Diario #1

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La penna dondolava nella mia mano mentre la mente ricercava la soluzione più ovvia per un problema statistico. – Eccolo! Maledetto segno! Sbaglio sempre le cose più banali! Non c’è niente da fare..-
Mi alzai un attimo per staccare dallo studio. Fuori il sole splendeva e la mia moto parcheggiata lì sotto ringhiava come un cane legato da troppo tempo.
Poi lo sguardo cadde sulla mia libreria. Tra i tanti libri accatastati e messi alla rinfusa per mancanza di spazio, mi capitò sottomano una vecchia agenda blu.
La presi e mi sedetti a gambe incrociate sul letto. Sfoglia le pagine; la maggior parte erano vuote; qualcuna, con qualche frase scarabocchiata a penna; qualche disegno… Poi, ruotandola verso il basso, cadde un piccolo foglietto. Era una pagina di un vecchio diario di liceo. Lessi:

bigliettino Carmelina

 

Quello fu l’ultimo giorno che passai in quella scuola. Carmelina, la mia compagna di banco, non lo sapeva.
Avevo scelto di trasferirmi in un’altra. Non vidi più Carmelina… o Luca… o Armando… o Michele…
E non ci volle molto a capire che… avevo appena compiuto l’errore più grande della mia vita.
Avevo lasciato una classe si problematica, ma con persone che mi volevano bene, per buttarmi in un mondo sconosciuto.
Ciò… mi devastò psicologicamente. Avevo perso tutto. Gli amici… i professori…
A quel tempo volevo cambiare vita…
E purtroppo c’ero perfettamente riuscito…

Frugai ancora nell’agenda. In una delle tasche laterali trovai una pagina di un blocco note. Sopra avevo riversato qualche riga:

 

“Coppie di banchetti disposti su tre file, riempivano la lunga aula della 4C del liceo scientifico di …. I raggi del sole che penetravano dalle 3 grandi finestre sulla sinistra, illuminavano le pareti di colore giallastro. Proprio sopra la cattedra era appeso un piccolo crocifisso, a testimonianza di quella fede che molti non avevano. Quella mattina fui il primo a entrare in quest’aula sconosciuta.
Non conoscevo nessuno…
Era la priva volta che entravo in quel liceo.
Tutto sembrava perfetto. Nessuna cartaccia per terra, nessun distributore sfondato, nessun graffito sul muro…
Tutto era perfetto… forse troppo!
[….]
La macchinetta del caffè iniziò a trafficare, facendo strani rumori. Dopo all’incirca 30 secondi, il caffè era pronto e fumante. Tornai nella mia classe ancora vuota, soffiando su quell’intruglio bollente. Mi affacciai alla finestra. Il paesaggio era ben diverso da quello del mio vecchio istituto. Non c’era più il fatiscente campo da calcetto, dove erano soliti radunarsi i ragazzi per la solita partitella extra-scolastica.
Di fronte a me avevo un’altra parte dell’istituto che non mi lasciava molta visuale del panorama. Un malinconico sorriso comparse sul mio volto, pensando alle ragazze del commerciale che passeggiavano indisturbate sotto la mia vecchia aula. Erano solite corteggiare i liceali con sguardi non poco maliziosi…

Un rumore sordo mi fece girare di scatto. Quello che doveva essere un bidello, aveva appena poggiato con poca cura il registro sulla cattedra.
– Tu sei quello nuovo? –
– Sì… –
– Sei capitato proprio nella sezione migliore! – disse ironica e se ne andò.

Poco dopo suonò la campanella.
E una folla di ragazzi entrò dalla porta principale…”

Era l’ottobre del 2004…

 

 

Corsi e Ricorsi Storici (VIII)

Corsi e Ricorsi storici 8 Nino Bixio

(Foto personale)

 

Fu così che mi ritrovai a correre di nuovo, lungo la mia amatissima Nino Bixio. Stanco e sfatto, con un’insopportabile borsa di troppo: la busta di stoffa contenente l’irrinunciabile insalata pronta da condire di Annalisa. Quella ragazza alla fine c’era riuscita a farmela portare a presso. La prossima volta però, non mi frega!
In mano avevo i due cellulari che Lia mi aveva chiesto di consegnare a scuola. I miei “no” alla fine avevano ceduto di fronte alle loro dolci insistenze. Annalisa e Lia avevano un treno da prendere. Il treno che avevamo prenotato qualche ora prima. Forse Lia non sapeva ancora che doveva farsi tutto il viaggio in piedi perché quella pazza di Anna aveva preso i biglietti senza il posto assegnato. Non dissi niente a riguardo, lasciando a Lia il gusto della sorpresa. Dopo averle salutate, presi i cellulari ricevendo qualche vaga indicazione sul luogo, la scuola, i ragazzi e le azioni da compiere. Poi corsi via da loro… “L’orario scolastico” era quasi ultimato e non volevo di certo trovarmi in mezzo ad una baraonda di ragazzi chiassosi.
Ma… rimettendo insieme tutte le informazioni che Lia mi aveva dato frettolosamente, capii che c’erano molti buchi vuoti nel piano. Non conoscevo niente eccetto l’indirizzo della scuola dove dovevo andare. Aule, corridoi, nomi dei ragazzi, i bidelli… Mille domande sbucavano da ogni dove nella mia testa iperprogrammatica, mentre, svoltando a destra, lasciavo Bixio per un’altra strada. Vidi il palazzo della scuola da lontano. Attraversai la strada e mi diressi all’ingresso. Non so, ma avevo la pelle d’oca a entrare in una scuola. Non ero più abituato. Sentivo sulle spalle il peso dei ricordi, come se fosse una pesantissima cartella piena di libri. Ricordai il Ciro adolescente di molti anni prima. Ricordai i piccoli problemi di ogni giorno che rapportati a quelli di adesso sembravano sassolini. Ricordavo tutto, ma non la felicità. Era presente allora?
Ricordo:
 
Quella volta che, ad occhi spenti e verso il basso…
Pioveva…
Sulle spalle una cartella pesantissima…
e nelle orecchie le cuffiette di un walkman grigio.
Aspettavo mia madre che venisse a prendermi.
Solo.
La pioggia mi aveva inzuppato tutto.
Lasciavo scendere le gocce insieme alle mie lacrime.
Dicevano che l’adolescenza doveva essere la stagione dei primi amori e della spensieratezza.
Tutte balle…
Soffrivo col cuore a pezzi
Nel mio piccolo giubbino di jeans ormai di una tonalità più scura.
Quel giorno una ragazza mi aveva lasciato.
Non seppi nemmeno bene il perché…
Ma guardai per la prima volta la mia scuola, odiandola.
Odiavo quel posto per avermi portato così tanto dolore.
E volevo fuggir via.
 
Una macchina si fermò.
Scese una donna.
“Ti avevo detto di portarti l’ombrello!”
Non risposi…
perché l’ombrello era nella mia pesantissima cartella.
Quel giorno… io volevo la pioggia.
 
Guardai il cielo nuvoloso. Anche quel giorno si apprestava a piovere. Misi la mano sulla maniglia della porta d’ingresso della scuola media di Porta Venezia. Feci un respiro e tirai la maniglia verso il basso.
Non si apre!
Provai più e più volte ma niente. La porta era chiusa. Mi allontanai leggermente.
Come avrei fatto ad entrare? Mi guardai intorno alla ricerca di una soluzione. Notai poco distante una ulteriore porta d’ingresso. Mi avvicinai a quella ma era chiusa anche lei.
Cavolo!
Cercai qualche pulsante o citofono nei paraggi, non sapendo nemmeno cosa dire per entrare.
Improvvisamente qualcuno uscì da quella porta. Mi avvicinai e appena quella che doveva essere una professoressa fu uscita, mi avvicinai e afferrai la maniglia prima che la porta si chiudesse. Fatta! Ero dentro. Guardai a destra: corridoio. Guardai avanti: corridoio. Guardai a sinistra: corridoio. Dove cavolo vado?! Cercai di ricordare la sezione che mi aveva detto Lia. Doveva essere la E o la D. Detesto la mia memoria corta! Seguii le indicazioni per entrambe e arrivai al secondo piano. Nei corridoi non c’era nessuno eccetto una bidella anzianotta che puliva il pavimento. Mi fissava ed io fissavo lei. Mi avvicinai timoroso.
–       Salve, io dovrei consegnare questi cellulari a due studenti da parte della professoressa Lia ****** –
–       Ah, sì! La signorina *******? So che è dovuta uscire per un’urgenza. Non è niente di grave vero? – mi disse la bidella preoccupata.
–       Beh… si spera che non sia nulla di grave… – dissi restando nel vago.
–       Guardi, i ragazzi sono in quell’aula lì ora glieli chiamo. –
–       No, ascolti, li tenga lei e glieli consegni alla fine della lezione. Così io vado. –
–       Va bene e mi saluti la signorina ********. –

Appena fuori dalla scuola tirai un sospiro di sollievo.
Forse ora posso davvero tornare a casa.

continua…

Piove… (Sara II)

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…E le gocce di pioggia continuavano a battere sul vetro di questo mio posto finestrino. Continuavo a guardare fuori nonostante avessi terminato il mio hamburger e come si era solito in questi posti, bisognava sloggiare. Ma restavo ancora lì che giocherellavo con la cannuccia della Coca Cola. Già… la Coca Cola. Chi mi conosce almeno un po’ si sarebbe già chiesto perché mai avessi preso la Coca Cola? E secondo me dovrebbe chiedersi mille altre cose. Ma a ora non sono in vena di divagazioni esistenziali.
Ero lì, seduto al mio posto, con il cartone dell’hamburger ancora caldo e qualche patatina sparsa qua e là nel vassoio rosso. La pioggia continuava a cadere… seppur incerta. I rigagnoli d’acqua sul vetro sembravano piccoli fiumiciattoli che si congiungevano alla base. L’acqua ha intrinseco odore di fantastico. Lascia immaginare la purezza e l’unicità di un elemento che è alla base della vita. In quel momento mi chiedevo come facesse la pioggia a sapere dove andare. Mi spiego meglio. Quando una goccia d’acqua scorre lentamente sul vetro, sembra già sapere la strada da percorrere. Sembra avere un destino già scritto che nessuno può interrompere. Anche se piazzassi un dito in mezzo, la goccia ci scorrerebbe attorno e continuerebbe giù fino alla sua meta. Niente potrebbe fermarla… ne lei, ne le milioni di sorelle gemelle che s’infrangevano su quel vetro. C’è chi ci vedrebbe milioni di lacrime cadute da un volto immaginario. Un volto pieno di dolore e amarezza… sconcertato dal tempo nebbioso della propria vita. E un po’ di nebbia l’avevo dentro anche io. Il mio cuore non andava… si fermava… correva… giocava a mosca cieca… e mi faceva passare le notti insonni. Volevo ricominciare dal presente.
Mi alzai e mi sistemai. Infilai il mio anello al pollice e presi il mio giubbotto di pelle dalla sedia. Svuotai il mio vassoio nel cestino stando attento a non fare troppo casino. Trattenevo in mano la mia Coca Cola ancora piena per metà. La portai via con me. Appena fuori, chiusi la porta a vetri e diedi una lunga sorsata alla cannuccia.
La strada era disseminata di pozzanghere che riflettevano le varie luci della città. Iniziai a camminare addentrandomi nella notte di questo mondo fantastico…
 
 
 
Continua…
 
 
 
– Dai ora smettila… – le dissi con dolcezza sfiorandole il viso. Lei si voltò come per non farsi vedere da me in quello stato. I suoi capelli si mossero con lei e qualche lacrima svanì luccicosa nell’aria. Lo sapevo… era di nuovo colpa mia. L’avevo scossa con i miei soliti pensieri. La mia solita vita difficile anche da raccontare. I miei guai, i miei casini, le avventure in cui mi cacciavo sempre. “Non so se ne riuscirò a venir fuori” le avevo detto. E questa non era una menzogna. Non sapevo proprio da che parte cominciare ed in mente mi girava l’idea di come finire. “Promettimi che non farai stronzate…” m’intimò lei con gli occhi arrossati. “Te lo prometto… ti prometto che qualsiasi cosa accada ne uscirò vivo”. Ed in parte mantenni quella promessa.
 
Volsi lo sguardo al cielo. Il freddo si faceva più pungente e le gocce di pioggia cadevano con più coraggio. La guardai… Aveva indosso il mio giubbotto di pelle. La superficie lasciava scivolare via le gocce d’acqua senza trattenerle. Io invece, sentivo l’acqua penetrarmi la felpa ed arrivarmi alla pelle. Amavo la pioggia… e amavo anche sentirla addosso. Ovviamente non uscivo in strada tutte le volte che pioveva! Ma quelle volte in cui, costretto dagli eventi, ero rimasto sotto la pioggia mi piacque parecchio. Si creava una strana atmosfera… difficile anche da descrivere. In quel momento ti senti solo… isolato. Le altre persone corrono con i loro ombrelli in cerca di un riparo. E la pioggia è lì… che crea una sorta di scudo immaginario tra te e il mondo. Senti l’acqua bagnarti il viso… il capelli… le mani… Senti le pozzanghere formarsi piano piano lungo il tuo percorso. Senti il rumore dell’acqua che cade. Una giostra… un’armonia… una poesia vissuta. E lì… chiudi gli occhi lasciandoti trasportare dalle emozioni.
Ma un brivido ti riporta alla realtà. Alla vita quotidiana… alla consapevolezza che la pioggia in fondo è solo pioggia e devi andartene al più presto. 
– Dai.. facciamoci un giro… – dissi.
La vita è come una melodia musicale. A volte suona note cupe e basse… contorcendoti il cuore in spasmi dolorosi. Poi, dopo un po’, si passa gradualmente ad arpeggi più alti e melodiosi. È un saliscendi di emozioni. Una volta si è giù… e poi di nuovo su. Questo era il teorema di quel periodo di vita. Quel pezzo di strada dissestato su cui mi accingevo a camminare. Un po’ come questo scomodo viottolo ciottoloso.
Un colpo di vento ci riportò il sorriso. La pioggia ci batteva violentemente sul volto. Eravamo in mezzo al corso principale e cercavamo un riparo da qualche parte. Lei sorrideva divertita dalle continue corse a destra e sinistra per ripararci sotto i balconi e le pensiline.
Le tristi parole sembravano scomparse dai suoi occhi. Non pensava più a me… o almeno non lo dava a vedere. Non so se è cosa comune alle donne interessarsi alle storie malinconiche e incasinate. Può darsi che sia la tanto nominata curiosità femminile. Non saprei. Magari Sara in quel momento mi voleva bene davvero. Quelle cose che le avevo detto e rivelato solo a lei, magari le sentiva, le capiva, le scendevano in fondo al cuore e s’immaginava nella mia situazione. Come avrebbe affrontato i miei problemi? Sarebbe scappata come me? Li avrebbe affrontati? Oppure cosa?
“Cosa?”… era la domanda chiave a quel tempo.
Oggi mi sarei dato una risposta empirica… ossia quantificare il problema e pensare ad una strategia. Analizzare gli elementi, studiare i fondamentali, formulare ipotesi. Ma qui niente matematica… niente economia… niente formule ne grafici. Solo parole… fatti… e storia.
A ripensaci ora… a distanza di cinque… sei anni… magari ci rido anche su. Però, ripensare agli stati d’animo, mi faceva capire quando davvero fossero stati pesanti quei giorni. Quando le forze mi abbandonavano e quando mi richiudevo nella mia camera seduto per terra a guardare il soffitto. Inerme… Le giornate sembravano interminabili a volte. Era come guardare un fiume in piena dall’alto di un ponte che portava via quel che restava della tua vita. Un fiume proprio uguale a quello che vedevo. Su quella strada che affacciava sull’acqua. …è c’è qualcun’altra qui con me… direbbe qualcuno. Un’amica a cui ho confidato tutto. A cui ho detto che lei era stata qui, insieme a me a vedere lo stesso fiume. E ne ridevamo… di un giorno passato insieme.
E il mio cuore urlava a gran voce la sua presenza. I suoi occhi… il suo volto… i suoi morbidi capelli… E so che sbagliavo ad attaccarmi a quelle illusioni. So che non potrà più essere così. Il passato è già stato scritto… e può solo essere ricordato.
 
Mi appoggiai con le braccia al parapetto. Il mio sguardo fissava l’orizzonte. Sotto di me, come ho detto, c’era il fiume. E la pioggia continuava a battere.
– Dai… ora non pensarci più… – disse Sara avvicinandosi.
– La vita continua… e il presente è fatto di mille realtà… –
 
– Hai ragione… ma quando c’è troppa realtà…
non resta altro che attaccarsi alle illusioni. –
 
 
 

Piove… (Sara I)

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Pioveva…
Pioveva in quella piccola città. Le nuvole sembravano non voler smettere più. Di acqua dal cielo ne scendeva un’infinità mentre i passanti cercavano un riparo. Era notte, e mi aggiravo tra le strade in cerca di un rapido spuntino. Il McDonald di Porta Venezia era lì che mi aspettava in fondo alla strada. Vedevo la scintillante insegna mentre alcune gocce mi colpivano il viso. Il giubbotto di pelle sembrava ripararmi a dovere. Ormai era abituato. Ne aveva presa tanta di acqua in passato proteggendomi da numerosi malanni. E certe volte mi ha protetto anche da me stesso. Quando uscivo di casa con la coscienza sporca e nascondevo la mia faccia dentro al suo cappuccio.
Una sirena iniziò a suonare alle mie spalle. Mi girai di botto. Era un’autoambulanza che stava facendo inversione in mezzo al traffico per poi fuggire nella direzione in cui stavo andando. Correva. Anche se la strada era tutta bagnata. Era un po’ pericoloso per i miei gusti. Anche se molto spesso, devo confessare che lo facevo anche io. Mi diverte molto il rischio… mi diverte l’imprevedibilità…
Entrai nel McDonald. Strusciai i piedi sul tappeto e tolsi il giubbotto. Mi guardai un po’ intorno intravedendo quelle quattro persone dai volti assenti. Mi diressi verso il banco e ordinai il mio solito menù. E mi assicurai, come ogni volta, che dentro al panino non ci mettessero i cetriolini. Sono fatto così… anche se sapevo che non ci sarebbero stati… domando sempre. Magari qualche cinese non sa leggere le ricette e ce li mette dentro! Chi lo sa? Vabbè… mettendo da parte le mie paranoie sui cetriolini, presi il mio vassoio e andai al solito posto. Un “posto finestrino”… come lo definivo io. Mi sedetti e incominciai a mangiare. La pioggia continuava incessantemente il suo lavoro. Ed io da una sorta di vetrina al contrario, osservavo questa specie di film in cui gli attori scappavano dalla scena… le macchine correvano.. i passanti aspettavano il loro verde per poter attraversare.. i loro ombrelli erano zuppi e la strada piena di pozzanghere… pioveva… e le gocce bagnavano il vetro… 
Proprio come quando lei piangeva…
 
 
 
 
…Molto tempo fa…
 
 
 
Ero seduto alla panchina della fermata di un autobus urbano. Ero sceso da poco ed aspettavo che arrivasse la persona che dovevo incontrare. Erano da poco passate le 4 di pomeriggio, ma sembrava sera poiché le nuvole erano talmente scure da non far passare il sole. “Sicuramente verrà a piovere” pensai, mentre volgevo lo sguardo al cielo. Alle mie spalle c’era la villa comunale e si sentiva la gente chiacchierare allegramente mentre passeggiava. Avevo imparato a conoscere Benevento da poco. Da quando mi ero trasferito in quella scuola. E lì avevo fatto nuove amicizie. Si sa… negli anni del liceo si fanno le amicizie migliori. Quelle che ti accompagnano per un bel pezzo di vita e non ti mollano più. Certe volte però, quelle amicizie non provengono dalla scuola in cui hai passato gli anni migliori ma si accodano alle altre, arricchendo la lista delle persone su cui poter contare.
Il mio telefono squillò.
Sms
“scusa il ritardo… sto per arrivare… ciao”
Staccai lo sguardo dallo schermo del mio piccolo 6600 tutto colorato di nero. Tornai a fissare le macchine con l’occhio di chi cerca qualcosa. Non sapevo come sarebbe arrivata e non sapevo nemmeno da dove.
Guardai a destra e sinistra seguendo la scia degli autobus. Le macchine scorrevano lente incastrandosi come pezzi di puzzle in una via multicolore. Una goccia mi colpì il dorso della mano. Mi asciugai con un lembo del giubbotto. Alcuni pensieri attraversarono la mia mente come un treno in corsa. Pensieri tristi e malinconici che solo una goccia di pioggia avrebbe potuto scatenare. Mentivo… mentivo a me stesso per sentirmi bene e speravo che un giorno tutte le cose si sarebbero sistemate. Perché? Quando? Dove mi avrebbe portato quella strada che avevo intrapreso? Chiusi gli occhi per un istante cercando di dimenticare. Ma nemmeno il buio poté contrastare l’assordante rumore dei miei problemi. Di solito avevo un metodo per risollevarmi un po’ da qualche casino in cui ero immischiato. Guardavo il tutto con un’ottica di una persona esterna. Alienandomi dalle situazioni spiacevoli e dalle complicazioni… e ridendone a volte. Passavo intere serate con la mente sgombra… vivendo giorno per giorno… attimo per attimo. Ma quando il tutto toccava di nuovo quota zero, allora si che entravano i casini. Mi richiudevo in me stesso lasciando che la vita bussasse alla porta che raramente aprivo. Aspettavo che la persona giusta entrasse. Ma si sa… le persone giuste… sono difficili a trovarsi.
 
Toc toc
 
Una mano leggera bussò alla mia spalla. Mi girai di scatto e vidi Sara in tutto il suo splendore.
– Scusami per il ritardo… – disse, come colpevole di qualcosa di grave.
Si sedette vicino a me, su quella panchina di una fermata di un autobus urbano.
Si sistemò la gonna e si mise più comoda.
– Allora? Come mai da queste parti Ciro? –
– Avevo voglia di farmi un giro… –
– Tutto bene? – mi chiese con una voce seria. Ed io, nel mio solito giro di menzogne, dissi anche a lei che andava tutto bene. Ma Sara era una ragazza diversa. Sara non ci credeva. Sara sapeva già tutto anche solo dal mio sguardo. E mi guardò negli occhi mentre le dicevo che andava tutto bene.
La mandò giù, almeno per il momento e sdrammatizzò. – Dai facciamoci un giro… – mi disse, perché erano le sole parole che in quel momento volevo sentirmi dire.
– Tutto bene a te? – le chiesi.
– Bè… mica poi tanto… Sto riflettendo un po’ su questa storia… con il mio ragazzo… –
– Già… è proprio il momento adatto per parlare di storie d’amore… – Le dissi fingendo di grattarmi la testa.
Lei sorrise…  – Non navighiamo in belle acque! –
– Le acque non sono un problema… è il vento… la tempesta… i fulmini che ti cascano sulla testa all’improvviso da tutte le parti… –
Sara sapeva dove volevo arrivare. Aveva visto molte volte i miei occhi dissolversi nel vuoto alla ricerca di qualcosa di vago e profondo. Come in quel momento. Avevo dentro di me un fiume in piena che aveva voglia di uscire… di sfondare ogni cosa… tutto e tutti e liberare il mio essere dall’ostile peso che avevo sul cuore. Ma nella bocca c’era qualcosa che mi bloccava. Come un tappo messo in gola da qualcuno d’ignoto che non mi permetteva di sfogarmi liberamente. Era l’esperienza che mi bloccava… era l’esperienza di brutte amicizie e di persone non troppo fidate a cui ho confidato preziosi segreti. Pentendomi. Ma Sara non era così… e ne ero ben cosciente. Dovevo solo convincere il mio istinto a fidarsi di lei.
 
Percorremmo il corso principale. Qualche gocciolina di pioggia si sentiva qua e là senza dare troppo fastidio. Avevo indosso il mio giubbotto che mi proteggeva e mi teneva al caldo mentre lei, solo a guardarla, mi faceva venire i brividi di freddo.
– Non senti freddo? – Le chiesi
– Na… per niente… – (attimo di silenzio)
– Scherzavo! Sto morendo di freddo! Ho fatto male ad uscire così leggera. – disse sfregandosi le braccia.
Così mi tolsi il giubbotto e glielo offrii. Sotto, avevo una di quelle felpe con il cappuccio che mi avrebbe riscaldato ugualmente. Lei non lo accettò subito ma sfiorando il mio caldo giubbotto cambiò idea e disse.
– Ok… ma te lo ridò subito! –
Adoravo la sua sincerità. Adoravo il fatto che non sapeva mentire. Era una ragazza che all’apparenza sembrava una delle tante. Ma la sua parte nascosta, la sua indole, il suo carattere, erano cose preziose che solo poche avevano.
Giungemmo al nostro posto. Nostro… per modo di dire. Era una panchina che ci piaceva parecchio. Circondata da palazzi ma immersa nel verde… seminascosta da sguardi indiscreti. Un posto ideale quando hai voglia di parlare con qualcuno.
– Allora? Come mai è così tanto che non ti fai sentire? –
– Ho il telefono fuori uso… –
– Smettila… ora fai il serio! Dai… so che c’è qualcosa che non va… –
– Lo sai? E come lo sai? –
– Dal tuo odore… puzzi di “qualcosa che non va”! –
Ridemmo…
Una cosa era certa: “era la migliore… a saper sdrammatizzare…”
 
E tra una cosa e l’altra partì il mio racconto. Lei stava ad ascoltarmi silenziosa aspettando impaziente il suo momento. Le raccontai della storia con Erika e della sua inevitabile fine. Le raccontai dei miei genitori, delle guerre in casa e fuori… e le parlai della scuola dicendole:
– …l’ho lasciata… –
Lei sgranò gli occhi in modo eccessivo come se le avessi annunciato la morte di qualcuno. Ma subito si riprese e balbettando impercettibilmente disse:
– I tuoi lo sanno? –
– Certo che non lo sanno… continuo a mentirgli… –
E lei capì… non chiese come mai e perché si fanno certe cose. Si fanno e basta… è un misto di eventi che ti portano a una conseguenza irreparabile. Risalire al principio, percorrendo a ritroso un cammino sbagliato, non è una buona scelta per risolvere il problema. È solo una pugnalata in più al cuore e forse non una, ma due, tre, quattro… fino a quando non senti un peso sul collo che risale velocemente verso il centro della fronte… e da lì scende giù… sotto forma di lacrime. E in quel momento… non puoi proprio più fermarti.
L’ho voluto dire lo stesso a Sara… anche se lei non me lo chiese esplicitamente. Volevo che almeno lei fosse a conoscenza del peso che avevo addosso. Forse sbagliavo, perché vedevo il suo volto assorbire le mie parole e farsi pian piano più triste.
Feci un sospiro..
Tirai i piedi sulla panchina… abbracciai le gambe e poggiai la testa sulle ginocchia.
– C’è stato un tempo in cui credevo… – le dissi.. – …che le cose sarebbero andate per il verso giusto… –
E lì non resse più…
 
Una lacrima scese dai suoi occhi..
piccola e leggera percorse tutto il viso…
il suo sguardo era mutato…
non so se aveva compassione di me o cosa..
so solo… che mi sentivo colpevole…
 
 
 

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