Frammenti di vita #63

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Amiche che tornano dalle vacanze cariche come dromedari sulla via della seta e ti obbligano a fare i lavori pesanti…

(p.s. il suo zaino pesava quanto un adolescente obeso e a tratti sembrava scalciare davvero… )

Weekend finanziario (VI)

Weekend Finanziario 6

Una delle ragazze di quella sera credeva fossi un modello! Mah…

Ultimo giorno, mattina della partenza

Oltrepassata la robusta porta in legno di ciliegio, sigillata da una chiusura a chiave magnetica, si entrava in una delle stanze del quinto piano, vista mare, di un mediocre albergo Riminese. Per terra, sulla moquette blu notte a pois dorati, c’erano disseminati una miriade di capi d’abbigliamento stropicciati in un susseguirsi continuo fino ai piedi del letto. Una scarpa destra, con ancora i lacci legati in un classico e inconfondibile doppio nodo faceva la guardia all’ingresso, sperando di rivedere, prima o poi, la sua gemella sinistra. Subito dopo, antistante la porta del bagno, un giubbotto di pelle nero era adagiato a terra. Girato di spalle e con le maniche allungate, sembrava un soldato morto sul campo. Più avanti, tra un calzino e una maglietta si arrivava al letto, da cui sbucava, dal lato sbagliato, un piede nudo. Un ragazzo dormiva scompostamente lungo la diagonale di un letto matrimoniale. Percorrendo tutta la sua figura inanimata, si potevano confrontare i pezzi del puzzle di vestiti che non erano sulla moquette in modo da ricostruire l’abbigliamento originale. Tutto sembrava tranquillo, fino a quando, l’indice della mano sinistra non emise una sorta di breve tic

Ero in un luogo buio, con musica assillante e luci intermittenti. Seduto su un divanetto, conversavo con diversi ragazzi di assurde politiche economiche. In una mano avevo un cocktails e con l’altra carezzavo la pelle bianca del divanetto a due posti. Stranamente però, non sentivo la liscia consistenza della pelle sotto le dita. Al contrario, percepivo una sensazione di ruvidezza, come se la pelle fosse in realtà stoffa. Continuai a giocare con la mano sul bracciolo, isolandomi dal resto della scena. Non riuscivo a comprendere la strana alterazione sensoriale tra vista e tatto fino a quando il mio dito non incontrò un disegno in rilievo che, sul divanetto in pelle bianca dell’oscuro locale, non c’era.
Fu allora che aprii gli occhi e vidi la mia mano sinistra che strusciava sul copriletto del materasso matrimoniale della mia camera d’albergo. Lentamente continuai a delineare i bordi del fiore disegnato sulla stoffa per ristabilire il connubio tra vista e tatto.
“Era un sogno” pensai, poi sopraggiunse il mal di testa e il sogno non fu più una spiegazione plausibile.
Mi alzai, mettendomi a sedere. Mi resi conto di essere ancora, stranamente, vestito. Metà dei quali però, erano sul pavimento. “Cosa diavolo è successo?”. Tolsi l’unica scarpa che avevo per liberare l’altro piede ancora imprigionato dal mio classico doppio nodo. Mi spogliai completamente dai vestiti sgualciti e li buttai per terra insieme con gli altri. Passai davanti allo specchio a muro della camera. Volevo controllare se era tutto al proprio posto, poi mi buttai sotto la doccia.

Uscii dal bagno ancora tutto gocciolante, con un asciugamano bianco legato in vita. Con un altro asciugamano mi frizionavo i capelli umidi finché il mio sguardo non fini su un piccolo pezzo di carta sul comodino. Qualcuno aveva scritto qualcosa a penna e l’aveva lasciato lì, in bella mostra. Lo presi con le mani ancora umide e notai che era lo stesso bigliettino che mi aveva dato il tassista la sera prima e che io avevo conservato nel portafoglio. Lo lessi:

“Fantastica serata Ciro,
La prossima volta meno alcol però eh!
Ti abbiamo riportato noi in albergo…
Chissà! Ci si rincontrerà prima o poi!
Addio!”
Incredulo lessi e rilessi ancora quel bigliettino. “Chi cavolo sono questi?! E cosa cavolo ho fatto ieri sera?!” I miei pensieri non si davano pace alla ricerca di una risposta. “Come hanno fatto a riportarmi qui?”. Guardai sul comodino e vidi la chiave magnetica della mia camera con su scritto il nome del mio hotel. “Sicuramente usando quella…” pensai.
Guardai l’orologio e capii che non avevo tempo da dedicare alla ricerca dei ricordi perduti. Di lì a breve avrei avuto un treno che mi avrebbe riportato a Milano. Dovevo sbrigarmi per non perderlo. Mi rivestii in fretta e preparai la valigia. Fortunatamente non mancava niente. Quei ragazzi che mi avevano accompagnato, dovevano essere dei bravi ragazzi. Diedi un ultimo sguardo alla stanza e scesi nella Hall.
Alla reception c’era una ragazza dai capelli bordò. Mi diede un’occhiata mentre m’avvicinavo e mi face un sorrisino. Di solito, i receptionist sono sempre a conoscenza di ogni cosa avvenga nel proprio albergo. Ce l’hanno nel codice genetico come le portinaie o i barbieri. Ero tentato dal chiederle qualche notizia su ieri sera. Ma, a guardare quei dolci occhi maliziosi, mi vergognavo miseramente a chiederle come dei tizi sconosciuti mi avessero trascinato in camera la notte prima. Sicuramente avrà visto, se non lei, qualche collega. Pagai. Mi rifilò il resto condito dal solito sorrisino. Uscii dall’hotel con metà della coda tra le gambe. Per qualche strana e insulsa ragione malinconica, preferii fare a piedi il tragitto fino alla stazione, invece di prendere il taxi.

Venne a piovere come se non ci fosse stato più un domani.
Corsi per ripararmi sotto un balcone. La stazione era a pochi metri ma non potevo superare la colonna d’acqua che veniva dal cielo. Osservai Rimini… la fantastica città teatro di mille avventure. Solo e stanco mi appoggiai al mio trolley con l’acqua che veniva giù a pochi centimetri dal mio naso. Dal balcone sopra di me sembrava che ci fosse una cascata che veniva giù da chissà dove. Vedevo l’immagine della stazione come attraverso una gigantesca bottiglia di vetro trasparente. Ombre e bordi sfocati. Passanti anonimi. Vento… Mi sentivo impotente davanti a quell’onda invisibile di ricordi che mi stava travolgendo. Vedevo dinanzi a me il piccolo Ciro diciassettenne che, con la sua cartella Seven, usciva dalla stazione di Rimini. Tutto era sfocato… proprio come il ricordo… proprio come la pioggia. Il mio volto sorridente nel rincorrere i miei amici più grandi che mi avevano trascinato con loro in una magica vacanza. In testa nessun pensiero e sulle spalle chili di alcol… Sorrisi. Pantaloni larghi, canotta… il caldo asfissiante di quei giorni. In testa mille ragazze. Molte sbagliate… molte sofferte. Delusione. Osservavo il mio alter ego fantastico camminare a stento. Le scarpe erano di una misura più grande e a volte inciampavo nei gradini. I miei amici attendevano al di là del marciapiede. Avevo paura di attraversare la strada con quel pesantissimo zaino. Guardai a destra e poi a sinistra proprio nella mia direzione… ci fissammo. Io e il ricordo di me. Sotto la pioggia, dietro un muro d’acqua trasparente.
E il ricordo svanì…
Come la pioggia che si dissolse…
Uscii dal mio riparo e camminai verso la stazione.

Guardai un attimo la lunga via che portava diritta al mare.
Cos’è successo? Dove son finiti i miei sogni?
Tutti rotti…
Solo uno son certo di averlo realizzato:
Veder spuntare l’alba sul mare di Rimini…

Perché gli altri ho smesso di realizzarli?

Fine

Il signor Claudio (Livigno 2010 parte II)

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Il gigantesco poster di Megan Fox si estendeva su quasi tutta la parete della Stazione Centrale di Milano. Era una piacevole distrazione mentre mi lasciavo trasportare dal tapis roulant che portava al piano di sopra. Erano le otto di mattina ed ero in leggero anticipo per prendere il mio treno. La destinazione era Tirano, poi da Tirano a Bormio e da Bormio a Livigno. Dovevo fare proprio un bel giro. Ma la settimana che si prospettava avrebbe appagato tutti gli sforzi. Era da tanto che non sciavo. Più o meno da quando mi ero trasferito qui a Milano a studiare. Mi mancava un sacco sentire la neve soffice sotto i piedi. E mi mancava anche stare con la mia famiglia e i miei cugini. A pensarci non li vedevo da Natale. Chissà come staranno… mi chiesi.

Dopo aver salutato Megan salii sul treno. Avrei voluto prendere un caffè ma c’era il rischio di perdere il treno e poi chi se lo sarebbe sentito, mio padre!

Mi addormentai…

Sentivo le vibrazioni del treno che mi cullavano…

Sentivo il rumore dei passeggeri che andavano avanti e indietro.

Sentivo il mio respiro lento…

 

Mi svegliai e guardai fuori…

Stupendo…

Il treno stava costeggiando il lago di Como. Era una bella giornata. C’era il sole che picchiava forte e il pensierino di abbandonare la montagna in favore del “mare” mi stava allettando. Feci un paio di foto e continuai a osservare il paesaggio di stazione in stazione fino ad arrivare al primo step.

 

Tirano

Appena arrivato, chiesi informazioni su dove prendere il pullman che portava a Livigno. L’anziano controllore mi disse di prendere il sottopassaggio e arrivare dall’altra parte.

Comprai il biglietto. Sistemai la valigia nel portabagagli. Salii a bordo. Mi misi comodo nel mio posto accanto al finestrino. Il sole picchiava forte sui miei Carrera neri.  Mi piaceva…

Le persone continuavano a salire e riempire i posti. Sperai che nessuno si sedesse vicino a me.

Salì un gruppetto molto animato di tedeschi. Salì una signora anziana con il pellicciotto. Salì una famigliola inglese che si sedette poco distante. Mi voltai a guardare fuori chiedendomi quando sarebbe partito quel pullman. Ero stanco… le mie palpebre faticavano a stare su.

Appena parte mi metto a dormire, pensai.

 

Un signore alto e dagli occhiali spessi salì sul pullman. In testa aveva uno di quegli strani cappelli invernali, foderati di pelliccia e con grossi paraorecchie. Non riuscii a trattenere una leggera risata. Sembrava disorientato. Si guardava intorno alla ricerca di un posto libero. E guarda caso, tra tutti i posti vuoti, proprio quello accanto a me doveva beccare.

Mi chiese scusa dopo avermi urtato leggermente. Si sedette e respirò a fondo. Sembrava che avesse fatto una bella faticaccia a venire fin lì. Lo osservavo di sottecchi. Era un signore composto e molto magro all’apparenza. Avrà avuto almeno una sessantina d’anni.

L’autista mise in moto. Sentii distintamente il rumore del motore che si avviava. Si chiusero le porte: l’ultima parte del mio viaggio stava per cominciare. 

 

Per fortuna il mio compagno di viaggio sembrava molto silenzioso. Appoggiai la testa da un lato e cercai di riposare. Ma tra scossoni e salite, la cosa sembrava molto difficile.

Per di più la suoneria di un cellulare mi destò completamente. Il signore a fianco si controllò le tasche. Trovò il cellulare e rispose.

– Ciao Marco… sì sì… sono in viaggio.… –

Il signore continuava a parlare marcando un po’ troppo alcune parole.

– …quindi… quando arrivo devo prendere la linea rossa? Ok… ci vediamo lì… ciao… –

Finalmente chiuse la conversazione. Dopo qualche secondo si voltò verso di me e mi chiese scusa per tutto il casino che aveva appena prodotto.

– Si figuri… – gli risposi.

– Oggi fa proprio freddo… – disse.. ed io annuii col capo…

E mentre il pullman arrancava sulle salite, regnava un discreto silenzio imbarazzante nella quarta fila. Non sapevo cosa dire. Il signore visibilmente voleva attaccare a parlare. Ma io non ero la persona giusta per questo genere di cose, dato che socializzo difficilmente con gli estranei.

– Va anche lei a Livigno? – mi chiese…

– Sì… vengo da Milano… ho preso il treno e poi questo pullman… –

– Ahh… anche io sono di Milano! Lavoro all’aeroporto di Linate… beh… diciamo lavoravo –

– Come mai “lavorava”?-

– Posso darti del tu, visto che sembri avere l’età di mio figlio?-

– Ma certo! Mi chiamo Ciro… e lei?-

– Claudio…-

– Piacere, signor Claudio! –

 

Il signor Claudio era un tipo veramente simpatico. Mi raccontò del suo prossimo pensionamento al bar di Linate e di come aveva speso i soldi della liquidazione per abbellire la sua casa a Pioltello. Era un fiume inarrestabile… parlava e parlava. Bastava solo che io gli facessi una semplice domanda e lui come un razzo dalla miccia innescata cominciava a raccontare.

 

– Sai… mio figlio fa il cuoco… gli sarebbe tanto piaciuto venire con me a sciare. Ma l’altra volta si è lussato una spalla… e allora ha deciso di non sforzarla. Quindi sono qui da solo. –

– Non ha moglie? –

– No… son divorziato… mia moglie un giorno ha deciso di andarsene, di punto in bianco… che ci posso fare… è la vita… –

– Mi dispiace… –

– Nah… ormai sono passati un sacco di anni… c’ho messo una pietra su… –

 

Tra un racconto e l’altro guardavo fuori. Vedevo il paesaggio raffreddarsi man mano… già qualche cima innevata cominciava a vedersi in lontananza. E tra quelle sceglievo la mia montagna e sognavo di sciarvi a occhi chiusi.

Mi voltai verso il signor Claudio. Si era tolto il cappello e lo aveva tra le mani.

– Sai… mio figlio mi prende sempre in giro per questo cappello! Ma che ci posso fare! Tiene caldo! Quando sto con lui mi dice sempre di non mettere il colbacco!-

Ecco come si chiama quel tipo di cappello, pensai… e pensavo anche all’accostamento esilarante tra quel cappello e i suoi spessi occhiali. 

– Tu cosa fai a Milano, studi? –

– Sì… studio Economia bancaria… a Livigno m’incontrerò con i miei genitori e i miei cugini. Loro hanno fatto un bel viaggio per arrivare fin qui da Benevento

– Addirittura! –

– Beh si… quest’anno hanno noleggiato un pulmino a 10 posti. Sarebbe stato divertente fare il viaggio insieme a loro! –

– Bello… mio figlio invece è a Milano che lavora…. Sai… –

 

E mi raccontò delle disavventure del figlio. Di quanto sognava andare in Australia e dei problemi che ha avuto con il visto d’ingresso. Mi disse che lo aveva spinto lui a farsi questa breve vacanza sulla neve.

 

– …mi ha detto “Vai, vai…”, quindi ho chiamato Marco, il proprietario di questo albergo… e mi son fatto riservare la mia singola. Per fortuna l’ho trovata! Perché in quell’albergo o non c’è nessuno… o ci sono migliaia di tedeschi! …e la sera nel ristorante fanno delle tavolate immense… ed io sto lì da solo, con il mio tavolino singolo… –

 

Finalmente  s’iniziava a vedere un po’ di neve. Il pullman andava sempre più piano per evitare incidenti. I bordi della strada erano coperti da almeno un metro di neve. Per segnalarli agli autisti erano stati impiantanti dei paletti gialli e neri che sbucavano dalla neve come candeline su una torta alla panna. 

 

– Come sono le piste a Livigno, dato che lei ci è già stato? –

– Ah… sono stupende… però ricordati questo: la mattina si va a sciare al Carosello… e il pomeriggio al Mottolino.-

– Ok – risposi, sapendo che entro un paio di minuti non avrei più ricordato quei nomi.

– Devi sapere che la mattina il sole sta da una parte… e la sera dall’altra… quindi per me che ci vedo poco va bene… non so per te… –

– Beh… io ho sciato anche di notte una volta… l’oscurità non mi fa paura… sono i lastroni di ghiaccio, quelli sì che li temo… ha presente quando lo sci non attacca nelle curve e scivola via? –

– Certo, certo! Mi son preso un sacco di belle cadute così! –

 

 

 

Ormai la neve dominava il paesaggio. L’erba era solo un estivo ricordo, lì. Il signor Claudio mi indicava le piste sulle montagne. Mi consigliava di provare prima l’una e poi l’altra. Mi disse di quanto fossero difficili alcune piste nere e mi raccontò di quella volta che non ce la fece proprio a sciare e si tolse gli sci per farsela a piedi.

Il pullman si fermò. Eravamo arrivati a Livigno. Il viaggio sembrava esser durato un attimo. La convivenza con il signor Claudio era finita e dovevo dire addio a tutti i suoi racconti e le sue storie. Era stato bello per un po’ stare ad ascoltare le storie degli altri invece di raccontare sempre e solo le mie.

-Ciao Ciro… buona vacanza!-

-Grazie… anche a lei, signor Claudio!-

Mi strinse la mano e se ne andò, chiudendosi nel suo vecchio giaccone grigio. Lo osservai andarsene via. Chissà se lo avrei incontrato di nuovo… magari sulle piste da sci… o magari sulla seggiovia… giusto il tempo di sentire un’altra sua storia…

Chissà quanta vita avrà vissuto…

 

 

 

Stuck in a station…

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Non conosco il cielo… non so quando piange… quando ride… quando ha voglia di fermarsi a pensare. Non so quando è arrabbiato… quando ha voglia di farsi coccolare… quando è fermo e incapace della realtà. Quando si guarda il cielo ogni convinzione svanisce… e si sogna. Soprattutto ora che questo tramonto sovrasta la città. Ero seduto su una sedia sul mio balcone. Al quinto piano si godeva di una bellissima vista. Le nuvole e il cielo sembravano più vicini da qui. E questa sera faceva al caso mio… un tramonto così chi poteva perderselo? Il mio stomaco cominciò a brontolare proprio quando il sole scomparve tra le case. Con svogliatezza guardavo la porta del balcone… come se il mio sguardo volesse entrare ed arrivare alla cucina per vedere cosa ci fosse nel frigo. “Sarà vuoto” pensai. Ma anche se fosse stato pieno, la voglia di cucinare era pari a zero. Incrociai le mani dietro la testa e mi misi comodo dondolandomi sulla sedia. Le luci della città si accesero una dopo l’altra. I fari delle macchine divennero più visibili e l’oscurità iniziava a farsi sentire. Mi appoggiai alla ringhiera. Guardai giù sfidando quel vuoto sotto di me. Le macchine erano piccoline da qui su. Sembravano tanti piccoli giocattoli con cui un bambino si sarebbe divertito a giocare. Per non parlare delle motociclette… quelle si che erano carine. Le persone invece si facevano più rare e quei pochi che rimanevano in giro, si affrettavano a tornare a casa… chissà perché poi… chissà per cosa.. chissà per quale vita. Forse magari andavano a cenare. “Eccolo lì”, il mio stomaco tuonò di nuovo. “Ok, va bene… troviamo qualcosa da mettere sotto i denti!”. Mi alzai dalla sedia e tornai dentro. Spensi lo stereo e cercai le scarpe.
“Una è qui… e l’altra?”
Sembrava impossibile. Quando cercavo le scarpe ne trovavo sempre una sola. Non le perdevo mai insieme! Chissà per quale regola statistica o per quale caso sfortunato. Sempre e solo una.
“Eccola!”
M’infilai le scarpe cercando con lo sguardo la mia sveglia digitale. I numeri rossi segnavano le otto e mezza. Faceva un po’ freschetto quindi presi dall’appendiabiti il mio giubbotto di pelle. Nel staccarlo dal gancio cadde da una tasca l’ombrello portatile. Lo presi in mano… “Non penso mi servirà…” e lo poggiai su un ripiano della libreria.
Portafoglio… cellulare… anello… “Credo di aver preso tutto” Andai verso la porta e: “le chiavi!! Dannate chiavi!” Tornai indietro e le afferrai per il portachiavi di Ligabue che avevo comprato al concerto al forum di Assago. Due mandate e giù con l’ascensore al piano terra.
Ero fuori. M’incamminai per la strada che facevo tutte le mattine per raggiungere la stazione e da lì prendere il treno che mi avrebbe portato in università. Questa volta però, dovevo solo raggiungere il piazzale. Guardai il cielo. Era ricoperto di nuvole grigie che da un lato si dipingevano di un colore rossastro.
Raggiunsi la piazza ed era notte. Alcune persone aspettavano il 93 alla fermata mentre altre uscivano frettolosamente dalla metro. Un passante distratto mi urtò la spalla. Continuò a correre e girandosi mi chiese scusa. Gli feci un cenno con la mano e lo osservai andarsene con non troppo rancore. Il lampione accanto a me, m’inondava con la sua luce attirando schiere di moscerini. Mi guardai intorno decidendo dove andare a mangiare. Le opzioni sono due: Pizza Mundial alla mia sinistra o il messicano con il suo camioncino ambulante fermo dall’altra parte della piazza. Scelsi il panino del messicano e lo raggiunsi. Mentre camminavo, guardavo la stazione. Il grande orologio digitale era perennemente rotto. Segnava numeri a casaccio come a fregarsene del tempo. Lo adoravo. Sotto c’era la grande scritta “Milano Lambrate” e poi l’ingresso principale. Il messicano era parcheggiato poco dopo la fermata dell’autobus 54. Un’anziana signora con una busta di plastica mi osservò mentre le passai davanti. “Forse assomiglierò a qualche suo nipote”… tirai diritto e arrivai al camioncino.
– Ciao! – mi disse una ragazza dai tratti somatici dell’America latina.
– Ciao… mi fai un panino con la salsiccia? –
S’infilò i guanti in lattice e passò una salamella all’uomo che stava alla piastra. Il messicano stava preparando un altro panino per un ragazzo che aspettava con me.
– Cosa ci metto dentro? – mi chiese con un accento leggermente spagnolo.
– Formaggio e peperoni. – dissi, cercando di non pensare alla salute del mio povero fegato.
– Ci vuoi anche la cipolla? –
– No… grazie. –
Il messicano aveva finito le sue domande di routine e si era messo all’opera sulla mia salsiccia con la spatola di ferro. Gira, rigira e la mise nel panino con il suo contorno di peperoni e formaggio. E il messicano in fondo in fondo, mi voleva bene perché ci aggiunse anche la cipolla. Non dissi niente… perché, del resto, la cipolla mi è sempre piaciuta. Però, chissà come faceva a saperlo?
– Ecco a te. –
Presi in mano quel panino bollente e sborsai i miei tre euro.
– Vuoi qualcosa da bere? – mi chiese la ragazza.
Pensai se prendere o no la mia solita Fanta. Dissi di no… e mi girai dando un morso al mio panino.
Una goccia cadde dal cielo e grande e grossa si schiantò sul marciapiede. Non gli diedi troppo peso e soffiai sul mio panino cercando di fargli raggiungere una temperatura più bassa. Ma a quella goccia ne seguirono altre due… e poi tre… e poi altre ancora. Pioveva.
E pioveva forte. Non una di quelle pioggerelline leggere primaverili. No… un bel temporale estivo. Di quelli che di acqua ne mandava. E il cielo sembrava non voler smettere.
Ero al riparo sotto la piccola tettoia del camioncino. Continuai a mordere il panino. Le persone correvano qua e là. Passò un motorino poco distante. Andava piano perché il ragazzo stava prendendo un bel po’ d’acqua ed ogni tanto frenava perché le pozzanghere si stavano riempiendo ad un ritmo impressionante.  Diedi l’ultimo morso al panino e piano piano mi stava salendo la sete. Pensai alla Fanta a cui prima avevo rinunciato. Mi volsi indietro a guardarla da dentro il piccolo frigorifero sul camioncino.
“Na… chissà quanto me la farà pagare.” E me ne andai passando sotto la piccola tettoia fino ad arrivare alle scale dell’ingresso laterale della stazione. Era buio anche qui e il sottopassaggio era deserto. Si udiva solo il rumore dei miei passi che s’infrangeva contro le pareti creando un eco spettrale. Nessuno saliva o scendeva le scale dei binari. Nessuno correva… aspettava… leggeva… Un vuoto inimmaginabile. Dal binario 12 percorsi tutto il sottopassaggio fino al binario 1 dove c’era la biglietteria e il bar. Qui ogni mattina, se mi svegliavo con un po’ d’anticipo, venivo a prendere il caffè. Un caffè di merda… ma pur sempre meglio delle macchinette automatiche. Arrivai davanti alla porta a vetri del bar. Le luci erano ancora accese ma la porta non si smuoveva. Un ragazzo all’interno poggiò una sedia sul tavolino e mi fece segno che era chiuso. “Addio Fanta”. Mi toccava andarla a prendere ai distributori lungo i binari. Riscesi nel sottopassaggio.
“Vediamo… il binario 1 non ce l’ha… il 2 non mi piace… binario 3!”
Salii le scale e andai diretto al distributore, alla disperata ricerca della Fanta perduta. Cercai nella tasca qualche moneta ma mi accorsi che l’affare per inserirle era bloccato. “Eccheccavolo” pensai, per non scrivere qualcosa di più volgare. Tornai indietro e vidi che sulla panchina stava dormendo un barbone. Chissà come avevo fatto a non notarlo.
Binario 4… “Speriamo che almeno qui non mi vada male.” La sete aumentava come le gocce che cadevano sulla tettoia in lamiera che proteggeva la banchina. Il rumore che provocavano era assordante. Sembrava una mitraglietta che sparava sulla mia testa.

La mia lattina scese giù di colpo. La presi e l’aprii placando la mia sete con un sorso. Mi sedetti sulla panchina. Su questa non c’era nessun barbone. La pioggia si stava facendo più violenta e alcune gocce riuscivano a colpirmi nonostante la tettoia. Alcune persone sull’altro binario attendevano un treno. Bergamo… lessi sul tabellone. Infreddolite e spaesate… chi guardava l’orologio e chi leggeva il city di stamattina. Scesi di nuovo nel sottopassaggio. Questa volta in quello principale, dove c’era luce e qualche persona che si riparava dalla pioggia. Raggiunsi l’altro lato della stazione. Quello da cui ero venuto e mi fermai sedendomi sulle scale dell’ingresso principale…
Pioveva forte…
Neanche il mio giubbotto di pelle avrebbe potuto ripararmi. Davanti al marciapiede c’era una pozzanghera di dimensioni bibliche che i passanti non riuscivano a oltrepassare senza bagnarsi i piedi.

Pioveva… sulle case… sui negozi… sulle vetrine… sul messicano ed anche su Pizza Mundial. Pioveva… pioveva sui passanti con gli ombrelli e quelli che si riparavano sotto le fermate. Pioveva sul punto Snai perennemente aperto, con le persone che guardavano gli schermi e facevano scommesse impensabili. Pioveva e non smetteva… perché Dio voleva bloccarmi qui in stazione. Ad osservare la città dal basso di un gradino. A fermarmi per un minuto a scattare una foto di quella vita che conducevo di corsa… a quei treni che prendevo al volo… a quegli odiati ritardi che si riversavano in una pagina di un libro. Seduto qui, su questo gradino che non toccavo nemmeno, quando ero di corsa saltando direttamente sull’altro. Ero un passante… un semplice passante di questo mondo che viaggiava veloce… che prendeva treni, evitava controllori… e si affacciava dal finestrino quando non avrebbe dovuto. Mi sentivo come l’ignoto spettatore di Seduto in riva al fosso… a guardare l’acqua che va… che ha il biglietto ma la corsa la lasciava fare agli altri. Agli altri spettatori distratti che mi passavano davanti… che, forse in fondo, quella pioggia non la meritavano. L’unico a meritarla ero io…

  Perché Dio ha voluto che mi fermassi in stazione…
ad osservare la vita…

Un amore ghiacciato…

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“…perché c’era una sorta di magia nei suoi occhi…
…quella magia che mi aveva fatto innamorare…
…ed ora era lì…
…che danzava inesperta sul ghiaccio…”

Ore 12
Avevo da prendere un treno per Lodi e non dovevo fare tardi, ma soprattutto, non dovevo dimenticarmene. A volte mi succede di distrarre un po’ troppo la mia attenzione vagando nel vuoto dei pensieri. Ok… dov’ero rimasto? Ah sì. Come dicevo, dovevo prepararmi. Maglietta, jeans, scarpe, una pettinata ai capelli, profumo. E invece ero ancora sul letto ad oziare beatamente. Fino a che non mi feci coraggio e spensi la tv.
Ok… si parte!
Il cielo era grigio e tirava un leggero venticello che faceva sentire perfettamente che eravamo all’11 dicembre. Potevo portarmi i guanti, ma le tasche servivano solo a metterci le  chiavi di casa e il resto del caffè. Così, leggermente infreddolito, aspettavo il mio treno alla solita stazione… ed anche al solito binario… con persone indifferenti e annunciatori distratti.
“Il treno per Verona è in ritardo di 48 ore.”
Poveri passeggeri. Mai affidare il proprio sedere a Trenitalia. Perché sanno fin troppo bene cosa farsene!
Beh, menomale che il mio treno era diretto in tutt’altra direzione. Ammesso che arrivasse.
Arrivò.
Nell’attesa, rivolsi il mio sguardo a ciò che mi proponeva il finestrino. Il mio Ipod vagava in modalità casuale tra le sue innumerevoli canzoni. Ogni tanto chiudevo gli occhi, convinto che forse quella bellezza non esisteva. La bellezza della vita. La bellezza della natura.
Pensavo alle complicazioni che avvenivano sempre in momenti sbagliati. In cui desideri un attimo infinitesimo di stabilità mentre tutto il mondo ti avvolge. E ti chiudi in te stesso per avere un senso di protezione irrisorio regalato dal chiassoso silenzio del gongolio del treno.

Ero arrivato e aspettavo la mia ragazza all’ingresso della stazione.
Eccola lì… in tutto il suo splendore.
– Che facciamo?..-
– Beh… non so… –
– Hai fame? –
– Si un po’… –
– Allora ci mangiamo qualcosa! E poi vediamo! –
– Ok! –
Entrammo in un bar e ci sedemmo a un tavolino. Finalmente eravamo un po’ al caldo. Lei aveva le mani ghiacciate così gliele strinsi cercando di riscaldarle.
Ordinammo dei panini. Due per me, uno per lei. Perché non avevo fame!
Conto… caffè… e passeggiata nella piazza centrale.
Guardavamo le vetrine.
Lei le scarpe…
Io i telefonini…
Lei i vestiti..
Io i manichini…

– Ahia! Dai! Ma è un manichino! –
– …di una donna! –
– Appunto! –
– Ahia! Ok ok… pace! –
Arrivammo al parchetto tra battute e schiaffi che volavano a destra e manca. Sopravvivendo entrambi senza troppi rimorsi ma con qualche sorrisetto furbetto ancora da calmare.
In lontananza si vedeva la pista da pattinaggio allestita all’aperto in mezzo alla piazza.
Non avevo mai pattinato in vita mia. Tutto quello che avevo fatto e che poteva somigliare al pattinaggio era sciare ed andare sui roller. Pesavo che fosse un misto tra i due con  qualcosa in più… ma non lo sapevo ancora…
E nemmeno lei…
– Pattiniamo? – le proposi.
– Dai… non so pattinare! –
– Nemmeno io! Impariamo! –
– Ma guarda quelle due come sono brave! Lo so già che cadrò e tu riderai! –
– Può darsi che cada prima io? No? –
E dopo vari convincimenti… ricatti e seduzioni di vario tipo, presi due biglietti e due paia di scarponi.
– Gli scarponi sono simili a quelli per gli sci… aspetta… quello devi metterlo lì… –
– So fare benissimo da sola! –
Non ci potevo fare niente, purtroppo me l’ero scelta testarda.
– Dai… lascia fare a me che ti aiuto. –

E un attimo dopo eravamo dentro. Io in mezzo alla pista, lei chiaramente attaccata al bordo come un bambino alla sua mamma.
Dopotutto era la sua prima volta. Quindi la lasciai un po’ tranquillizzare, anche perché le sue parole avevano una cattiva intonazione!
– Vattene via!! – mi rispondeva appena provavo ad avvicinarmi.
Dopo un po’ mi abituai ad avere ai piedi quei cosi. Bastava portare un po’ il peso in avanti e via… si scivolava da Dio. Con qualche incertezza riuscivo ad andare anche abbastanza veloce. Facevo il giro della pista e ritornavo da lei che aveva percorso solo un paio di metri.
– Dai…  prendimi la mano… e vieni via con me… –
E come nell’amore reale, un piccolo gesto di fiducia risvegliava i nostri cuori. Gli occhi erano impegnati a fissare il ghiaccio per il timore di cadere. Le nostre mani si tenevano l’una all’altra… sfiorandosi e stringendosi… allontanandosi per qualche istante per poi riprendersi e ritrovarsi. Era come un gioco. Come una sfida… e lei era bravissima, quasi meglio di me. Danzava, mentre la musica ci cullava e ci trasportava in questo girotondo di persone. Era stupendo pattinare insieme a lei. Abbracciandola e sorreggendola ogni volta che aveva bisogno. Punzecchiandola ogni tanto cercando di farla cadere. Guidandola… portarla vicino al bordo e baciarla… con le labbra che sapevano d’amore.
E la sera scendeva… mentre le luci ci tenevano compagnia… con la folla che ci osservava curiosa.

…In un giostra infinita…
…che girava in una sera di un amore ghiacciato…

Certe volte ho voluto essere grande più di lui…

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Anche se  molte volte mi hai fatto soffrire… Grazie Papà

31 gennaio…
Napoli..
Stazione centrale.

Trascinavo a fatica il mio pesantissimo trolley tra la gente che mi tagliava la strada e gli enormi cartelloni pubblicitari che si stagliavano come grattacieli all’interno della stazione. L’altra borsa l’aveva mio padre. Quella mattina mi aveva accompagnato fin lì evitandomi un noioso viaggio a bordo di un pullman che sicuramente mi avrebbe fatto perdere il mio treno programmato. Così s’era svegliato di buon ora durante il suo giorno di riposo che, per chi conosce mio padre, era una definizione irrilevante. “Non si smette mai di lavorare!” era uno dei suoi pensieri più persistenti.
Entrai nella porta secondaria della stazione, che forse era quella principale, non saprei. Entrai dalla zona in cui erano disposti gli interminabili sportelli della biglietteria e le altrettanto interminabili code di persone davanti a loro. Le macchinette automatiche, come al solito, erano vuote o con una o al massimo due persone. “Chissà perché?” mi chiedevo sempre. “Come mai non le usano. Sono più veloci e comode e scegli ciò che vuoi…”. Oramai le conoscevo a memoria. Avrei potuto anche utilizzare una lingua diversa per fare il mio biglietto. Magari il giapponese così almeno capirei quando un turista di quella nazionalità mi chiede informazioni mostrandomi il suo biglietto incomprensibile. (Non sapete quante volte mi sia capitato!)
Dopo aver zigzagato tra le file di macchinette, procedetti a passo svelto, diretto al solito binario 16. Oramai non guardavo più il tabellone per sapere da dove partiva il mio treno. Perché avevo imparato per esperienza che i treni in partenza per la mia solita meta li trovavo sempre lì. Tra il 15 e il 17. La solita banchina sempre colma di gente in attesa.
Mi fermai un attimo. Per sicurezza volli controllare il grande tabellone delle partenze per essere certo che il mio treno non sia stato cancellato o spostato. Beh… sarebbe stato molto stressante prendere un treno sbagliato con un trolley che pesava quasi quanto me. Ma eccolo lì. Sempre lui. Solita ora… solito binario… e… solito ritardo! Vabbè… c’avevo fatto l’abitudine. Quei 5, 10 minuti ormai erano ordinaria amministrazione. Diedi un’occhiata a mio padre e gli indicai il mio treno. Lui guardò il tabellone per una manciata di secondi e finse di aver capito ma sapevo che senza occhiali non riusciva a leggere molto. E in quel momento pensai che se fossi partito per le Maldive, lui non se ne sarebbe minimamente accorto. Ciò che però mi avrebbe fregato sarebbe stato quel binario. Beh… anche lui conosceva quel binario. Gliel’avevo insegnato io una volta che mi chiese dove sarei arrivato con il mio treno.
“Binario 16 papà… salvo complicazioni… è sempre quello.”

Ma ora si trattava di partire. Partire per un altro viaggio. Il solito viaggio con le solite tappe intermedie che il capotreno scandiva ad ogni fermata, ricordando dove fosse diretto quel treno. Verso la mia meta.
Stringevo nella mano il mio biglietto mentre camminavamo lungo il binario.
Mio padre dopo dieci metri mi chiese che carrozza avessi.
– La 8… – risposi, ma questo non gli disse niente e quindi aggiunsi.
– Dobbiamo arrivare a circa metà del binario… lì dovrebbe fermarsi al mia carrozza. –
E dopo una decina di metri…
– Fermiamoci qua… dovrebbe andare bene… –
Mio padre non disse niente. Come al solito non siamo stati mai molto loquaci. Così passarono 5 minuti e mi disse: – Vabbè… tanto ormai devi aspettare solo il treno… Vado a casa… ci sono un mucchio di cose da fare… Mi raccomando giovane… sta attento. –
– Certo papà… ci sentiamo… ciao. –
E dopo questo saluto ed un veloce abbraccio mio padre mi voltò le spalle diretto verso l’uscita. Sapevo che odiava aspettare senza far nulla. Quindi se non se ne fosse andato lui gliel’avrei detto io che non serviva aspettare.
Mio padre avanzava lento scansando le persone in attesa del treno. Le superava una ad una, come ostacoli di una vita già vissuta. Chissà cosa starà pensando… Forse a me… forse ai miei fratelli… Molto probabilmente al lavoro… nessuno potrebbe mai scollarlo dal lavoro. Ha fatto moltissimi sacrifici. Per me… per la famiglia… Chissà dove sarei ora senza l’aiuto di quell’uomo che ora camminava via da me. Era merito suo se ero lì, su quel binario, diretto in quella città. Era merito di tutte le volte che mi diceva che dovevo mettercela tutta. Era merito di quando mi urlava ostinatamente che dovevo provarci. Era merito della sua vita e di quello che ha costruito con i suoi sforzi e il suo sudore.
Ed io ero lì ad osservarlo… inerme. Chiedendomi se mai un giorno sarà fiero di me. Se mai potrò ripagarlo dei giorni di lavoro necessari a farmi comprare tutti quei libri su cui ho studiato anno dopo anno… E degli sforzi che ha fatto per comprarmi tutte quelle cose inutili che volevo a tutti i costi… solo perché gli altri ragazzi le avevano. E mio padre, per non farmi sentire inferiore a nessuno, me le comprava. Magari dopo mille richieste, ma alla fine riuscivo a convincerlo. Perché in fondo non avrebbe voluto mai negarmi niente… ma solo farmi capire quanto costi la vita e quanto costi svegliarsi per 40 anni e avere turni a tutte le ore, tutti i giorni e spesso anche la notte. E quando ritornava a casa, non sempre era felice e rilassato. Ed io… invece di capirlo, giravo i tacchi e correvo nella mia stanza… solo per non sentirlo ripetere le solite frasi dettate dalla stanchezza.
Ora quelle frasi non le sentivo più… Ora molte cose sono cambiate… Forse avrà capito che sono cresciuto, che in un certo senso sono maturato. Insomma ho pure 20 anni! Ma secondo me, per lui rimarrò sempre il suo figliolo. Il suo primogenito. Quello a cui insegnava le cose. A cui dava spiegazioni che duravano delle ore perché voleva farmi capire bene i miei “perché?”. Quello a cui ha insegnato a sapersela cavare sempre e comunque in qualsiasi situazione. E solo ora capisco perché molte volte mi costringeva a seguirlo al lavoro, nei lavoretti di casa, o a vedere il telegiornale. Ho imparato tantissime cose. Mi ha insegnato a vivere senza aver bisogno degli altri. Inconsciamente mi ha fatto capire come potermi rialzare dopo una caduta e che quando una cosa si rompe, col tempo e la pazienza si può aggiustare. Ma soprattutto… che una vita si costruisce passo dopo passo.
Ed eccolo lì… che passo dopo passo si dirigeva verso l’uscita della stazione. La folla si fece più fitta e lui si mescolò alle persone come una anima comune. Riuscivo ancora a distinguere la sua figura in lontananza. Aveva le mani in tasca e lo sguardo rivolto verso il basso. Come se avesse sbagliato qualcosa nella sua vita ed ora se ne pentisse. Ma nessuno sa… che lui è l’unico, in mezzo a queste persone, a poter camminare a testa alta… sempre. Tra chiunque e in qualsiasi luogo. Lui è riuscito a creare qualcosa dal nulla. Da quel nulla in cui molte persone sono ancora presenti e pigramente si adagiano su quel poco che hanno fatto. Ma lui no… ogni giorno della sua vita ha sempre compiuto uno sforzo in più… per dare a me le migliori possibilità per il futuro.
Ho sempre pensato che mio padre fosse egoista ma vedendo il disegno del mio futuro, in buona parte costruito da lui, mi sono ricreduto delle mie parole.
Ho capito… che se un giorno mi negava qualcosa, era perché il giorno dopo me l’avrebbe data il doppio.
Ho capito… che se qualche volta dormiva invece di accompagnarmi dai miei amici era perché era veramente stanco.
Ho capito… che se mi sgridava e mi sgrida ancora… è per il mio bene.

Un ultima occhiata…
E poi scompare…
Venendo da dove è venuto. Ritornando al suo presente… Ritornando alla sua macchina… Negando come al solito la mancia al parcheggiatore (mentre io sorridevo guardandolo dal lato passeggero). E mi ripeteva che lui quei 50 cent se li era guadagnati lavorando e non stando davanti ad un parcheggio a guardare le macchine! Su certe cose non cambierà mai. Testardo come pochi… Fermo sulle sue idee… Autoritario e tenace. Instancabile e assiduo. Intramontabile… imbattibile anche dal tempo…
Continuavo a guardare oltre il binario anche se sapevo che non avrei più potuto vederlo. Oramai avrà già messo in moto la vecchia focus dimenticandosi di allacciare la cintura di sicurezza… diritto verso casa… la sua casa…

E ripenso alle tante volte che avrei voluto essere più grande di lui…
Per gustare il potere della decisione…
Per poterlo sovrastare…
Per poterlo mettere a tacere dopo una discussione…
Tutte quelle volte in cui avrei voluto che ritornasse al lavoro perché così non rompeva le scatole in casa.
Tutte quelle volte che, da piccolo, avrei voluto che giocasse un po’ con me.
Ripenso a tutte le volte che mi ha accompagnato dovunque desiderassi e a qualsiasi ora.
Tutte le volte che ha risolto i miei problemi con la scuola.
Quelle volte quando lo chiamavo a notte fonda perché magari avevo fuso il radiatore della Punto con le mie bravate.
E lui era lì…
E solo ora che sono solo…
capisco quanto sia difficile il mondo là fuori…
Senza il suo costante appoggio… e la sua immancabile presenza.

Grazie papà…

– Scusi… Scusi giovanotto… –
Una vecchietta mi distolse dai miei pensieri.
– Mi dica… –
– Dove porta questo treno? –
– A Milano signora… a Milano… –

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