– Vado a comprare una bottiglietta d’acqua… –
– Ce la smezziamo? –
– Certo! –
Ciro si alzò dal suo posto. Mise il suo trolley a fianco a me in modo che potessi controllarlo. Lo vidi scorrere via nel corridoio dell’aeroporto nei suoi jeans a pinocchietto e la maglietta di Hilfigher. Si guardava in giro curioso, come un cane che perlustra l’area; o semplicemente cercava il prossimo spunto per un’idea ingegnosa. Era un mistero sapere cosa girasse in testa a quel “vecchio” adolescente. È sempre stato un modello per me. Un modello di vita e di pensiero. A volte ho copiato la sua pazzia mescolandola con un po’ di ragione condendola con un pizzico di responsabilità. Qualche anno fa, quando l’uno precedeva lo scorrere delle unità nei nostri anni, e i giorni del liceo si facevano più duri, scappavo da scuola per andare a rintanarmi nella sua soffitta. Non mi diceva niente… non chiedeva il come e il perché fossi lì… forse lo immaginava e sapeva che era meglio non domandare. Lo osservavo mentre giocava al pc o curiosavo tra la sua roba. Tra l’immenso disordine delle sue cose. A volte mi affacciavo dal balcone. Si vedeva tutto il paese da lì. Era bello abitare al centro…
E ora siamo cresciuti. Su due strade diverse che ogni tanto s’intrecciano, generano storie e poi ognuno dalla sua parte. Ognuno verso la propria meta…
A questo pensavo mentre lo guardavo scomparire in un negozio dell’aeroporto di Orly. Ero solo… Solo in mezzo ad altri passeggeri che, come me, attendevano il diretto per Milano Linate. Ero solo perché i restanti membri della compagnia avevano preso il volo per altre mete. Antonio, che gentilmente ci aveva ospitato in quel di Parigi, era partito per Roma. Rafael e Alberto invece, erano tornati a Cambridge a raccogliere le loro cose per poi fuggire in altre città lontane. Ciro invece, a sorpresa mi aveva detto: – vengo con te a Milano… mi fermo qualche giorno -. Per questo motivo era insieme a me. Altrimenti sarei partito da solo come avevo fatto all’andata.
Mi alzai e andai di fronte ad una grossa finestra di vetro. Si vedeva la pista e qualche aereo pronto in partenza. Forse c’era anche il mio tra quelli. L’aereo che mi avrebbe riportato a casa decretando la fine del mio viaggio. Più in là, oltrepassando gli alberi, con un po’ d’immaginazione, c’era Parigi.
Chiusi gli occhi per un istante e vidi scorrere davanti a me l’intera vacanza come capita a colui che è in punto di morte.
Vidi il mio viaggio e l’aero che atterrava lì, ed io che scendevo con un carico di ansie e paranoie. Vidi la casa di Antonio con i letti sfatti e le cene a base di vino. Ricordai i sogni nelle notti apparenti di ore improbabili. Ripensai alla poca voglia di socializzare che si era trasformata in due splendide amicizie.
Rafael, il brasiliano strampalato con un fegato senza fondo e un accento divertente. Alberto, l’inglese-napoletano-piacione-logorroico, che occupava tutti i nostri silenzi e a volte anche i nostri pensieri. Chissà se li avrei più rivisti.
Il mio viaggio mentale, tra pensieri e ricordi, si alzò sopra le cime delle case, sui comignoli e le antenne. Superò ogni cosa e si fermò in alto. La vista era stupenda. Si vedeva la Tour Eiffel che scintillava sotto i colpi del sole; l’Arco di Trionfo che proiettava la sua ombra sugli Champs-Élysées e il Louvre, poco più giù, con la sua elegante piramide di vetro. Scesi più in basso con la fantasia. Mi adagiai sulla cima di uno dei campanili di Notre-Dame e desiderai restare lì in eterno come un Gargoyle in pietra. Vidi il Quartiere Latino sulla destra, pulsare di vita e festosa frenesia. Quante storie potevano scriversi tra i suoi vicoli se solo avessimo avuto più tempo per viverle. E ne avremo vissute altre con infinita gioia. Di più belle, di più impensabili, di più incredibili. Storie che solo la pazzia della giovinezza può creare e la mano di uno scrittore descrivere. Persino la mia fervente fantasia cede sotto i colpi della soave realtà. E una lacrima mi scese. Lì, nella mia mente, nel mio magico viaggio, sulla cresta di Notre-Dame. E la piccola goccia cadde nel vuoto bucando il sogno, annerendo tutto, lasciando il buio dietro di se.
Aprii gli occhi e ricordai di essere nell’aeroporto di Orly in attesa del mio volo. Appoggiai una mano al vetro, come a voler toccare quel luogo straniero per imprimere la sensazione nella mente, e regalare anche al tatto qualcosa.
Mi girai e tornai al mio posto. Sprofondai nella poltroncina e poggiai i piedi sul Trolley. Spostai la mano e solleticai il portatile che avevo cacciato dalla borsa cercando un’ispirazione.
Aprii lo schermo e iniziai a scrivere. Di getto, senza pensare… Lasciai scorrere le dita tra i tasti neri. Lasciai che le lettere formassero parole e le parole frasi…
e le frasi racconti…
Camminai tra i sentieri dei ricordi. Corsi per non farmene sfuggire nemmeno uno. E più correvo e più scrivevo. E più scrivevo e più si avvicinava la fine. Incastonavo pezzi di storia con pezzi di vita. Ammorbidivo i dettagli rendendo meno noiose le vicissitudini. Descrivevo i luoghi e le sensazioni sulla mia pelle con una sperata maestria. E scrivevo… e non mi fermavo. Perché ce n’era ancora da raccontare. E la voglia che partiva da dentro non ancora si arrestava.
E arrivò, attesa e sperata come un’eclissi di Luna, la fine della mia storia parigina.
Adieu mes amis…
Ciro tornò dal negozio. Si sedette accanto a me con la bottiglietta in mano.
– Che scrivi? – mi chiese.
– Mah… niente. Tu piuttosto, perché ci hai messo tutto sto tempo? –
– Ho comprato un souvenir… vuoi vederlo? –
– Si… fammi vedere. –
– Eccolo… Che ne dici? –
– Con sincerità? –
– Si, parla! –
– Fa cagare… –