è la camera in comune… ehm… cercavo una singola perché non mi sento a mio agio a dormire con altre persone… –
– Certo… capisco… – borbotto la donna passeggiando per la stanza in modo pensieroso. Poi risollevò il capo e come Einstein colto da un lampo di genio, disse:
– …ho un’idea! E se trasformassimo questa stanza nella tua stanza? –

Storia di una casa (#12)

 2006/2007

– 12 –

La descrizione della casa, prima di volgere al termine, si spostò su una di quelle stanze che spesso i proprietari di case sorvolano nel loro giro d’ispezione: il bagno. Costatai, con uno sguardo del volto e dalle parole pompose con cui la proprietaria pronunciava: l’abbiamo ristrutturato da poco, che quella era una delle stanze di cui essa stessa andava fiera. Negli anni poi, appresi che la parola ristrutturare, in una città come questa, con prezzi e tariffe dettate dalla poca manovalanza disponibile sul mercato, era roba da ricchi.
Comunque sia, il bagno era accettabile. Aveva tutto il necessario piantato nel posto giusto. Ovviamente il concetto di doccia tardava ancora a radicarsi nella mentalità e nelle case di antica generazione di cui Milano era piena. Se volevo viver lì, dovevo abituarmi ad assolvere il mio bisogno di pulizia in quel surrogato di lavaggio verticale.
– …e qui c’è la lavatrice. Tutto chiaro? –
– Si… tutto chiaro… –
– Bene… passiamo al ripostiglio, è proprio qui, dietro questa porta –

La donna, dopo aver aperto la porta dello stanzino, si scansò di lato per permettermi di osservare. Lo spazio era poco e per affacciarmi all’interno, mi trovai con la parte destra del corpo, quasi a contatto con la signora di mezz’età, diventata ormai il mio Cicerone. Di solito mantengo una certa distanza, sia con gli estranei sia con le persone in generale. Il contatto fisico lo cerco poco relegandolo marginalmente ai saluti convenzionali come le strette di mano. E lì stavo osando. Stavo oltrepassando una linea che il mio istinto non poteva sopportare ancora. Mi tirai indietro da quello spazio. Mi allontanai con garbo dalla donna e sorrisi annuendo, dando l’impressione di aver osservato ogni minimo dettaglio.
Cosa non vera, data la mia scarsa memoria di quel momento.
La proprietaria tirò un sospiro di sollievo e disse: Eccoci giunti all’ultima stanza, il salotto.
In quel momento ebbi la sensazione di essere su una meravigliosa giostra rotante nell’istante in cui il giostraio pronunciava l’unica frase che un bambino non vorrebbe mai sentire: ultimo giro!
Anche se non sapevo ancora se quella sarebbe diventata casa mia, quel tour guidato casalingo mi era piaciuto parecchio. Si vedeva che la donna aveva esperienza di affitti, di certo arricchita dalla sua acutezza e precisione.

…E rullo di tamburi, l’ultima porta s’aprì.
Si presentò davanti a me ciò che pensai essere la vera chicca della casa, checché ne dicesse e ne pensasse la proprietaria. E questa volta, fui il primo a entrare…

Storia di una casa (#11)

2006/2007

– 11-

La porta si aprì e davanti a me si presentò il posto, dove avrei dovuto passare le mie notti, spesso insonni, per gli anni a seguire. La proprietaria, come ormai di consueto, si fiondò verso il confine della stanza. Col suo movimento repentino, cercò di calamitarmi a sé; spingermi a entrare nell’ambiente; a osare ciò che la mia timidezza m’impediva.
– Apro un po’ la finestra… – disse – faccio entrare un po’ d’aria! –
E dopo aver sbrigato le dovute manovre percependo che il mio sguardo era l’unica cosa che riusciva a calamitare, m’indicò, stendendo il braccio e poi un dito, i tre protagonisti della stanza.

– Come vedi ci sono tre letti… sono abbastanza nuovi e tutti Ikea… li abbiamo cambiati da poco perché gli altri… – e si addentrò nella storia passata di quella casa che le mie orecchie proprio non volevano sapere. Era un po’ come raccontare la sorpresa che si cela in una di quelle uova di pasqua da quattro soldi. Credo che nessuno voglia sapere cosa sia. Si preferisce restare nell’oblio dell’ignoranza per generare la fede e la curiosità in qualcosa di buono.

Era questo che pensavo in quel momento, volevo tener lontane le storie passate di qui, per formare nella mia testa un’idea tutta mia di casa.
Poi pensai al vero problema del momento: quei letti erano troppi.

– In passato ho affittato questa casa a tre persone per volta… – disse mentre il mio sguardo basso fingeva di osservare dei grossi cassettoni sotto i letti per mascherare il mio disappunto.
Sarebbero stati troppi due coinquilini, e soprattutto non sapevo nemmeno dove andarli a cercare in questa nuova città. L’unica possibilità che avevo, era il ragazzo che aveva contattato la signora Pina per me. Di cui non conoscevo praticamente ancora niente. Ma ragazzo o non ragazzo, quei letti erano troppi lo stesso e avrei voluto tanto buttarne uno giù dal balcone per sistemare la cosa.
La donna però, sembrò leggermi nella mente, e, per salvaguardare l’incolumità del suo letto in più, disse: – … poi a me non interessa quante persone affittano l’appartamento… possono essere una, due o tre! –

– Quindi… – fiatai lasciando passare qualche secondo. – …anche due persone le andrebbero bene? – chiesi con la dovuta calma.
– Ma certo! Poi, ovviamente l’affitto lo dividete in due! –
Questo era scontato, pensai, mentre portavo a casa una magra consolazione: abitare con meno persone possibili.

L’altra battaglia invece, che in quel momento avrei sicuramente perso, era quella di ottenere una stanza tutta per me. In tasca però, al riparo da occhi indiscreti, tenevo le dita incrociate su quell’idea che mi frullava per la testa e che non aveva ancora una base su cui appoggiarsi.
Dovevo finire di vedere il resto della casa prima di avanzare le mie proposte.

Passai oltre e misi un punto temporaneo a quei pensieri. Ora toccava alla proprietaria sapermi vendere quella stanza per far salire il suo voto in pagella.
– Come vedi, c’è il parquet qui… Lo fece mettere mia suocera… anni fa ormai. Ho sempre detto ai ragazzi e alle ragazze che hanno abitato in passato, di stare attenti a pulirlo… il legno è molto delicato… –
Solo allora notai che il pavimento era formato da tasselli di legno incastrati in forme geometriche regolari. Non avevo idea di come si pulisse un parquet, e a pensarci bene non avevo la minima idea di come si pulisse un pavimento in generale. Ma questi, sarebbero stati problemi futuri.

– …e infine… c’è un armadio a tre ante che, se andava bene per tre persone, figuriamoci per due! –
E figuriamoci per una! Pensai con un po’ di malinconia e desiderio mentre la donna ultimava il suo lavoro in quella stanza.

Storia di una casa (#10)

 2006/2007

– 10 –

La prima stanza che mi fu presentata fu la cucina. Si accedeva da una porta subito a sinistra nel piccolo atrio che fungeva da ingresso. Entrai calpestando un pavimento diverso da quello precedente. Restai sull’uscio ad osservare, mentre la donna era già in fondo alla stanza. Indicava e parlava. Le parole sembravano uscire come l’acqua da un rubinetto, senza esitazione o tentennamenti. Il clima era calmo e cordiale. La proprietaria utilizzava tutti gli artifici linguistici per mettermi a mio agio. Elargiva domande e commenti con dovuto peso. Proponeva ipotesi di spostamenti di oggetti, mobili o quant’altro, per aiutare la mia fantasia a socializzare con quell’ambiente estraneo, dimostrando anche una minima abilità d’arredatrice. La cucina però, non esaltava di particolari moderni se non per un piccolo microonde sopra il frigo. I mobili erano in legno di ciliegio e si amalgamavano per bene sullo sfondo bianco donato dalle pareti.
Un tavolo con tre sedie mi fornì un’informazione non detta: tre persone era la capienza massima che quelle mura potevano contenere. Quindi, nella mia mente si formò un’idea approssimata della grandezza massima che quella casa potesse avere.
La proprietaria, notando la mia immobilità, cercò di sbloccarmi invitandomi ad ammirare la vista che dava il piccolo balconcino della cucina.
– Vieni a vedere, da qui si vede l’interno… poi c’è un altro balcone, nell’altra stanza, che da sulla strada. Ci sono anche due staffe qui, dove si possono mettere i fili per stendere. –
Mi limitai a pronunciare un “vedo” annuendo con la testa, cosa che modificò il sorriso della donna che mi stava mostrando la chicca della stanza.
– Torniamo dentro che ti mostro il cucinotto… –

La parola “cucinotto” risuonò strana alle mie orecchie. Cercai negli angoli reconditi della mia testa, tra forme dialettali e neologismi, qualcosa che potesse darmi un significato. Niente, non comprendevo il motivo per cui l’angolo cottura venisse chiamato così. Nel seguito degli anni poi, feci un’abbondante cultura dei diversi modi di specificare una cucina a seconda di come sia disposta. Una delle tante terminologie che mi lasciò perplesso fu la differenza tra cucina abitabile e non abitabile. Venni a conoscenza che, in una città moderna, esistono cucine così piccole da non permettere alla gente di mangiare comodamente sedute a un tavolo. Da dove provenivo io, una cucina senza un tavolo con un minimo di 6 posti espandibili a 10 nei giorni di festa, non poteva esser degna di chiamarsi tale. Così, feci la mano con i nuovi neologismi imparati, come “angolo cottura”, “cucina a vista”, “cucinino”, “cucinotto” eccetera, eccetera…

Compresi che non potevo nemmeno aspirare a ottenere una cucina come quella che aveva la mia casa natale. La mia cucina sembrava oro colato in confronto. E pensare a tutte quelle lamentele che scagliavo contro mia madre per via delle ridotte dimensioni dell’ambiente in cui eravamo “costretti” a mangiare. Quanta ingenuità avevo negli anni addietro!
– Ecco! Qui c’è il lavandino, qui dei pensili, dove lasciar asciugare le robe; e qui la cucina! –
La cucina era una di quelle a gas. Quelle classiche bianche che si usavano un tempo. Ricordai che mia nonna ne aveva una uguale in garage che utilizzava in caso di emergenza per sopperire all’invasione di nipoti affamati con enormi quantità di fritture di vario genere.
Mi sembrava tutto così antico. Un tipo di antico che però non dispiaceva.

– Vieni di qua Ciro, che ti mostro il resto della casa… –
La proprietaria m’invitò a seguirla così che, uscendo, sorvolai con lo sguardo sugli altri particolari che mi restavano da vedere. Feci un rapido giudizio complessivo e valutai con una sufficienza la piccola cucina abitabile. Misi quel voto in un registro mentale in attesa di far media con le altre parti della casa, sperando, come uno studente agli sgoccioli dell’anno scolastico, che il voto complessivo potesse evitare la bocciatura.
Credevo in quella casa…

– Seguimi… aspetta che apro la porta… Ecco: questa è la camera da letto! –

Storia di una casa (#9)

2006/2007

– 9 –

Più camminavo e più mi avvicinavo all’appartamento da visitare; più camminavo, e più mi accorgevo di quanto ogni mio passo fosse solitario. Era angosciante il rumore delle suole delle scarpe sull’asfalto. In quel momento compresi di esser solo. Non avevo amici, conoscenti, o quantomeno qualcuno con cui scambiare due chiacchiere nel raggio di chilometri. Sentivo crescere in me il senso di abbandono. Ero partito alla ricerca di me stesso. Questo viaggio, questa città, questa casa, tutto faceva parte di una sfera in cui entravo. Una sfera di vetro, sul cui rifesso, vedevo distorte le storie che abbandonavo: amici di strada, corse in macchine e nottate affacciati alle stelle. Ormai era il passato… e di tutto ciò, solo un riflesso distante di molti ricordi. E la sfera in cui stavo ora? Non scorgevo un gran che, vuoto assoluto. Solo una bella e incantevole città che faceva da scenografia a un palco vuoto. Ma quand’è che gli attori sarebbero entrati?

Bussai al 10, dopo aver controllato ogni nome sul citofono e fugato ogni dubbio. Sentii la voce squillante di una donna che mi chiese chi fossi. Dal tono capii che già sapeva che qualcuno sarebbe arrivato, quindi quella domanda era inutile.
– Sono Ciro… il ragazzo che… –
– Si! Sali! Scala A quinto piano. –
– Ok, salgo… – sussurrai per chiudere la conversazione ormai già chiusa.
Spinsi il pesante portone a vetri e fui all’interno dell’atrio. Un tappeto verde smeraldo m’indicava l’unica via percorribile. C’erano tre gradini davanti a me. Larghi e lunghi. Un tipo di scala che spesso sentii come metaforico esempio di funzioni non decrescenti nei corsi di matematica. C’è chi dice che la matematica non servirà mai, e invece, eccola lì… proprio sotto i miei piedi.
Arrivai a un bivio. A sinistra una porta in legno con una lunga vetrata; a destra, un altro corridoio con in fondo la stessa identica porta. Ciò che differenziava le due porte era una lettera. A e B. Ricordai ciò che aveva sputato il citofono poco prima e girai a sinistra.
Un modesto ascensore cercò di portarmi al quinto piano. Pensai che gli scricchiolii di quell’aggeggio sarebbero stati inclusi nel mio futuro affitto. In realtà tutto quello su cui stavo camminando lo sarebbe stato. Persino quel bottone numero 5 che per chissà quante volte avrei premuto; o la scala all’ingresso coi gradini larghi o la lettera A della porta in legno.
Mi accorsi di star andando troppo oltre. Forse il mio istinto stava già affezionandosi a quella casa e iniziava a fertilizzare il terreno per nuovi ricordi. Dovevo smetterla di pensare.
Aprii le due ante del vecchio ascensore e come un buffo gambero umano, uscii in retromarcia per chiuderle entrambe. Sull’uscio della porta semiaperta mi aspettava questa simpatica signora. Ancora non ero riuscito a darle una collocazione geografica dal suo accento, ma dal modo di vestire, dal taglio degli occhi e dal colore della tinta dei capelli, era chiaramente del nord. La salutai con una stretta di mano e con un “salve” non troppo serioso. Lei iniziò a parlare e si vedeva che il mestiere lo conosceva da un po’. Non ero di certo il primo sconosciuto che superava quell’uscio. Chissà quanti ragazzi sprovveduti e inesperti erano alla ricerca di un alloggio in questo momento. Milano sembrava pullulasse di anime vaganti in cerca di un posto dove stare. Ed io ero tra quelle a contendermi un posto con gli altri. Era una guerra ingiusta che mi ero stufato di perdere. Non avevo più tempo…

– Vieni Ciro, di qua c’è la cucina… –

Storia di una casa (#8)

 2006/2007

– 8 –

Ero solo. Alberto era andato in garage e la signora Pina sparita chissà dove. Gironzolavo per quella taverna sotterranea adibita a cucina e salotto. La mia attenzione tornò sull’aquario. Mi affascinava quel micro-mondo di esseri viventi, tanto estraneo a noi eppur così in simbiosi.
S’ipotizza che se ora siamo noi a essere al di qua del vetro lo dobbiamo a loro. Alle loro cellule, alla loro evoluzione, alla loro capacità di sopravvivere in ambienti ostili. Sembra così difficile pensare che milioni di anni fa sarei potuto essere uno di quei piccoli pescetti colorati; e invece di gironzolare tra divani e mobili, mi sarei addentrato tra alghe e scogli. Chissà se possono provare affetto, amore, odio, paura… dopotutto, se i nostri organi si sono evoluti dai loro, perché non potrebbe valere anche per i nostri sentimenti?
Può l’amore essere un’evoluzione di un istinto? L’eterna trasformazione di un sentimento d’affetto, amplificato dalla capacità di comunicare? Sembrava impossibile che tra me e il pesce che mi fissava boccheggiando al di là del vetro, ci potesse essere il ben che minimo collegamento. Eppure, qualcosa mi diceva che nel suo piccolo, quell’esserino stava apprezzando i tentativi di Alberto di mostrare “affetto” verso di loro.
Quel minuscolo castello in finta pietra; quel vaso rotto in terracotta; il minuscolo veliero affondato; erano tutti tentativi di umanizzazione di un ambiente che per millenni era rimasto uguale: sabbia e acqua.
I pesci sembravano felici, o almeno provavano una forma primitiva di felicità, ma pur sempre felicità. E allora mi chiedo: se la felicità è un’evoluzione di un qualcosa, tra milioni di anni, in cosa si trasformerà?

La scala in legno iniziò a scricchiolare. Qualcuno stava scendendo. Ovviamente era la signora Pina, ma in quella casa delle sorprese non davo più nulla per scontato.
– Ciro! Porto buone notizie! –
– Mi dica. –
– Ho chiamato Francesco. E’ un ragazzo che tempo fa cercava casa qui a Milano. Pensavo che avesse già trovato, per questo non te l’ho proposto prima. Indovina un po’… sta ancora cercando! –
– Bene… –
– Bene? Benissimo! Vedrai… ti troverai bene con lui. E’ un bravo ragazzo… e poi è delle tue zone! –
– Ah si? –
– Certo! Però è più grande di te… ma quando si è giovani non fa differenza qualche anno in più o in meno. –
Sorrisi a Pina in modo da mostrare un po’ di finta felicità per quella notizia. Dovevo rassegnarmi. Vivere da solo era una possibilità troppo remota. Quindi, quell’occasione, era la migliore che mi potesse capitare in quel momento.
– Ah! Ho anche richiamato la signora dell’annuncio. Ho fissato un appuntamento per domattina alle dieci, tu ci sei vero? –
– Mmm… si certo, ci sono! –
Stavo cominciando a odiare le continue intromissioni di Pina in quel che doveva essere la mia ricerca. Ma devo ammettere che mi stava dando un’importantissima mano.
– Allora domattina andrai all’appartamento… purtroppo sarai da solo. Io lavoro e Francesco non è qui a Milano ma ha detto che se l’appartamento è vivibile e costa poco, per lui non ci sono grossi problemi. Quindi la scelta sta a te… –

Già. Tutto era nelle mie mani. Come al solito del resto. Come se il fato dopo tutto il lavoro che aveva fatto per estromettermi dai miei sogni, mi ponesse davanti a due porte con scritto: Milano e Napoli. Stava a me scegliere. Stava a me completare o continuare quell’estenuante ricerca di una casa.

Storia di una casa (#7)

2006/2007

– 7 –

Lo stomaco pieno tenne finalmente a bada la fame per un po’. La pizza milanese, ovviamente, non era per nulla paragonabile a quella napoletana e col tempo compresi che dovevo abituarmi a quell’enorme differenza.
Ritornammo a casa. Di nuovo nella profumata cucina della signora Pina.
– Accomodati Ciro, arrivo subito… – si congedò la signora, lasciandomi in balia del marito silenzioso.
Per istinto seguii l’uomo che si stava dirigendo verso l’altra estremità della lunga sala rettangolare. C’erano due divani messi a formare un angolo. Mi sedetti sul primo che incontrai e puntellai con le mani il cuscino pensieroso. Alberto mi guardava. Sembrava cercasse uno stimolo, un input per cominciare un discorso. Così glielo diedi.
– Molto bello l’acquario. Posso guardare? –
– Certo! Son cinque anni che ce l’ho. Ogni tanto metto dentro un pescetto nuovo. Però sto attento che le razze combacino tra loro… non voglio rischiare che i nuovi pesci mangino quelli vecchi… –
– Interessante… –
Mi avvicinai all’acquario per guardarlo meglio. Era abbastanza grande. Un rettangolo di vetro, largo circa un metro. L’acqua limpida era illuminata da un timido neon bianco. I pesci colorati formavano piccoli branchi che s’intrecciavano tra loro.

– Vedo che ti piace l’acquario di Alberto! – disse Pina alle mie spalle sgranocchiando un biscotto.
– Si… davo uno sguardo… –
In mano aveva un cordless bianco. Me lo porse.
– Chiama il numero dell’annuncio… –
– Ma non è un po’ tardi? Saranno quasi le 10! –
– Chiama lo stesso! Qui al nord le persone vanno a letto tardi… –
– Se lo dice lei… –
Composi il numero titubante. Accostai la cornetta all’orecchio e sentii lo sguardo pesante di Pina proveniente dal divano. Detestavo sentirmi osservato, rovinava la mia concentrazione.
Parlai con Ines, la proprietaria dell’appartamento in questione. Mi spiegò tutte le condizioni con una chiarezza tale di chi fa l’affitta-camere da molti anni. Mi disse che la casa era vivibile per tre persone ma non le importava quante davvero che ne fossero all’interno, purché le venisse pagato l’affitto ogni mese. Pensai che avrei potuto benissimo prendere l’appartamento da solo e cominciare la mia vita milanese in santa pace. Purtroppo, quando mi disse che l’ammontare dell’affitto era di 1200€, il mio fantastico castello crollò su se stesso. Ringraziai la proprietaria per il tempo perso e mi scusai ancora per l’orario inusuale, poi attaccai. Guardai la signora Pina con dispiacere, sembrava che l’ennesimo muro mi fosse schiantato in faccia. Non pronunciò parola e questo destava sospetto in una persona logorroica come lei. Pensava. Deducevo dal suo silenzio che aveva ascoltato tutta la mia conversazione. Qualcosa le ronzava nella mente, quand’ecco che le sue labbra vibrarono:
– Ma il problema non è la casa… se mai un coinquilino giusto? –
– Certo… una ricerca ancora più difficile! –
– Mmm, fammi pensare… Ma certo! Come ho fatto a dimenticarmi di Francesco! Aspettami qui! Arrivo subito! Dove cavolo ho messo quel numero? – disse Pina finché la sua voce diventò quasi un borbottio per poi scomparire al piano di sopra.

Storia di una casa (#6)

 2006/2007

– 6 –

In quella cucina, dove le parole dei miei racconti volteggiavano impazzite, c’era un odore particolare. Non saprei descriverlo perché fondamentalmente non era un odore, per lo più un miscuglio di profumi. Era come prendere una vecchia padella e annusarla: un po’ di fiuto e un pizzico d’immaginazione potevano dirti ogni cibo che con essa era stato cucinato. E quella cucina era così, proprio come una vecchia padella che cucinava odori. Mentre parlavo, ventate di profumi m’inondavano l’olfatto distraendomi. Profumi come il caffè fatto da un po’; una brocca con fiori freschi di stagione; l’odore tipico dell’acqua di un acquario. Sentivo anche un profumo d’incenso bruciato qualche giorno prima che si mescolava alla durezza di un profumo per ambienti alla vaniglia. Era un cocktail particolare di odori a cui non ero abituato. L’odore più usuale che la mia mente associava a una cucina era quello della pasta al sugo.
– …e questo è tutto. –
– Cavoletti! Quanta fatica che hai fatto! Ma non mi hai ancora detto il motivo per cui ti sei trasferito qui! –
– Signora Pina… ehm… Pina… questa è una storia un po’ più lunga e non so se abbiamo tempo per… –
Una porta si aprì e istintivamente volsi lo sguardo verso di essa. Un uomo brizzolato stoiò le scarpe sullo zerbino, poi entrò.
– Alla buon ora! Finalmente! – commentò Pina.
– Scusami… ma non ho trovato parcheggio. – rispose l’uomo. – Chi è il nostro ospite? – aggiunse guardandomi incuriosito.
– Sono Ciro… – dissi alzandomi in piedi.
– E’ il figlio di una lontana conoscenza… poi ti racconto. Ora non toglierti la giacca che usciamo. Ciro, ti va una pizza? –

Qualche minuto dopo fummo in strada. Mi suonava terribilmente strano andar a mangiare una pizza a piedi. Dalle mie parti era d’abitudine prendere la macchina anche solo per fare pochi metri. In quella città invece, la macchina sembrava più un intralcio che un aiuto.
– Dobbiamo sbrigarci a trovarti una sistemazione! Ora ci pensa Pina a te! –
– Grazie… lei è molto gentile. –
– Di niente… mi è capitato già altre volte di aiutare qualcuno a trovar casa qui. Basta solo tener gli occhi aperti e le occasioni capitano. –
Speravo che ciò che dicesse quella donna fosse diventato realtà. La mia natura pessimista però, continuava a martellarmi il capo in cerca di attenzioni.
Camminavamo, e anche se tra queste righe può non trasparire, la signora Pina sembrava un fiume di parole in piena. Mi raccontava di strane storie in quel di Milano, dei parenti giù al sud e di quelli del marito in Liguria. Il suo parlare mi faceva sospettare che non avesse molte persone con cui conversare, ma poco dopo mi convinsi che era una caratteristica propria del suo carattere estroverso.
– Guarda! – disse all’improvviso bloccandomi con la mano. Mi fermai e volsi lo sguardo nella direzione in cui puntava il suo. Un grosso portone si stagliava ritto di fronte a noi. Aveva delle sbarre lunghe di colore verde. Molto semplici e ordinate a intervalli regolari. Su un lato, tra le sbarre e il vetro, campeggiava un cartello arancione con la scritta “Affittasi”. Purtroppo non lo guardavo con gli stessi occhi lucenti con cui lo guardava Pina. La mia testa aveva ancora in mente le troppe delusioni date da annunci ingannevoli o già occupati. Nonostante il mio scetticismo, annotai quel numero su un foglietto in modo da non dare adito a facili rimproveri da parte della logorroica donna alle mie spalle. Misi il foglietto in tasca e finsi un sorriso.
– Visto? Che ti dicevo! Bastava solo aprire un po’ gli occhi! –
– Già… speriamo bene… Ma dove si trova questa pizzeria? Sto morendo di fame! –

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