Se tanto non hai fretta… (parte II)

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Formia

Ripresi il pc e lo arroventai sotto i colpi delle mie dita frenetiche. Calcolavo percorsi, probabilità, eventuali
problemi che i miei fratelli avrebbero potuto incontrare; possibili stazioni in cui fermarmi; traffico, orari, chilometri, deviazioni, mi stava venendo un gran mal di testa!
Il mio cellulare lampeggiò. Sullo schermo comparse una mappa e un punto con la faccina di mio fratello che si spostava. Graziano stava facendo bene il suo dovere, si erano mossi da casa. Io invece, dall’altra parte della mappa, restavo fermo e immobile nei pressi della stazione di Formia. Immaginai che la stessa mappa la stesse guardando mio fratello nel sedile passeggero di un’Audi sparata sulla statale 7. Gli avevo insegnato a usare Google Latitude qualche anno prima. Era Pasqua e giocavamo con i cellulari mentre andavamo a trovare i nonni per i consueti auguri.
– Graziano, guarda quest’applicazione… – gli dissi.
– Cos’è? Una mappa? –
– Molto di più… vedi quest’icona con la mia foto? Indica la mia posizione. Ora accendi anche il tuo cellulare e ti faccio vedere che compari anche tu… –
Graziano cacciò dalla tasca il suo Htc bianco. Attivò la connessione e cliccò su Google maps. Un attimo dopo, accanto alla mia icona lampeggiante, comparse anche la sua.
– Fico! – disse – Ma a che cazzo serve? –
– Per adesso a niente… ma sicuramente verrà un giorno in cui ci servirà… –
E il giorno era proprio quello in cui i miei fratelli erano la mia ultima speranza di salvezza. Guardai l’orologio e fissai per un po’ le lancette che segnavano le nove. Quanti casini che stavo creando. Avevo spedito i miei fratelli fino a Formia! Più di cento chilometri da casa! Di notte! Dovevano attraversare paesi come Giuliano, Castel Volturno, Casal di Principe… zone in cui, a volte, la legge stenta ad arrivare e regna l’anarchia. E mandarci due adolescenti immaturi, non era tanto una buona idea.
Mia madre ucciderà…
Mentre ero assorto nei miei pensieri, il telefono cominciò a squillare. La foto di mia madre apparve sullo schermo nero. – Cazzo! Tempismo perfetto! –
Click
– Ciao Ma’… –
– Ciro! Sei arrivato a casa? –
– No… sono ancora in treno… ci sono stati dei problemi… –
– Ce la fai a prendere la coincidenza? Devo chiamare qualcuno che ti venga a prendere? –
– No Ma’… ho chiamato Graziano e Davide… stanno venendo loro… – bomba sganciata, chiusi gli occhi e allontanai un po’ il cellulare dall’orecchio, in attesa di roventi grida furiose.
– Ah… – disse solamente. – Te lo vedi tutto tu? –
– Certo… li sto guidando da qui… –
– Va bene… allora fammi sapere quando arrivate a casa… Ciao –
– Ciao Ma’ –
Click
Chiusi il cellulare ancora incredulo. Mia mamma che non si preoccupava? Suonava strano pensarlo. O semplicemente non aveva ancora focalizzato con la mente… cosa molto probabile.
Mi adagiai sul sedile appoggiando i piedi su quello di fronte. A intervalli di 5 minuti accendevo la connessione per seguire il tragitto dei miei fratelli. Non avevano ancora oltrepassato la metà del percorso.
Intanto il mio treno restava nell’inamovibilità più assoluta. I passeggeri erano incazzati neri. Un tizio si era impossessato del microfono dell’interfono e con messaggi del tipo “Capotreno! Abbiamo donne e bambini a bordo! Dove sei?” aizzava ancora di più la folla inferocita.
Perché non ho preso il Frecciarossa? Pensai amareggiato.
Mentre roteavo il cellulare tra le dita, sentii un rumore ferroso provenire da lontano. Un treno si stava avvicinando a noi. Possibile?
Andai al finestrino e un regionale mi passo a pochi metri dal viso a tutta velocità. Mandai un messaggio a Enzo:
Ma per caso, sei su quel treno che mi è appena passato a fianco?
Nello stesso istante mi arrivò un suo messaggio che sostanzialmente diceva la stessa cosa. Lo chiamai.
– We! Figlio di puttana! Sei passato e noi no! –
Rise.
– Ciro, come facciamo quando arrivo? –
– Ti passo a prendere con i miei fratelli, tranquillo! –
– In che stazione devo scendere? –
Pensai un attimo e dissi: – Caserta… scendi lì –
Click

Ora dovevo solo sperare che il mio treno riprendesse la corsa. Se il treno di Enzo era passato, perché il mio era ancora fermo? Nessuno lo sapeva. Intanto avevo socializzato con una signora di Salerno. Stando nella mia stessa cabina aveva ascoltato tutte le mie chiamate e quindi seguito la mia vicenda. Le chiesi consiglio su dove scendere nel caso in cui il treno fosse ripartito.
– Aversa… E’ abbastanza vicina a Napoli ed è la fermata successiva a Formia… e soprattutto non è lontana da Caserta! – mi disse con estrema calma e tornò a leggere la sua rivista. Non sembrava per niente preoccupata dalla situazione. Sfogliava il suo Gente proprio come se fosse nella sala d’attesa di un parrucchiere. Invidiavo la sua calma.
Improvvisamente qualcosa si smosse. Sentii vibrare il sedile sotto il culo. Il macchinista aveva acceso i motori. Le persone si calmarono. Il vociare si ammutolì per un istante come in attesa di qualcosa.
E quel qualcosa avvenne: le ganasce dei freni lasciarono libere le ruote che cigolarono sui binari muovendosi in avanti. Tutti tirarono un respiro di sollievo… tranne io che avevo riaperto il pc per ricalcolare i percorsi. Mandai un messaggio a Graziano:
Cambio di programma, il mio treno è ripartito, andate alla stazione di Aversa!

Porcaputtana! Deciditi un po’! Mi rispose un po’ incazzato…

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Je vois la vie en rose (la nouvelle de Paris XII)

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– Vado a comprare una bottiglietta d’acqua… –
– Ce la smezziamo? –
– Certo! –

Ciro si alzò dal suo posto. Mise il suo trolley a fianco a me in modo che potessi controllarlo. Lo vidi scorrere via nel corridoio dell’aeroporto nei suoi jeans a pinocchietto e la maglietta di Hilfigher. Si guardava in giro curioso, come un cane che perlustra l’area; o semplicemente cercava il prossimo spunto per un’idea ingegnosa. Era un mistero sapere cosa girasse in testa a quel “vecchio” adolescente. È sempre stato un modello per me. Un modello di vita e di pensiero. A volte ho copiato la sua pazzia mescolandola con un po’ di ragione condendola con un pizzico di responsabilità. Qualche anno fa, quando l’uno precedeva lo scorrere delle unità nei nostri anni, e i giorni del liceo si facevano più duri, scappavo da scuola per andare a rintanarmi nella sua soffitta. Non mi diceva niente… non chiedeva il come e il perché fossi lì… forse lo immaginava e sapeva che era meglio non domandare. Lo osservavo mentre giocava al pc o curiosavo tra la sua roba. Tra l’immenso disordine delle sue cose. A volte mi affacciavo dal balcone. Si vedeva tutto il paese da lì. Era bello abitare al centro…
E ora siamo cresciuti. Su due strade diverse che ogni tanto s’intrecciano, generano storie e poi ognuno dalla sua parte. Ognuno verso la propria meta…
A questo pensavo mentre lo guardavo scomparire in un negozio dell’aeroporto di Orly. Ero solo… Solo in mezzo ad altri passeggeri che, come me, attendevano il diretto per Milano Linate. Ero solo perché i restanti membri della compagnia avevano preso il volo per altre mete. Antonio, che gentilmente ci aveva ospitato in quel di Parigi, era partito per Roma. Rafael e Alberto invece, erano tornati a Cambridge a raccogliere le loro cose per poi fuggire in altre città lontane. Ciro invece, a sorpresa mi aveva detto: – vengo con te a Milano… mi fermo qualche giorno -. Per questo motivo era insieme a me. Altrimenti sarei partito da solo come avevo fatto all’andata.
Mi alzai e andai di fronte ad una grossa finestra di vetro. Si vedeva la pista e qualche aereo pronto in partenza. Forse c’era anche il mio tra quelli. L’aereo che mi avrebbe riportato a casa decretando la fine del mio viaggio. Più in là, oltrepassando gli alberi, con un po’ d’immaginazione, c’era Parigi.
Chiusi gli occhi per un istante e vidi scorrere davanti a me l’intera vacanza come capita a colui che è in punto di morte.
Vidi il mio viaggio e l’aero che atterrava lì, ed io che scendevo con un carico di ansie e paranoie. Vidi la casa di Antonio con i letti sfatti e le cene a base di vino. Ricordai i sogni nelle notti apparenti di ore improbabili. Ripensai alla poca voglia di socializzare che si era trasformata in due splendide amicizie.
Rafael, il brasiliano strampalato con un fegato senza fondo e un accento divertente. Alberto, l’inglese-napoletano-piacione-logorroico, che occupava tutti i nostri silenzi e a volte anche i nostri pensieri. Chissà se li avrei più rivisti.
Il mio viaggio mentale, tra pensieri e ricordi, si alzò sopra le cime delle case, sui comignoli e le antenne. Superò ogni cosa e si fermò in alto. La vista era stupenda. Si vedeva la Tour Eiffel che scintillava sotto i colpi del sole; l’Arco di Trionfo che proiettava la sua ombra sugli Champs-Élysées e il Louvre, poco più giù, con la sua elegante piramide di vetro. Scesi più in basso con la fantasia. Mi adagiai sulla cima di uno dei campanili di Notre-Dame e desiderai restare lì in eterno come un Gargoyle in pietra. Vidi il Quartiere Latino sulla destra, pulsare di vita e festosa frenesia. Quante storie potevano scriversi tra i suoi vicoli se solo avessimo avuto più tempo per viverle. E ne avremo vissute altre con infinita gioia. Di più belle, di più impensabili, di più incredibili. Storie che solo la pazzia della giovinezza può creare e la mano di uno scrittore descrivere. Persino la mia fervente fantasia cede sotto i colpi della soave realtà. E una lacrima mi scese. Lì, nella mia mente, nel mio magico viaggio, sulla cresta di Notre-Dame. E la piccola goccia cadde nel vuoto bucando il sogno, annerendo tutto, lasciando il buio dietro di se.
Aprii gli occhi e ricordai di essere nell’aeroporto di Orly in attesa del mio volo. Appoggiai una mano al vetro, come a voler toccare quel luogo straniero per imprimere la sensazione nella mente, e regalare anche al tatto qualcosa.
Mi girai e tornai al mio posto. Sprofondai nella poltroncina e poggiai i piedi sul Trolley. Spostai la mano e solleticai il portatile che avevo cacciato dalla borsa cercando un’ispirazione.
Aprii lo schermo e iniziai a scrivere. Di getto, senza pensare… Lasciai scorrere le dita tra i tasti neri. Lasciai che le lettere formassero parole e le parole frasi…
e le frasi racconti…
Camminai tra i sentieri dei ricordi. Corsi per non farmene sfuggire nemmeno uno. E più correvo e più scrivevo. E più scrivevo e più si avvicinava la fine. Incastonavo pezzi di storia con pezzi di vita. Ammorbidivo i dettagli rendendo meno noiose le vicissitudini. Descrivevo i luoghi e le sensazioni sulla mia pelle con una sperata maestria. E scrivevo… e non mi fermavo. Perché ce n’era ancora da raccontare. E la voglia che partiva da dentro non ancora si arrestava.
E arrivò, attesa e sperata come un’eclissi di Luna, la fine della mia storia parigina.

Adieu mes amis…

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Ciro tornò dal negozio. Si sedette accanto a me con la bottiglietta in mano.
– Che scrivi? – mi chiese.
– Mah… niente. Tu piuttosto, perché ci hai messo tutto sto tempo? –
– Ho comprato un souvenir… vuoi vederlo? –
– Si… fammi vedere. –
– Eccolo… Che ne dici? –
– Con sincerità? –
– Si, parla! –
– Fa cagare… –

FINE

Forse… è meglio così! (la nouvelle de Paris VIII)

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Com’era ardente il sole sui nostri semplici passi. La città del nord s’era trasformata in una torrida metropoli dell’equatore. Il caldo ossessionava la carne e le membra, e sgorgava copioso dai nostri pori sudoriferi.
Nei Jardin des Touleries il tutto era ampiamente enfatizzato. L’immenso spazio aperto era intervallato da larghi sentieri di sabbia grossa e, con il sole che batteva, quella terra sotto i piedi sembrava una spiaggia artificiale; e una grossa e immensa fontana dava l’impressione di un mare contenuto, spremuto e rimpicciolito all’interno di un parco meraviglioso. Numerose persone erano lì a godersi un po’ di tregua dall’afa che tormentava i piccoli appartamentini.
Noi, che all’apparenza sembravamo sei ragazzi sprovveduti tutt’altro che turisti, percorremmo per il lungo il grande giardino fino ad arrivare all’Arc du Carrousel. E mentre gli altri erano intenti parlare e a lamentarsi del caldo, i miei occhi restavano incollati sulla scena di fronte a me. L’avevo sempre immaginato, visto nei films e nelle foto; sognavo quando ne leggevo le descrizioni nei libri di Dan Brown e m’immaginavo un giorno a vederlo dal vivo: il museo del Louvre.
A un primo occhio, spiccava la piramide di vetro centrale. Avevo letto delle polemiche che scatenò quando fu costruita. Si diceva che avrebbe deturpato l’immagine di un complesso storico di rilevanza mondiale. Confesso che se nell’89 avessi avuto qualche anno in più, mi sarei unito anch’io alle proteste. Ma vedendola ora, anzi, crescendo con quell’immagine stereotipata dai media del museo, vedere un Louvre senza piramide, suonerebbe strano… come se mancasse qualcosa.
Per me, ci stava benissimo quell’affare di vetro lì in mezzo. Dicano quel che vogliono, dicano pure che contrasti con le forme arrotondate del barocco settecentesco, o che il Louvre non è di certo un museo futurista. Al contrario di tutti, penso che quella piramide sia un perfetto simbolo d’integrazione tra presente e passato. E aveva anche la sua funzione: era l’ingresso principale.
Stavamo quasi per entrare quando Yann, il francese della squadra, ci annunciò la sua dipartita. Ci salutò tutti e con mio sommo dispiacere gli strinsi la mano e gli dissi che era stato un piacere discorrere con lui. Così, dopo che Yann prese la metro e poi il treno per tornare al suo paesino, restammo in 5 a varcare la soglia del Louvre.
Il cuore mi batteva, ero ansioso. Ero nell’unico museo degno di portare questo nome. Ero all’interno di un film mentale che scorreva all’infinito. Quante opere conteneva! E così poco tempo per vederle tutte! Ci avrei passato un’intera settimana a gustarmi le più belle opere d’arte della terra. Ma il tempo scorreva e quei pelandroni dei miei compagni non si decidevano a darsi una mossa.
Afferrai una cartina da un banchetto e feci un grosso errore a consegnarla ad Antonio rendendolo così il capo-squadra della comitiva. E fra poco capirete il perché.
Come un topo in mezzo ad un mare di cibo che, invece di mangiare, si affanna a cercare un piccolo pezzo di formaggio, anche noi come prima cosa, andammo a ricercare ciò che chiunque andrebbe a vedere in quel museo: La Gioconda. Non che non fossi contento di vederla, anzi, ma volevo arrivarci per gradi. Che ne so, fermarsi da qualche Raffaello o un Delacroix come un Caravaggio o un Perugino. Niente, come tori incitati dal torero partimmo per vedere la famosa Monna Lisa.
Salimmo lungo la scala Daru per arrivare all’entrata Sully. Su un piano mediano della scala, che di lì in poi si diramava in due direzioni, c’era la mitica Nike di Samotracia. Un’imponente statua di donna alata, purtroppo priva di testa e braccia, risalente al II secolo avanti Cristo. Bellissima.
Percorremmo con rapidità degna di un maratoneta, una decina di stanze. Cercavo di osservare quanta più roba possibile mentre i ragazzi spesso mi lasciavano indietro. Lì raggiunsi e in un attimo arrivammo nella illustre sala della Gioconda, passando davanti a non meno illustri quadri.
Su una parete spoglia in mezzo alla sala rettangolare, dietro un pesantissimo e spessissimo vetro, scansando le decine di teste delle persone davanti a me, vidi il quadro. Mi avvicinai per vedere meglio. La folla era molto fitta. Tutti accalcati a scattar foto che su internet potevano trovarsi a una risoluzione migliore. Infatti, il quadro era molto più piccolo di come me l’aspettavo. Non per questo non bello! La Monna Lisa era un tantino bruttina a dirla tutta… ma sorprendentemente enigmatica. Ovunque tu ti trovi, davanti a lei, sembra che i suoi occhi stiano fissando proprio te e nessun altro. Restai a fissarla per un po’… quel quadro era così importante che aveva bisogno della meritata lunga osservazione. I miei occhi erano attratti dai suoi. Impazzisco alle illusioni ottiche, sono il mio debole. E il mio debole diventò fissare quello sguardo. Costatai che guardandola in foto non si aveva lo stesso effetto. Chissà perché? Dopotutto una foto è una foto! Cosa c’è di più fedele all’originale? Cosa nasconde quella tela? Un gran mistero sicuramente. Quel matto di Da Vinci era un genio… onore al merito.
Quando la folla divenne troppo pressante, mi allontanai. I miei amici ovviamente avevano già finito di ammirarla. Erano intenti a osservare un altro dipinto della sala.
– E che è sto coso? –
– È un Caravaggio porcaputtana! Ragazzi! Che ignoranza! – dissi infastidito.
– Dai Ciro… che ci vuoi fa… abbiamo troppa storia alle spalle per conoscerla tutta! – mi disse Antonio mortificato. Quella frase mi fece sorridere. Lo consolai…
– Vabbè… non fa niente… pensa quelli che verranno tra cent’anni quanta ne dovranno studiare! –
E dopo i discorsi esistenziali, aprimmo la cartina per avere uno spunto sulla prossima meta.
La Venere di Milo.
Tornammo sui nostri passi e ripassammo per la scalinata Daru proprio davanti alla Nike. Entrammo in una sala piena di statue. Prima di arrivare alla Venere mi fermai incantato davanti ad una statua. Raffigurava una donna seminuda con il braccio teso ed in mano una pallina. Assomigliava tanto alla mia pallina rossa. Chiusi gli occhi e per un attimo la vidi vivere davanti a me. La sua carne si dipinse di rosa, i suoi capelli di un castano chiaro, le sue poche vesti di un bianco perlaceo e la pallina, anche se all’epoca era un colore molto raro, di un rosso scarlatto. La vidi lanciarla nel vuoto con un gesto improvviso, poi aprii gli occhi… e tutto tornò alla normalità.
Raggiunsi la Venere. Bella anche lei. E soprattutto anche lei dava dei gran grattacapi agli storici! Come tutti sanno (lo spero) le braccia sono state rotte e perse nella storia. Nel corso dei secoli, numerosi studiosi hanno avanzato teorie sulla posizione originaria degli arti amputati. E nessuno riesce ancora a darsi una spiegazione plausibile. Cominciai a pensare che, per avere importanza in quel museo, e sei una statua, ti deve mancare qualcosa. La statua di prima con la pallina era praticamente intatta e non destava la minima attenzione come la Nike o la Venere. Avanzai sempre di più la teoria dell’enigmaticità delle cose. Ossia, se un visitatore che si ferma a guardare un’opera riesce a rispondere a tutte le domande che si pone nella mente, quell’opera avrà poca influenza. Non posso fare esempi pratici di domande, perché ognuno ha i suoi perché. Come il mio perché della pallina in mano a quella statua. A qualcun altro, sarà sembrato normale. Ma non a me… perché io possedevo un mio perché.
Ritornammo nella sala dei dipinti, ripassando ovviamente davanti alla Nike; e questa volta anch’io formulai delle ipotesi su dove avesse le braccia; e la stanchezza mi fece pensare solo a gesti scabrosi. Entrammo in una sala dalle pareti altissime. Sui muri erano appesi enormi quadri su tela. Finalmente avevo la possibilità di osservare La libertà che guida il popolo di Delacroix e L’incoronazione di Napoleone di David. Due dipinti che avevo trovato tra le pagine del mio libro di storia delle superiori. Belli, e sorprendentemente grandi! Più di quanto si possa immaginare.
Filammo via anche da lì. E, passando in una piccola e stretta sala dalle pareti verde scuro, notai un piccolo quadro appeso su un muro, vicino alla porta.
– Oh oh! Chi si vede! – dissi come se avessi incontrato un vecchio amico.
– Non sapevo che c’eri anche tu qui! –
Mi avvicinai al quadro che raffigurava un uomo a mezzo busto. Era un autoritratto di Albrecht Dürer. L’autore di un’incisione sorprendentemente fantastica. La richiamai nella memoria. Quanto amavo quella sua opera, tanto cara anche a quel simbolista di Dan Brown. Così densa di particolari, di allusioni, di simboli, di rompicapi, di “perché” insomma! E quella persona che guardavo nel quadro ne era l’autore.
Volevo tanto avere il potere di rendere reali le cose. Volevo rendere reale quell’uomo per porgli un fottio di domande. Anche se ero sicuro che avrebbe parlato solo in tedesco e non mi avrebbe capito. Volevo sapere, volevo conoscere, internet e i libri non bastavano più. C’erano ancora enigmi irrisolti dentro la mia testa. Enigmi che quel quadro poneva ogni volta alla mia attenzione. Cosa si nascondeva dietro quel quadro mio caro Dürer?
Non me lo dirai mai… perché così facendo, sparirebbero i miei dubbi… e tu finiresti per non affascinarmi più…
Forse… è meglio così!

 

 

Una coppia d’inglesi a Parigi! (la nouvelle de Paris V)

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“Siamo arrivati! Ora prendiamo la metro… dove scendiamo?“ disse una voce al telefono.
George V… devi prendere la linea 1! –

La notte era scesa pesante in quel di Parigi. Tutto sommato la volta celeste restava uguale a quella italiana. Non riuscivo a vedere le stelle, tanto era forte il caos luminoso della città; e non so quanto le stelle avrebbero potuto reggere il confronto con una simile bellezza artificiale.
Percorremmo a ritroso gli Champs-Élysées. Tornammo verso casa dopo il pomeriggio passato ad ammirare monumenti e cattedrali. Mi sentivo come a una gita scolastica, ma senza guida né professori. Tutto ciò che osservavo lo andavo a ricercare nella mia mente, in quei vaghi ricordi di ore passate su libri d’arte e storia. Sarebbe stato più semplice… Sarebbe stato più facile… Sarebbe stato più bello studiare così. Per esempio, ripassare la fisica osservando il Pendolo di Foucault nel Pantheon… ricordarsi del moto oscillatorio, della gravità e di quel matto di Galileo che non aveva nient’altro da fare; oppure ricordarsi della rivoluzione, passando davanti alla Bastiglia, l’imponente antico carcere parigino; e l’arte barocca dell’Hôtel des Invalides… con la sua scintillante cupola dorata e la tomba di Napoleone al suo interno. Sublime.
Erano passate le dieci e attendavamo questi due ragazzi davanti all’uscita della metro 1. Ero leggermente infastidito da quell’inaspettata aggregazione al gruppo. Ciro era mio cugino e Antonio lo conoscevo abbastanza bene, dopo averlo ospitato una volta a Milano. Ma quest’altri due non sapevo proprio chi fossero. Mai visti e mai sentiti. Erano due amici di Antonio, conosciuti a Cambridge qualche mese prima.
– Vedrai Ciro… Alberto è un tipo talmente logorroico… – e fece un gesto scocciato con la mano.
Devo ammettere che adoro le persone che parlano sempre… rendono il mio silenzio meno imbarazzante. Purtroppo però, una cosa che devo assolutamente perfezionare del mio carattere, sono questi ambìti “rapporti sociali” che le persone comuni intrattengono con tale facilità da farmi vergognare della mia difficoltà. Ho studiato un po’ di psicologia, letto libri di comunicazione e conosciuto una variegata specie di caratteri personali per potermi confrontare e capire dov’era il mio errore. Niente… tutto vano! Sono così… e nessuno mi cambierà mai!
Fatto sta, che in quel momento proprio non mi andava di conoscere gente nuova. Un po’ come quando tua madre ti serve una minestra e tu devi mangiarla per forza… e conti fino a tre prima di ingoiare il primo boccone. Contai fino a tre anche quella volta e mi sentii pronto. Dopotutto erano solo ragazzi: un “ciao”, un “come va?”, normale routine per sciogliere il ghiaccio. Semplice no?
– Arrivare ai trenta, nel bene o nel male, con questo stile di vita, mi farebbe comunque piacere… – risposi.
– Eh già! Ah… dimenticavo… parlano inglese! –
Feci una faccia stupita e guardai mio cugino che, come me, non navigava in buone acque con le lingue.
– Inglese?! Dovremo parlare per tutto il tempo in inglese?! –
– Hey guys! –
Dalla metro uscirono due ragazzotti, uno aveva un trolley blu e l’altro uno zaino nero in spalla. Era vero… più che trentenni sembravano ragazzini! E come si vestivano!
– Hi Antonio! –
Antonio salutò i suoi amici e poi si passò alle presentazioni. Ciro partì per primo, poi toccò a me.
– Hello friend! –
– Hi, my name is Ciro! –
– My name is Rafael. You two have the same name? –
– Yes… he is my cousin… –
– Oh yaa… –
Mi presentai anche ad Alberto e l’interrogazione d’inglese per il momento era finita. Feci un respiro profondo. “Immagino che discorsi a cena…” pensai mentre camminavamo in non so quale direzione. Alberto aveva preso sottobraccio Antonio e conversava con lui tranquillamente raccontando di fatti, storie e soprattutto di donne. Ciro cercava di far amicizia con questo Rafael mentre io ascoltavo camminando a fianco.
– I come from Brasil… I’m a lawyer… –
“Un avvocato?” pensai.
– …and i have also a degree in economy… –
“Un avvocato e un economista! 2 Lauree! E veste come un quindicenne che si veste male… non ci posso credere!”
– …we met Antonio in Cambridge… i went there to study english… –
Ora che sapevo che veniva dal Brasile, feci più caso al suo fortissimo accento brasiliano. I suoi tratti somatici forti e i lineamenti del viso bollavano istantaneamente la sua provenienza straniera.
– And now, what do we do? – chiese Rafael.
– And now… wine! A lot of wine! Do you have some wine? – chiese Alberto ad Antonio.
– Yes! Three bottles… –
– No… three bottles are few… we must buy other wine! –
A mano a mano, traducevo le frasi con un po’ di difficoltà, e quando arrivai al punto che volevano comprare altro vino, feci un sorriso sollevato. Mi stavano più simpatici. Avevano pronunciato la parola chiave comune a tutte le lingue… l’alcool! E Ora li osservavo sotto un’altra luce.
Quei ragazzi, in fondo, non erano poi così male…

 

 

Un pezzo di storia.. (la Punto)

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 28 dicembre 2010 ore 10:15

Dormivo. Dormivo in un sonno profondo, da cui niente sembrava poteva svegliarmi. Ero in una stanza, ma le pareti non avevano colore e la sua grandezza sembrava sconosciuta. Ero a Milano o a casa mia? Spesso mi succede di addormentarmi da una parte.. e svegliarmi convinto di essere da tutt’altra. È una sensazione che appena ti svegli ti disorienta e hai subito bisogno di cercare qualcosa di reale vicino a te. Ecco, nel mio dormiveglia ero in quello stato. Mi giravo intorno alla ricerca di quel punto di riferimento che mi rivelasse il posto in cui stavo dormendo. Ma niente… il mio sogno continuava in una camera spoglia con poca luce e io, seduto a gambe incrociate per terra, a chiedermi dov’ero.
Ma un suono tradì quell’immaginazione che si prendeva gioco di me.

Triiiin  Triiiiiinn  Triinnnn

Era il suono di un telefono di casa che veniva da lontano. Ecco la chiave: a Milano non ho il telefono fisso! Ero a casa.
Aprii gli occhi e vidi il soffitto bianco e le pareti verde acqua, il grande armadio a muro e il comò, ma soprattutto gli altri due letti dei miei fratelli.

Triiinnn Triinnnn

Eccomi Arrivo! Ti giuro che se è un’altra telepromozione io…
Scesi le scale in tutta fretta. Arrivai in cucina e presi il telefono.
– Pronto!-
– Ciro…-
– Si papà…-
– Vedi che tra una mezzoretta arriva il carroattrezzi per portarsi via la Punto… dai un occhio. Capito?-
– Si.. ok.. sono qua.-
Click

Afferrai un bicchiere d’aranciata e mi buttai sul divano. Dalla porta a vetri davanti a me si vedeva il giardino con la Punto parcheggiata nel mezzo.

Quella fu la mia prima macchina. Il primo mezzo che mi permise di scarrozzare un po’ più in là della Vespa. Finalmente potevo portare a spasso i miei amici e non pregare Enzo di riaccompagnarmi a casa… ma essere io ad accompagnarlo. Fu l’emblema della mia ribellione più di quanto lo fu la vespa.
Era la mia macchina..

Una sera di qualche giorno dopo aver preso la patente ero a cena con i miei. Capelli lunghi.. qualche borchia qua e là… vestiti strappati. Un Ciro ormai dimenticato ora.. ma vivo nei ricordi di quegli anni.
Papà guardava attentamente il telegiornale.. quasi fosse più importante sapere di un assassinio che alimentarsi. Mia mamma non aveva ancora finito di mettere le cose a tavola. Non riusciva a sedersi per due minuti.. ogni tanto si alzava per prendere qualcosa che chiedevano quei due scansafatiche dei miei fratelli.
Io rigiravo la forchetta nel piatto.. tagliavo la carne in pezzetti più piccoli cercando disperatamente il momento giusto per dire:
– Mamma.. stasera esco..-
– Ok.. con chi? Con Enzo?-
-… con la macchina..-
– Cheeeee? Ma ti sei ammattito? Non se ne parla proprio! Carmine diglielo anche tu!-
Mio padre distolse per un secondo lo sguardo dal telegiornale.
– È troppo presto.- fu la sua sentenza e il dibattito si riconcentrò su mia mamma..
– Dai mamma! So guidare bene!-
– Non conosci la strada!-
– Ma se l’ho fatta mille volte con la Vespa!-
– Si.. ma è notte!-
– La macchina ha i fari!-
– Non m’importa! È troppo presto! NO!-
Abbassai la testa.. e finii ciò che restava della mia cena..

Suonò il citofono.
Sarà il carroattrezzi..
Mi alzai per controllare e poi aprii il cancello. Un camion di media stazza fece capolino nel mio giardino, in retromarcia.
Uscii fuori mentre un signore brizzolato con un sigaro in bocca scendeva dal camion.
-Ho parlato con tuo padre.. devo prendere la punto..-
-Certo certo! Faccia pure..- gli dissi alzando la voce.
Il signore intanto, andò di fianco al camion dove c’era un pannello con parecchie leve. Ne tirò una e la parte posteriore del camion cominciò a inclinarsi per accogliere l’auto.
Una folata di vento mi colpì, gelandomi dalla testa ai piedi. Un dettaglio molto significativo era che mi trovavo ancora in ciabatte e pigiama. Il carrello finì d’inclinarsi, l’uomo lasciò andare la leva e ne tirò un’altra. Due lunghe passerelle parallele sbucarono dal fondo fino ad arrivare a terra. Tutto era pronto.  Ora l’uomo prese un gancio che sbucava da un verricello. Tirò il filo d’acciaio e lo fece arrivare fino alla macchina. Lo agganciò e la mia Punto, come un pesce che abbocca all’amo del pescatore, dovette abbandonarsi al suo destino.

All’epoca, invece, i destini mi piaceva sconvolgerli. Ciò che era detto.. imposto.. o scritto.. a me non piaceva. Mi urtava. Dovevo andar contro tutto ciò che mi si parava davanti. Ed era per questo che avevo abbassato la testa. Perché quella era l’ennesima cosa imposta ingiustamente. L’ennesimo blocco. L’ennesima guerra.
Dopo cena andai nella mia stanza. Mio padre dopo il telegiornale andò nel suo studio a controllare qualche conto che non quadrava. I miei fratelli scomparsi qua e là per la casa. Mamma entrava e usciva dalla cucina portando i piatti sporchi nel secondo cucinotto. Dopo poco smise e si adagiò sul divano. Ma qualcosa non le quadrava. Andò davanti alla porta a vetri della cucina. Spostò le tendine bianche e vide che qualcosa mancava nel giardino.
– Carmine!- urlò per farsi sentire nell’altra stanza
– Che c’è?-
– Hai messo la macchina in garage?-
– No!-
E in un attimo mia mamma capì che magari, in quel momento, non ero nella mia stanza a giocherellare con il pc.

Mentre il signore abbassò la leva che attivava il verricello, entrò nel giardino la Fiat Idea con a bordo mia mamma che scese, salutò il signore… e subito mi fulminò con lo sguardo.
– Entra subito dentro, che ti prendi un colpo di freddo! Muoviti!-
– Agli ordini mamma!-
Salii dentro.. chiusi la porta e mi girai. La vecchia Punto lentamente saliva sul camion. Dovevo dirle addio… Ho provato per lei tanto amore quanto odio. Ma quest’ultimo adesso non riesco a provarlo. Ora non può lasciarmi a piedi alle 3 di notte.. può solo sciogliere un po’ di malinconia conservata nei ricordi del passato. 

 

 

Rimini… (Ricordi di Rimini 2004)

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Ho quasi diciassette anni. Diciassette anni e già il peso della valigia si fa sentire. La valigia dei pensieri, delle preoccupazioni e dei disegni del futuro. Mi sento già oppresso da tutto ciò. Per fortuna che la scuola è finita e ho tirato un bel sospiro di sollievo alla vista della mia pagella. Ma i giorni di questa estate corrono veloci. E mentre assaggio la mia fetta di libertà è già arrivato agosto e si sente il profumo dei banchi di scuola di settembre. Non voglio tornare a scuola.. voglio la mia parte di vita. Voglio chiudere gli occhi e non pensare a niente. Voglio respirare mentre canto che Questa è la mia vita. Voglio che la mia Vespa corra di più per arrivare in paese perché i ragazzi sono in giro. Non voglio più amare.. perché ho scoperto che amare fa male.. come il fuoco a chi non lo sa usare. E sono sopravvissuto.. e sopravvivo sapendo di poter dimenticare.. di poter riiniziare..

Come io vorrei..

Voglio il mio bel 10..

E se il mio futuro è da 4 o da 9 poco importa..

Perché domani vado a Rimini..

 

Un treno espresso viaggiava nella notte. A bordo, oltre a un migliaio di persone, c’eravamo noi. Stipati come solo Dio può saperlo. Erano le due della notte ed eravamo stesi per terra. Tra le due carrozze. Avevamo bloccato le porte “automatiche” con una valigia e allungato i piedi nello spazio di interconnessione dei vagoni. Il treno era affollatissimo. E si potevano ammirare le scene più bizzarre che avessi mai visto in vita mia. Per esempio c’era una persona che dormiva per il lungo sul porta-valigie su in alto. Lo guardavamo con tantissima ammirazione cercando di capire come avesse fatto a salire fin lassù. C’era un signore di mezza età che dormiva seduto per terra nella carrozza affianco. Aveva la bocca aperta da circa 2 ore e noi li a ridere cercando di buttargli dentro qualcosa. Era diventato il nostro mito. Poi vedemmo il controllore che rincorreva due stranieri. Vedemmo i due stranieri tornare e cambiarsi le magliette proprio davanti a noi. E mentre il controllore tornava.. loro facevano finta di niente. Non furono riconosciuti grazie ai colori nettamente diversi da quelli che avevano prima. Da li capii che il biglietto del treno poteva anche non essere pagato. Che furbata.

La notte era ancora lunga davanti a noi. E nonostante la stanchezza non riuscivo a dormire. Mi succede spesso quando sono in viaggio. Difficilmente prendo sonno. Ero impaziente di arrivare e tentavo d’immaginare le mille avventure che mi stavano aspettando. Era la prima volta che mi spingevo così tanto lontano da casa. I miei amici qui per terra erano tutti più grandi di me. E potevano permettersi di fare certe cose senza litigare con i propri genitori. E io guardavo il cellulare cercando di non pensare a quanto insistetti per andare a quella vacanza. Per fortuna che nella dura lotta con mio padre l’avevo spuntata. 

Il dondolio del treno mi stava cullando. Un occhio stava per cedere alle insistenze di morfeo. Guardavo i miei amici. Sembravano profughi in cerca di fortuna. Mario aveva da poco fatto i capelli stile rasta e li teneva raccolti sul capo con una fascia nera. Luca indossava una maglietta dei Pantera che non cambiava da almeno tre giorni e a guardarlo sembrava che sognasse di bucare chissà quale server di mirc. Enzo dormiva abbracciato alla sua chitarra.. la musica è la sua passione. Pasquale invece.. era famoso per dormire nei modi più strani possibili!

Mi sistemai il cappello sulla testa. Mi alzai.. e andai al finestrino. Il paesaggio era fantastico. Era mattina.. e il mare s’intravedeva da lontano. Sorridevo..

Eravamo arrivati a Rimini.

Il Miky’s pub… (Livigno 2010 parte IV)

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Nuvole di fumo volteggiavano nell’aria. La luce sul soffitto evidenziava il tutto. Aprii la finestra quel tanto che bastava per respirare un po’, cercando di non far entrare troppo freddo. A volte il fumo mi dà fastidio, a volte invece me lo vado a cercare. I ragazzi stavano buttati sui due letti accostati della camera. Luca e Ciro stavano giocando a Street fighter con il mio pc, mentre Enzo li osservava seduto da un lato. Me ne stavo in piedi con le spalle volte alla finestra e il culo sul calorifero.

Pensavo…

Pensavo che quella era una scena che avevo visto già altre volte. Come quando eravamo a Rimini e dormivamo tra bottiglie di alcol e tabacco. Oppure quando avevamo ancora il nostro circolo e accostavamo i divani per dormire quando era troppo tardi per tornare a casa. Erano tutti nelle stesse, identiche posizioni… sembrava proprio che gli anni non fossero mai passati.  

 

– Dai che ti batto! Sei mio! Vieni qua! –

– No, cazzo! Ciro, come si fa la super mossa? –

– Ragazzi… davvero volete passare la serata ad abboffarvi di mazzate virtuali? – chiesi, pur conoscendo già la risposta.

– Si! –

– Dai ragazzi… ho voglia di uscire! –

– Ma fuori fa un freddo cane! –

 

I ragazzi non erano molto intenzionati ad uscire quindi chiusi il pc davanti ai loro occhi.

– Nooo… –

– Usciamo, punto. –

 

Fuori si respirava un freddo gelido. Un freddo secco e buono che ci gelava i polmoni.

E nella notte 4 ragazzi si muovevano nel vuoto. Facendo il loro dovuto porco casino. Il paese sembrava deserto. Forse tutte le brave persone erano a dormire. Il giorno dopo si sciava e il corpo doveva essere riposato e sereno, quasi come se fosse una giornata di lavoro. Così la pensavano alcuni… tra cui i nostri genitori.

– Chi lo sa come fa la gente a vivere qui? –

– C’è abituata. –

– Abituata a ‘sta madonna di freddo? –

– Sì… avranno i loro metodi… le loro abitudini… –

– Ah… tipo quella di non uscire la sera alle 10 come noi? –

– Beh… forse non usciranno tanto spesso… –

 

Un brivido mi scosse tutto. Forse il mio giubbotto imbottito non era abbastanza. Quel freddo pungente mi era penetrato dentro. Un po’ mi piaceva. Quel freddo scuoteva il mio corpo e non mi faceva pensare ad altro. Mi distraeva con il suo temperamento irruente e invisibile. Camminavamo alla ricerca di questo ipotetico pub dove divertirci un po’. Eravamo già un po’ brilli. Nostro zio aveva stappato la bottiglia di grappa a tavola, oltre alle bottiglie di vino che avevano già contornato la cena. Quest’anno l’aveva comprata al miele. Tutti gli anni che siamo stati in settimana bianca se n’è sempre uscito con un gusto nuovo. Mi ricordo che un anno la comprò alla rucola. Quest’anno con il miele non è che sia stata una gran cosa… ma l’abbiamo bevuta lo stesso. Dopotutto non è che il gusto della grappa si senta molto. Più che altro, si sentono tutti i suoi tosti 40 gradi.  

Eravamo arrivati quasi ai confini della cittadina. Ogni tanto passava qualche macchina. I ragazzi volevano tornare indietro, ma li convinsi a continuare. A un certo punto, sulla destra.. c’era una baita in legno di discrete dimensioni. Su una facciata risplendeva alla luce della luna la scritta dorata dell’insegna.

– Ragazzi… Perché non ci fermiamo qui? –

E fu così che varcammo la soglia… del Miky’s pub…

..Amnesia..

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Amnesia…
“Nel linguaggio medico, l’amnesia è una patologia carat-terizzata dalla parziale o totale perdita di eventi passati, è un disturbo collegato alla memoria.”
La stanza era fredda… immobile. Apparentemente vuota, fatta eccezione da quel ritmico respiro proveniente dal letto. Il sole faticava ad entrare attraverso i vetri appannati della porta del balcone. Le mensole… l’armadio… l’appendiabiti… Tutto sembrava nel giusto ordine mentre nell’aria regnava una sorta di foschia apparente. Quel tetro alone regalava allo spettatore più attento la sensazione di stranezza. Perché qualcosa non andava… anche se sembrava tutto normale…


Aprii gli occhi.
Ero nel mio letto.
Respiravo… o almeno ricordavo come si facesse.
Misi a fuoco e sbiancai nel vedere il soffitto della mia camera. La confusione cresceva nella mia testa e combatteva con il dolore lancinante che mi martellava la parte alta della testa. Assunsi una espressione dolorante e nel voltarmi scoprii che anche il collo aveva qualche problema. Ma a parte quei dolori, non riuscivo ancora a capire come mai mi trovassi lì. Ricordavo che ero ad una festa… ricordavo che mi stavo divertendo… e non ricordo più niente…
Iniziai a fare a cazzotti con la mente scavando a fondo nei ricordi. Niente. Vuoto totale.
Mi girai nel letto ma qualcosa mi tirava. Era il colletto della camicia abbottonato e troppo stretto. Sollevai le coperte e scoprii di essere completamente vestito. Jeans nero… Cintura… camicia nera a righe… e un calzino solo.
“Ahia la testa!” e riaffondai sul cuscino. Le domande si affollavano e le risposte si facevano complicate.
Perché ero vestito mentre il mio pigiama faceva bella mostra di se su un ripiano dell’armadio?  E soprattutto, perché avevo un calzino solo?!
Richiusi gli occhi. Un po’ per il dolore e un po’ perché credevo o almeno speravo, che si trattasse di un sogno mal riuscito.  Mi riaddormentai pensando che forse un po’ di riposo avrebbe sistemato le cose. Cercai di calmarmi. Forse in fondo non era successo niente. Probabilmente mi sarebbe tornata la memoria dopo qualche minuto… forse due… tre… quattro…
– La macchina!! – ricordavo di essere uscito con la macchina la sera prima e la parte in cui la riponevo nel garage mi era del tutto assente.
Mi alzai di botto e scoprii che anche la spalla mi doleva. Mi diressi verso il bagno. Abbattuto, stordito. Quasi mentalmente assente. Mi affrettai ad andare alla finestra che dava sul cortile. Sul vialetto c’era la Ford Focus con mio padre e mio nonno intenti a fare chissà cosa. Non riuscivo a vedere bene. Andai allo specchio. “Almeno la mia faccia è rimasta quella di sempre” pensai, e cercai di ristabilirmi un po’ sciacquandomi il volto. Ma non servì a niente. Uscii dal bagno e percorsi il corridoio con una mano che strusciava contro il muro, come i ciechi che cercano di orientarsi in una casa che non è la propria. Vidi le scale. Mi sembravano altissime… silenziose… quasi innocue. Feci il primo passo come colui che si appresta ad entrare in un mare di acqua gelata. I sensi ormai sembravano tutti ingannarmi. La vista si annebbiava ondulando le cose, creando facili squilibri. L’udito manteneva perennemente quell’irritante sibilo dovuto forse alla musica troppo alta della sera precedente. Continuai a scendere quelle scale reggendomi alla ringhiera. Un po’ come faceva mia nonna quando doveva salire al piano superiore. Arrivai giù. Al primo piano c’era la cucina dove mia mamma aveva sicuramente preparato il pranzo. Solo che  non riuscivo a sentire nessun profumo dato che anche l’olfatto era andato a farsi fottere. Guardai il grande orologio che faceva capolino all’entrata nella cucina. Erano le 2:30. Un po’ troppo tardi per mangiare. Mia mamma mi sbucò da dietro portando una pentola con due mani. – Finalmente ti sei svegliato! – mi disse… con un tono di leggero rimprovero.
Non risposi. Non sapevo cosa dire. Mi limitai a seguirla con lo sguardo nelle sue faccende.
All’improvviso mio padre entrò nella cucina. Dal viso e da come aveva sbattuto la porta sembrava abbastanza adirato. – Che cavolo avete fatto ieri sera?!? Chi è che ha ridotto così la Ford?? –
Il cuore mi batteva… cercavo una risposta… invano. – Perché? Che è successo? – dissi.
– La macchina è sudicia… cenere ovunque… e qualcuno ci ha vomitato dentro! Chi è stato?? –
Spalancai gli occhi alle parole di mio padre. Terrorizzato al pensiero che avesse rovistato dappertutto. Dovevo correre fuori. Nella macchina c’erano cose che mio padre non doveva nemmeno immaginare. Tra cui, un ignaro e innocuo “pacchetto di fazzoletti”. Così cercai di divincolarmi dalle domande con risposte vaghe del tipo “abbiamo un po’ esagerato ieri sera”, “Enzo è stato male e non è riuscito a trattenersi…” anche se non ne avevo la più pallida idea. Scesi nel cortile e andai verso la macchina. Mio nonno era ancora lì con in mano un tappetino. Lo salutai e gli feci gli auguri. Aspettai un suo momento di distrazione per intrufolarmi in uno sportello. Guardai in giro cercando di metterci la massima attenzione. All’apparenza quel pacchetto sembrava scomparso. Cercai nel portaoggetti… sotto i sedili… tra i pedali. Niente… Il cuore mi si riempì di terrore. “Se l’ha trovato mio padre sono casini grossi”. Niente… non c’era. Dovevo smettere la mia ricerca perché stavo dando troppo nell’occhio. Mi alzai con un viso sbiancato e rientrai in cucina. Continuavo a pensare a mio padre che stava progettando  la scenata da farmi… che all’improvviso avrebbe detto “vieni qui che dobbiamo parlare” con quel volto serio con cui solo poche volte l’ho visto.
“Dannazione non ci voleva!”
Se andava come sospettavo… ero nei guai. E per di più, la testa continuava a girarmi. I segnali del cervello sembravano correre a tratti lungo il mio corpo. Mi serviva un po’ di riposo… o forse qualche altra cosa. Tornai in camera da letto evitando il più possibile i miei genitori. Mi ributtai nel letto e appena chiusi gli occhi… Strane costellazione si facevano beffe della mia vista. Tutto girava e nel mezzo, nel preciso centro di tutto, c’ero io. Il mio corpo, me stesso. Mi guardavo dal di fuori come uno specchio irreale. Sogno e realtà si fondevano creando mistiche illusioni. “Vieni da me… Vieni da me…” mi sussurrava il mio alter ego dall’altra parte dello specchio. Non rispondevo… avevo  il respiro affannato. Eppure non avevo fatto sforzi… non avevo mosso nessuno dei miei muscoli. Mi sedetti per terra… ed appoggiai una mano allo specchio. Dall’altra parte, l’immagine di me stesso, rideva di me e l’eco della sua risata rimbombava in ogni dove… Resistevo… Resistevo mentre la testa compieva strani viaggi e tutto continuava a girare…
Sentii delle voci. Colpi battuti su una porta in legno…
toc  toc…
toc toc…
e poi di nuovo le voci… ridevano… Dicevano qualcosa in sottovoce. Nominavano il mio nome…
Ciro?
Ciro!

Sembravano le voci dei miei amici che mi chiamavano. Erano entrati nella mia stanza e cercavano di svegliarmi. Mi scuotevano… Ciro!
– Cazzo questo non si sveglia! –
Aprii gli occhi…
Vidi i volti di Enzo e Luca che mi guardavano in silenzio.
– E se non si riprende? – chiese Enzo a Luca.
– Secondo me è rimasto scemo… –

– Ehi… che volete? Idioti! – risposi con un po’ d’incertezza.
– Ciro, tutto a posto? – mi chiese Luca, un po’ preoccupato.
– Si, tutto a posto… – dissi strascicando le parole.
– La testa non ti fa male? – disse Enzo ridendo.
– Si un po’ si… –
– Solo un po’!? –
– Si… solo un po’… –
– No, perché ieri hai preso tante di quelle testate… –
– Ieri? Ragazzi io non ricordo niente… –
Enzo e Luca si guardarono in faccia e iniziarono a ridere.
– Quindi non ricordi proprio niente? –
– Niente… vuoto totale. –
– Nemmeno quando sei saltato sulla tua macchina e hai iniziato a pulire il vetro con la tua giacca? –
Sgranai gli occhi, la mia giacca!.
– Non è possibile dai ragazzi non prendetemi in giro… –
– Certo che è possibile… guarda! –
Luca prese la giacca nera che era disordinatamente appoggiata sulla sedia e me la mostrò. Sporchissima, sudicia e tre lunghi squarci la percorrevano sulla schiena.
– Porc… – dissi. La mia giacca da 250 euro era ridotta uno straccio. Era praticamente da buttare… anzi da bruciare. Non capivo più niente. Che cosa era successo? Che cosa avevo fatto? mi chiedevo continuando a fissare la giacca.
– Cavolo se la vede mia mamma mi uccide! Dannazione! Devo nasconderla… almeno per il momento. –
– Dai ora alzati che usciamo. – disse Luca.
– Ok… forse è meglio… –
Mi alzai dal letto.. Mi guardai i piedi. Anche loro mi guardarono i piedi.
– Ragazzi, mi sapete dire perché diavolo ho un calzino solo? –
E risero di gusto… come se avessi fatto la più splendida delle battute.

– Vieni che fra poco ti racconteremo tutte
le disavventure che ci hai fatto passare ieri notte… –

Un passato non meno lontano…

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E mi risveglio ancora una volta da uno strano sogno. Un sogno inconfondibile. Con quel profumo familiare di passato. Il mio passato. Storie ormai andate che riaffiorano alla mente nel momento più fragile. Nei sogni. Pensavo ormai di aver tagliato un po’ di pellicola dal mio film. Di aver censurato ai miei occhi alcune scene indimenticabili. Alcuni ricordi ormai andati. Ma Mariella era ancora lì… e mi teneva la mano come il primo giorno. Come quella volta che aveva freddo su quella panchina. Ed io la strinsi scaldando non solo lei ma anche il suo cuore. Quella volta fu speciale. Anche se, tra noi, non c’era ancora niente. Perché per me il destino aveva la sua puntualità da rispettare. E lottavo. Lottavo con il mio cuore per non cadere ancora. Perché un’altra storia voleva dire per me ancora guai. Guai con gli altri ma soprattutto con me stesso. Perché ne ero uscito un po’ scoraggiato l’ultima volta. E il rumore del mio cuore che cadeva nel vuoto, ronzava ancora nella mia testa. In questi anni, ogni storia mi ha portato via qualcosa, e ogni volta mi ripetevo “non fai più male”. Ma quel male restava impresso in me come un marchio a fuoco sulla pelle. Incancellabile come un destino già scritto. Non volevo caderci ancora. Maledetto amore.
 
 
 
…Incominciando dalla fine…
 
 
 
Scorrevano tra le mie mani le dolci note di piccola stella senza cielo, condite da qualche nota in più o qualche tasto sbagliato. Era da un po’ che non prendevo in mano quella vecchia chitarra. Ormai mutilata a vita di due corde che Enzo non si sognava di cambiare. E a me poco importava, perché le poche corde che restavano bastavano a suonare la mia canzone. Enzo era in bagno e io m’intrattenevo così nella sua cameretta. Ogni cosa era nel suo disordinato posto. Esattamente come qualche anno fa. Quando presi quella chitarra in mano per la prima volta e suonai quelle note stonate che vagamente ricordavano una canzone. Le cose erano un po’ cambiate da allora. Avevamo le macchine al posto dei motorini. La sera facevamo tardi e nessuno ci rompeva le scatole al telefono. I bar diventarono pub e i luoghi isolati dove ci ritrovavamo diventarono piazzette. Ma la canzone che suonavo era rimasta la stessa. Le stesse dolci note che infastidivano Enzo quando lo svegliavo la mattina. Quanti ricordi erano impressi dentro quelle quattro note.
La serata doveva ancora iniziare. E di ricordi da scoprire ce n’erano tanti altri.
Enzo uscì dal bagno con i denti lavati e una faccia soddisfatta.
– Che facciamo… andiamo? –
– Ok… Ho la macchina parcheggiata al solito posto. Vicino alla chiesa. Sai com’è… non voglio beccare un’altra multa per aver parcheggiato davanti al tuo portone… perché “qualcuno” non si decideva a scendere! –
Scendemmo. Piovigginava leggermente. Il tempo adatto al morale che avevo. Un po’ giù di corda per quel sogno che avevo fatto ieri notte. E quel sogno, coincidenza delle coincidenze, coincideva con questa serata. Andammo da Mario. C’era il compleanno di una delle sorelle più piccole e gentilmente la madre aveva invitato anche noi. Gli amici che ormai erano diventati coinquilini di quell’appartamento. Ci aprì Mario. Gianni era appena arrivato e ci aspettava dietro di lui nell’ingresso. Un rapido saluto alla festeggiata e ci fiondammo al buffet.
Patatine e pizza a volontà. Il paradiso dei golosi era sopra un tavolo. Ma non appena misi la mano per afferrare uno di quei stuzzichini. Scorsi dietro un angolo lei. Stava parlando con un’amica mentre io la fissavo. A un certo punto l’amica mi indicò facendola voltare. Gioco di sguardi e di silenzi. Di frasi dette e stradette in un istante mentre il tempo si fermava perdendosi in quegli occhi. Stupendi. Un taglio intrigante e profondo come pochi. Nascosto dalla purezza dell’età appena sbocciata. Mariella continuava a fissarmi. Abbassai per primo lo sguardo come per nascondermi da qualcosa e continuai a servirmi da mangiare. Avevo perso la prima battaglia, ma lei non sapeva nemmeno di star giocando. Magari se ne fregava di me, chi poteva saperlo. Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevamo litigato. Sempre e solo attraverso quel maledetto messenger. Dove un tasto o una parola non riusciva mai a far comprendere l’intonazione che portava con se. E nascevano incomprensioni, malintesi, litigi per un nonnulla, spesso ricadendo nella realtà. Dove magari con una parola si risolveva tutto… con una frase detta nel modo giusto… o anche solo con uno sguardo come questo… tra due persone che avevano condiviso una storia. Una bella storia. Anche se breve.
Non ci vedevamo da un po’. Ma soprattutto non ci sentivamo. Non ricordo nemmeno perché avevamo litigato l’ultima volta. Sicuramente me ne sarò uscito con il mio solito orgoglio maschilista e avevo chiuso la conversazione in modo sbagliato. O forse volevo proprio così. Perché magari chiudere con il passato era la cosa migliore da fare. Ormai c’eravamo lasciati da un pezzo ed ognuno si era creato una nuova vita. E a me naturalmente dava fastidio la sua. Perché magari, in fondo in fondo, un pezzo di cuore era ancora in mano sua. E lo stava calpestando allegramente. O Forse no. Magari lo conservava da qualche parte, ben protetto dai pensieri indiscreti… ma raggiungibile con un semplice sguardo, dalla persona giusta ovviamente.
– Com’è la pizza Ciro? –
– Buona Mario. Son certe invitate che mi stanno andando di traverso. –
– Ho visto… Bè.. io te l’avevo detto che probabilmente sarebbe venuta. –
– Già… –
In un certo senso il gusto di rivederla mi attirava. Ma dovetti lottare con me stesso per convincermi ad essere lì quella sera. Forse un po’ speravo che non sarebbe venuta. Così da passare una serata tranquilla senza troppi pensieri. Ma lei era lì. Ed era a pochi metri da me. Mi rifugiai nella cucina che era adibita a sala bevande. La festa aveva preso una strana piega. Si erano formate due fazioni. Una con i miei amici in cui l’età media era 20 anni e l’altra comprendeva il gruppo di sedicenni tra cui c’era anche l’invitata. Io e lei eravamo separati da questa situazione. Un po’ come Romeo e Giulietta e le loro famiglie veronesi. Divisi da un qualcosa d’immaginario. Venivo trascinato dai ragazzi a destra e sinistra a raccontare un po’ di storie milanesi. Mentre lei, dall’altra parte del salotto, sembrava non annoiarsi e soprattutto non essere turbata dalla mia presenza. Parlava tranquillamente con le sue amiche. Come l’avevo sempre vista, allegra e spensierata. Con il sorriso sempre stampato sulle labbra e la solita gioia di vivere che la caratterizzava. Era quello che mi piaceva in lei. Che mi permise di amarla. Che fece stare bene il mio cuore un po’ malandato. Un po’ parcheggiato in una via isolata mentre la vita scorreva a 300 all’ora a fianco a me. Mi sentivo bene lì. Seduto in dispare, mentre la mente viaggiava su strade perdute. Perché credevo che non sarebbe mai risuccesso. Che non sarebbe mai riapparso quel dolore piacevole del battito profondo del cuore. Ma lei passava da quelle parti. Tra quel gruppo di amici troppo orgogliosi per azzardare in nuove conoscenze. Entrò di botto nella mia vita. Come un tuono che rompeva il silenzioso scroscio della pioggia…
– Ciao Ciro! – Era Giovanna che s’era affiancata a me vicino al buffet. Era una delle migliori amiche di Mariella. Certamente anche lei voleva sapere come stavo, dato che da tempo non ci vedevamo.
– Ciao… – Rimasi quasi indifferente a quel saluto continuando a scegliere il pezzo di pizza migliore.
– Come stai? –
– Bene. – risposi.
– Hai visto chi c’è?-
– No. Chi c’è? –
– Mariella! Dai non continuare a evitarla. –
– Io non la evito! È lei che evita me. –
– Si… certo… –
E mentre me ne stavo andando, si avvicinò Mariella. Quasi come per chiedere a Giovanna cosa le avessi detto. Era curiosa, lo era sempre stato. Moriva a volte, quando in passato non le dicevo qualcosa. Nel gruppo era sempre stata quella che sapeva tutto di tutti. E spesso anche odiata per questo. Le persone si confidavano con lei perché aveva la particolarità di non assorbire i problemi degli altri, ma lasciarli scorrere. Magari con qualche frase di conforto o qualche abbraccio su una panchina un po’ troppo isolata. Purtroppo a volte si ritrovava a sapere cose che non avrebbe dovuto sapere. E scoppiavano battibecchi, da cui lei ne usciva sempre indenne.
La vedevo parlare con Giovanna. Cercavo di capire cosa si stessero dicendo. In fondo anche io sono sempre stato curioso. Ma la mia curiosità non fu soddisfatta.
– Ciro! Ma quand’è che torni a Milano? – mi chiese uno dei miei amici.
– La settimana prossima… –
– Ah… allora c’è ancora tempo per prendersi una bella birra da Dante! –
– Certo! Ma solo se offri tu! –
Mi voltai. Non c’era più. Era tornata a sedersi a fianco alle sue amiche. Come se nulla fosse successo. Come se nulla fosse accaduto. Anche tra di noi. E questa cosa mi faceva impazzire. O meglio incazzare. Non ero nessuno io? Tutti i ricordi passati insieme dove erano finiti? Non chiedevo tanto, ma almeno un pizzico d’interessamento.
Voleva la guerra.
Allora andai diretto nel territorio nemico. Tra persone che non conoscevo. Presi una sedia e mi sedetti a fianco a Giovanna. Poco più in la c’era Mariella che parlava con un’altra amica. Mi notò.
– Ciro allora che mi racconti? – chiese Gio.
– Niente di che. –
– A Milano come va la vita? –
– Procede bene… –
Parlavo con lei ma ogni tanto osservavo le mosse di quella ragazza dai capelli nero corvino. Ogni tanto mi osservava anche lei, mentre ero distratto da altre cose. Forse non si trovava a suo agio. Lo intuivo da come parlava con gli altri, da come voltava lo sguardo, da come gesticolava con il cellulare. Era nervosa. Impaziente. Quasi frenetica, anzi no, questo, lo era sempre stata.
Intuii. Se ne stava andando. La festa non era di suo gradimento. O forse le persone. O forse io. Si alzò. Prese il giubbotto, salutò la festeggiata, scambiò qualche altra parola con le amiche e chiuse la porta alle sue spalle. Così in un attimo scomparse dai miei occhi lasciando nel mio cuore un pizzico d’amore bruciato.
 
 
 

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