Galleria d’Arte ##24

Vodka e Gin

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Notte gelata. Notte ventosa. Notte diversa dalle solite.
I pensieri s’intrecciavano come fili di seta in una trama di ricordi. Correvo. Col mio piede inferocivo i cavalli del motore. Rombavano a ogni marcia come fossero frustate a pelle viva. 120/h. L’aria penetrava la vettura dai finestrini spalancati e m’inondava la faccia. I miei occhi decisi guardavano l’asfalto come un pugile che sfida il suo avversario. 140/h. La mia mano teneva ben saldo il volante, l’unico strumento che in quel momento era capace di scindere la vita dalla morte. Con rapidi movimenti di polso, evitavo spartitraffico, macchine e animali randagi. 160/h. Se la mano si fosse bloccata in quel momento avrei potuto dire addio alla vita terrena. Avrei potuto dire addio a pelle, anima e ossa. 180/h. Un semaforo in lontananza mi mostrò una faccia rossa e lucente, quasi accecante, nel buio fitto. Voleva prendersi gioco di me… voleva fermare la mia folle corsa come un genitore premuroso. Vidi dei fari muoversi nella via trasversale. Una macchina. Se passo, la disintegro… Scalo di marcia, freno, rallentai, mi fermai. Diedi ragione al mio genitore elettronico. Gli lasciai lo sfizio di comandarmi per un po’. 0/h.
Ero fermo e le mie dita accarezzavano la leva del cambio. Il piede fremeva impaziente di schiacciare l’acceleratore. M’ero fermato oltre la linea e non vedevo la luce del semaforo. Mi avvicinai al parabrezza e inclinai la testa. Guardai in alto. E dall’alto in basso lui guardava me. Mi sorrise mostrandomi il verde. Accelerai e lentamente tornai nella mia posizione. 80/h. Guardavo l’asfalto e come in uno specchio nero, vedevo i miei pensieri riflettersi nel vuoto. 100/h. Comparvero due occhi grandi, immensi. Al di là di un orizzonte che ora non c’era. Non si vedeva. Solo occhi, due grandi occhi femminili che mi fissavano. Feci una curva, cambiai specchio, e scomparve tutto. 120/h. Sentii un rumore di bottiglie che si scontravano. Erano un paio Tennet’s vuote che rotolavano sotto il sediolino indisturbate. 140/h. Con una mano le raccolsi entrambe e le gettai con violenza dal finestrino. Sentii distintamente un rumore di vetri in frantumi.
Ecco che rumore fa una bottiglia scaraventata da una macchina in corsa. 160/h. Ne volevo ancora. Volevo ancora dell’altro prezioso nettare degli dei. L’alcol che mi girava in testa non era abbastanza e soprattutto non faceva il suo dovere. Invece di annebbiare la mente, l’arricchiva di ricordi. 180/h. Lei era tornata tra i miei pensieri. I suoi occhi erano spuntati dal nulla carichi di odio verso di me.
Cosa voleva? Perché mi cercava? Basta! Lasciami la mente in pace per un po’…
Niente… parole al vento. L’immagine di lei tornò e si sedette accanto a me. Vidi il suo fantasma che rideva, parlava e mi scattava foto. In quel ricordo eravamo su quella stessa via, ma di giorno e più piano. L’avevo presa da casa e l’avevo portata via con me. Volevo farle vedere una nuova città e una mastodontica reggia. L’abbracciavo e a ogni semaforo la baciavo. La felicità sembrava semplice allora. Essere felici non era un problema.
Basta cristo! Lasciami in pace! 200/h.
Cercavo di ribellarmi ai ricordi ma miccia e polvere da sparo erano poche. Vidi un piccolo bar che restava ancora aperto nonostante l’ora tarda. Mi fermai in un parcheggio isolato. Scesi dalla macchina e la terra sotto i piedi mi sembrò diversa. Come se si muovesse e non volesse restare ferma al suo posto. La ragione mi suggeriva l’inganno e ignorai la percezione camminando fino al bar.
Entrai nell’angusto posto. Le luci sfocavano la visione. Raggiunsi a tentoni uno sgabello davanti al bancone.
– Dimmi? – disse il barista.
– Una vodka ghiacciata… – comandai.
Vidi la bottiglia e il bicchiere riempirsi davanti a me. Detesto la vodka ma fu la prima cosa che mi venne in mente. Presi il bicchiere e assaporai il freddo nella mia mano. Mandai giù di colpo e lo rimisi al suo posto. Il barista mi guardava ansioso.
– Ho voglia di sperimentare… – dissi – mescola due dita di gin e due di vodka. –
L’uomo mi guardò titubante poi prese le due bottiglie e mi servì il miscuglio. Guardai il bicchiere colmo di liquido trasparente che sembrava acqua fresca. Mandai giù anche quello e per poco non vomitai.
I miscugli non vanno bene! Lo sai.
Poggiai il bicchiere e gli chiesi una Tennent’s.
Mentre il barista cercava la mia birra nel frigo sotto al bancone, mi voltai indietro a guardare la sala. Una coppia di giovani erano seduti a un angolo di un tavolino. Il braccio di lui era sulle spalle di lei. Le parlava all’orecchio, magari di cose sconce, e lei sorrideva maliziosa. Lei, visibilmente ubriaca, cercava di guardarlo negli occhi, non sempre riuscendoci. Entrambi, carichi d’eccitazione, non aspettavano altro che una scintilla a far scoppiare il tutto. Si baciarono e mi girai disgustato.
Il barista si rialzò e mi porse la birra. Pagai e tornai verso la macchina. Volevo allontanarmi il più possibile da quei due. Volevo allontanarmi da qualsiasi forma d’amore che potesse ricordarmi lei. Volevo allontanarmi anche da…
Uno scoppio in cielo mi fece voltare. Un grande bagliore m’illuminò gli occhi.
Fuochi d’artificio.
– Che belli… – dissi sottovoce dando un lungo sorso alla mia bottiglia.
Mi avvicinai alla macchina e mi sedetti sul cofano cercando di non ammaccarlo. Il motore era ancora rovente dopo che l’avevo trascinato fin quasi al suo limite.
Spom Spom Spom
Guardai il cielo che si colorava di rosso, poi verde e poi giallo. Milioni di lucine schizzavano nell’aria impazzite. Rumori di esplosioni simili a spari di pistola. I fuochi disegnavano nell’aria cerchi immensi. A volte simulavano una pioggia di stelle… altri roteavano su se stessi come girandole… infine scomparivano lasciando una coltre di nubi.

Belli…
e tu non sei qui con me a vederli. E non potresti mai vederli in nessun pezzo di mondo.
Perché i fuochi non sono come la Luna… Devi vederli lì… nello stesso posto. Devono riflettersi contemporaneamente negli occhi di entrambi. Ti vorrei qui, accanto a me. Vorrei passarti il braccio intorno al collo e sussurrarti ancora una volta che tu eri quella fatta a posta per me. La mia metà della mela. La mia boccata d’aria nell’abisso oscuro della vita.
La ragazza che sfiorava la perfezione. Quella che riusciva a sopportare il mio caratteraccio pieno di ansie e paranoie. Quella dagli occhi grandi e profondi ricchi sempre di me.
Non credo che riuscirò mai a dimenticarti…
E ancora una volta… quella strana forza ha invaso il mio cuore…

Il Quartiere Latino (la nouvelle de Paris IX)

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20:00

Il giro al Louvre era stato estenuante. Avevo i piedi in condizioni pietose. Mi buttai sul letto a peso morto. In casa, un vociare confuso di persone. I ragazzi discutevano, parlavano, raccontavano mescolando l’italiano con l’inglese affinché anche il nostro compagno brasiliano potesse capire. Chiusi gli occhi e cercai di recuperare le forze. I miei polpacci erano incandescenti, la schiena a pezzi e la mente in black-out.
Ad Aberto la stanchezza sembrava non toccare. Avevamo percorso chilometri ma lui era ancora fresco come una rosa sbocciata. Faceva progetti per la serata e cercava di coinvolgerci tutti. Antonio e Rafael lo stavano a sentire. Ciro aveva la testa sotto il cuscino a mo’ di struzzo e stava peggio di me. Sinceramente non mi andava di ballare anche quella sera. I piedi mi avrebbero dato buca.
Quando finalmente tutti fummo sistemati in un letto, piombò su di noi, come una leggera coperta, un sonno profondo.
Dormimmo in tutto un paio d’ore. Qualcuno si svegliò e ci svegliò tutti.
– Andiamo ragazzi! La notte è giovane! E soprattutto… siamo a Parigi! – urlò a gran voce Alberto.
Quel ragazzo, se ancora ragazzo si potesse chiamare a trent’anni, sembrava essere sempre pieno di energie e desideroso di assaporare ogni momento della vita, com’era desideroso di attaccarsi alle sottane di qualche giovane parigina. Anche se molto diversi, questo lato del carattere ci accomunava tanto. Anch’io voglio prendere la vita e farne brandelli di avventure. Anche a me piace viaggiare, osservare, raccontare… anch’io amo non fermarmi mai, anche se a volte, la ragione blocca la maggior parte delle pazzie.
Ci vestimmo tutti con indumenti già visti nelle serate precedenti. Non so come, ma Parigi mi faceva dimenticare che le mie bellissime scarpe nuove erano state devastate nella serata in discoteca. Rafael era sotto la doccia e cantava un motivetto portoghese. Vidi Ciro spruzzarsi un paio di gocce del suo Versace e me ne feci prestare un po’. Antonio girava per la stanza alla ricerca di una cintura per i suoi jeans. Infine Alberto, aveva sfoggiato il suo imbattibile pantalone rosa con cintura marrone, abbinato alla camicia bianca. Si avvicinò a noi e ci disse:
– Questo pantalone… quante ne ha acchiappate! –

Mezz’ora dopo uscimmo. Erano le undici in punto. Le strade parigine si colorarono di tenui luci arancioni che donavano a luogo un’intensa aura dorata. Ci dirigemmo verso il famoso Quartiere Latino. Un quartiere frequentato principalmente da studenti universitari e da turisti. Infatti, non molto distante c’è la Sorbona, la prestigiosa università di Parigi. Le sue vie pullulano di locali, dove mangiare, bere e fare bisboccia fino all’alba. Il quartiere costruito a posta per noi, in pratica.
Ci addentrammo per le sue vie, alcune molto strette da proibire il transito alle auto. Mi colpì subito il colore. Il colore delle cose, delle insegne, dei cibi, delle luci, di tutto! Dopo aver passato giorni e aver osservato palazzi e monumenti antichi così da abituare gli occhi alle tonalità settecentesche, ora, quel rosso, quel viola, quel blue, mi riportavano al futuro, ovvero il presente della nostra tipica società. Ciononostante, quella diversità del luogo, era perfettamente incastonata tra palazzi antichi e cattedrali gotiche da non rovinare l’ambiente cittadino.
C’erano insegne di ristoranti italiani, tedeschi, indiani, cinesi, giapponesi… C’era un vasto assortimento culinario. Noi, però, cercavamo qualcosa di tipico della zona ed entrammo in un ristorante francese.
Il maître ci indicò dove sederci e ci portò le liste. Ovviamente scritte in francese. I ragazzi pensarono subito al vino e ne fecero portare una bottiglia. Un Sauvignon blanc da 20 euro.
Non avevamo ancora ordinato che già la prima era andata. Ne ordinammo un’altra con immenso piacere del maître. Di quel menu non ci capivo un acca. Volevo scegliere qualcosa di commestibile e che si accostasse bene all’immensa quantità di vino che sicuramente avremmo bevuto. Lessi tutta la lista, poi sorrisi.
– Ecco cosa prenderò! Un’omelette! –

Mangiammo, bevemmo, chiacchierammo… Ognuno raccontava un pezzo di se. Li stavo ad ascoltare con piacere. Quella combriccola non era male. Il vino scorreva a fiumi e il cibo era ottimo. Il maître rimpiazzava le bottiglie vuote con quelle piene e ogni tanto si fermava a fare due chiacchiere sulle sue vacanze italiane. Eravamo entrati così in confidenza che fu quasi dispiaciuto nel mandarci via. L’ora era tarda e il ristorante doveva chiudere. Ci fermammo davanti all’entrata a bere l’ultimo bicchiere di vino e vedemmo uscire dal locale due ragazze. Alberto ovviamente partì all’attacco e attaccò bottone con una di loro. Si fermarono a fare quattro chiacchiere e a fumare una sigaretta. Parlavano inglese ma non erano inglesi, bensì di una delle sue ex- colonie: l’Australia.

E qui la memoria subisce un salto. Non ricordo il come e il perché finimmo in un altro locale. Mi ritrovai a parlare con una delle due, davanti a un bancone di un piccolo pub.
– Un Cuba Libre, and for you? – ordinai al barista.
– Un Mojito
Con la vista un po’ annebbiata mi accorsi che Alberto era lì vicino e tentava un approccio con l’amica. Del resto della compagnia non avevo notizie. Guardai negli occhi la mia giovane donzella. Si chiamava Kate e aveva all’incirca la mia età. Ancora non riesco a spiegarmi di come abbia fatto ad attraversare metà mondo per finire a bere un Mojito a Parigi. Mi disse che era il suo ultimo giorno in Francia e coincidenza lo era anche il mio. Il viaggio però non si sarebbe fermato lì, la sua prossima tappa sarebbe stata l’Italia e più precisamente Milano.
– Milano?! Really?! I came from Milano! – le dissi.
– Wow… I love Milano, fashion and shopping! –
La ragazza la sapeva lunga sulla vita mondana e stava per recarsi proprio nel suo cuore, nel centro di ogni attività modaiola e festaiola. Avevo già capito le sue intenzioni. Mi chiese di insegnarle qualche parola in italiano. Aveva fatto un corso di qualche mese in Australia e voleva far pratica nel Bel Paese. Per fortuna che la mia galanteria mi fece desistere dall’insegnarle le parolacce, anche se l’istinto voleva divertirsi un po’. Le corressi la pronuncia delle parole che conosceva già. Qualche volta sbagliava gli ausiliari; in alcune frasi ometteva il soggetto; e i plurali le erano sconosciuti. Nonostante tutto se la cavava egregiamente, e sempre meglio del mio abominevole inglese!
Parlammo a lungo. Non avevo idea di che ore erano e di dove fossimo. Però vedevo Alberto lì vicino e questo mi dava un po’ di sicurezza. Chissà se Alberto pensava lo stesso di me? Non era che entrambi contavamo sull’altro per tornare a casa? Per fortuna non fu così e vidi spuntare da dietro Antonio con una bionda. Non in carne e ossa, ma liquida e spumosa. Me la offrì e mi chiese come stesse andando.
– Tutto bene… – gli risposi.

Tornai a guardare la mia compagna di serata negli occhi. Aveva un qualcosa di nascosto. Qualcosa di segreto aleggiava in lei. Quel suo sorriso così semplice e al tempo stesso misterioso. Quel suo fare disinvolto, socievole, intrigante… ne facevano di lei una persona da scoprire, come una rosa chiusa in un bocciolo. A ogni mio passo lei non indietreggiava, mi fronteggiava, stava allo scherzo. Rideva, giocava, si avvicinava. Ogni tanto mi lanciava languide occhiate che io raccoglievo e rilanciavo.
Era un gioco per me. Un perfetto gioco di frasi fatte, battute ben affilate e parole intriganti.
Era un gioco… e chissà per quanto ancora… sarebbe durato…

 

 

Ci si legge.. (25 marzo 2011)

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18.30

Ero seduto in metro. Ero seduto e avevo un libro tra le mani.
Era ancora chiuso nella busta rossa della Feltrinelli. Lo rigiravo e tastavo la sua forma come per cercare di capirne il contenuto che già conoscevo. Mi guardavo in giro. A fianco a me dormiva un ciccione e dall’altra parte un giapponese giocava col suo cellulare. Di fronte, una signora dal naso sottile e i capelli castani mi guardava di sfuggita.
No… lei non va bene… pensai.
Mi alzai e scesi alla fermata successiva. Stavo girando casualmente per Milano. Non avevo una meta precisa… ma solo un obbiettivo. Dare quel libro alla persona “giusta”. Era la giornata del regala un libro a uno sconosciuto e quando mi fu proposto di partecipare ne fui entusiasta. Da un lato perché mi piace leggere e mi piace chi legge, dall’altro, perché mi piacciono le strane iniziative. C’è anche da dire che la vedevo come una sfida. Battere la mia misantropia e introversione. Uscire un po’ dagli schemi. Evadere dalla prigione della mia mente. Respirare la società e viverla con tutti i suoi difetti, le sue noie e le sue stupidità.
Potevo farcela? Beh.. ci stavo provando.
Arrivai al parco di Porta Venezia. Varcai il grande cancello e una ragazza dai capelli corti mi sfiorò mentre faceva jogging.
Lei poteva andare bene.. peccato che sia sfuggita via troppo in fretta!
Mentre camminavo osservavo le panchine. La maggior parte erano vuote.. mentre quelle piene erano occupate da coppiette che si scambiavano tenere effusioni.
Non posso di certo disturbarli!
Non c’era nessuno di particolare. Nessuno che m’incuriosisse. Nessuno che meritasse il regalo. Stavo per perdere le speranze. Scesi in metro e salii su quella che mi avrebbe portato verso casa. Guardavo il mio libro.
Possibile che sia così difficile fare un regalo?
Alzai la testa per vedere a che fermata ero arrivato e intravidi una ragazza in cappotto beige e leggings neri. Guardava distrattamente il soffitto. Certo, era carina ma non andava bene per me. Avevo paura che non avrebbe apprezzato il gesto.
Arrivò la mia fermata. Si aprirono le porte e mentre scendevo e mi dirigevo verso la mia rampa di scale, vidi una ragazza con la coda dell’occhio. Lasciai stare. C’erano molte altre persone. Così.. rassegnato e deluso mi apprestai a salire le scale per tornarmene a casa. Misi un piede sul primo gradino e qualcosa mi bloccò. Rimasi immobile per un istante, indeciso sul da farsi. Volsi la testa indietro come per istinto. Qualcosa mi attirava. Ora non so spiegarlo.. ma tornai indietro.
La ragazza di prima era seduta sulla panca di marmo della banchina. Sembrava stesse aspettando il mezzo successivo. Leggeva. Mi sedetti accanto a lei ma non troppo vicino. Le diedi una rapida occhiata. Era una ragazza molto semplice. I capelli ricci le cadevano sulla maglietta bianca attillata ma non troppo provocante. Leggeva un libro poggiato sulle ginocchia mentre con una mano mangiucchiava qualcosa da una busta di patatine. Il mio sguardo indagatore aveva dato il via libera all’azione. Quella ragazza era perfetta perché semplicità, spontaneità e naturalezza avevano avuto il segno di spunta sulla mia scheda immaginaria.
Ma mentre mettevo in ordine le parole da dire sentii il fruscio del vento che preludeva l’arrivo della metro.
Cavolo.. ora si alzerà.. salirà sulla metro e addio ragazza “perfetta”
La metro arrivò. Si fermò davanti a noi. Varie persone scesero e alcune salirono.
Abbassai gli occhi e li chiusi per un attimo. Mi stavo già immaginando mentre aprivo la porta di casa, poggiavo il libro sulla scrivania e mi buttavo sul letto deluso e amareggiato.
Aprii gli occhi e mi girai nella direzione della ragazza convinto di osservare il pezzo di panca vuoto, il cestino bianco della carta, la macchinetta del caffè, la mappa della…
Lei era ancora lì…
Leggeva il suo silenzioso libro e mangiava il suo snack rumoroso.
Questo è un segno del destino..
Feci un respiro profondo la guardai e:
– Scusami.. posso rubarti un minuto?-
Lei alzò la testa un po’ stupita.
– Certo.. dimmi..-
– Beh.. il libro che ho tra le mani devo regalarlo a una persona sconosciuta..-
Piccola pausa, lei fece un impercettibile e sincero sorriso.
-…partecipo a questa iniziativa che promuove la lettura. E quindi…. questo è tuo!-
Le porsi il libro.
– Ma dici davvero?..- mi chiese sorpresa della cosa.
– Certo! Tieni! Prendilo! È tuo!-
Lei lo prese e mi guardò. Non ancora aveva realizzato.
Le sorrisi..
– Beh.. allora ciao..- le dissi..
– Ciao..- mi rispose.. ma forse voleva sapere di più.
Mi allontanai senza voltarmi indietro. Mi sentivo sereno e sollevato, ma soprattutto felice di aver fatto qualcosa di buono. Forse quella ragazza leggerà quel libro, o forse no.. chi lo sa?
Voglio pensare in positivo… voglio pensare che al mondo ci siano ancora persone capaci di sognare e di sapersi raccontare.
Forse un giorno quella ragazza passerà anche di qui. Leggerà queste quattro frasi messe sbadatamente in ordine logico e si riconoscerà pensando che il mondo non sia poi così tanto infinito.

Ci si legge..

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Piove… (Sara I)

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Pioveva…
Pioveva in quella piccola città. Le nuvole sembravano non voler smettere più. Di acqua dal cielo ne scendeva un’infinità mentre i passanti cercavano un riparo. Era notte, e mi aggiravo tra le strade in cerca di un rapido spuntino. Il McDonald di Porta Venezia era lì che mi aspettava in fondo alla strada. Vedevo la scintillante insegna mentre alcune gocce mi colpivano il viso. Il giubbotto di pelle sembrava ripararmi a dovere. Ormai era abituato. Ne aveva presa tanta di acqua in passato proteggendomi da numerosi malanni. E certe volte mi ha protetto anche da me stesso. Quando uscivo di casa con la coscienza sporca e nascondevo la mia faccia dentro al suo cappuccio.
Una sirena iniziò a suonare alle mie spalle. Mi girai di botto. Era un’autoambulanza che stava facendo inversione in mezzo al traffico per poi fuggire nella direzione in cui stavo andando. Correva. Anche se la strada era tutta bagnata. Era un po’ pericoloso per i miei gusti. Anche se molto spesso, devo confessare che lo facevo anche io. Mi diverte molto il rischio… mi diverte l’imprevedibilità…
Entrai nel McDonald. Strusciai i piedi sul tappeto e tolsi il giubbotto. Mi guardai un po’ intorno intravedendo quelle quattro persone dai volti assenti. Mi diressi verso il banco e ordinai il mio solito menù. E mi assicurai, come ogni volta, che dentro al panino non ci mettessero i cetriolini. Sono fatto così… anche se sapevo che non ci sarebbero stati… domando sempre. Magari qualche cinese non sa leggere le ricette e ce li mette dentro! Chi lo sa? Vabbè… mettendo da parte le mie paranoie sui cetriolini, presi il mio vassoio e andai al solito posto. Un “posto finestrino”… come lo definivo io. Mi sedetti e incominciai a mangiare. La pioggia continuava incessantemente il suo lavoro. Ed io da una sorta di vetrina al contrario, osservavo questa specie di film in cui gli attori scappavano dalla scena… le macchine correvano.. i passanti aspettavano il loro verde per poter attraversare.. i loro ombrelli erano zuppi e la strada piena di pozzanghere… pioveva… e le gocce bagnavano il vetro… 
Proprio come quando lei piangeva…
 
 
 
 
…Molto tempo fa…
 
 
 
Ero seduto alla panchina della fermata di un autobus urbano. Ero sceso da poco ed aspettavo che arrivasse la persona che dovevo incontrare. Erano da poco passate le 4 di pomeriggio, ma sembrava sera poiché le nuvole erano talmente scure da non far passare il sole. “Sicuramente verrà a piovere” pensai, mentre volgevo lo sguardo al cielo. Alle mie spalle c’era la villa comunale e si sentiva la gente chiacchierare allegramente mentre passeggiava. Avevo imparato a conoscere Benevento da poco. Da quando mi ero trasferito in quella scuola. E lì avevo fatto nuove amicizie. Si sa… negli anni del liceo si fanno le amicizie migliori. Quelle che ti accompagnano per un bel pezzo di vita e non ti mollano più. Certe volte però, quelle amicizie non provengono dalla scuola in cui hai passato gli anni migliori ma si accodano alle altre, arricchendo la lista delle persone su cui poter contare.
Il mio telefono squillò.
Sms
“scusa il ritardo… sto per arrivare… ciao”
Staccai lo sguardo dallo schermo del mio piccolo 6600 tutto colorato di nero. Tornai a fissare le macchine con l’occhio di chi cerca qualcosa. Non sapevo come sarebbe arrivata e non sapevo nemmeno da dove.
Guardai a destra e sinistra seguendo la scia degli autobus. Le macchine scorrevano lente incastrandosi come pezzi di puzzle in una via multicolore. Una goccia mi colpì il dorso della mano. Mi asciugai con un lembo del giubbotto. Alcuni pensieri attraversarono la mia mente come un treno in corsa. Pensieri tristi e malinconici che solo una goccia di pioggia avrebbe potuto scatenare. Mentivo… mentivo a me stesso per sentirmi bene e speravo che un giorno tutte le cose si sarebbero sistemate. Perché? Quando? Dove mi avrebbe portato quella strada che avevo intrapreso? Chiusi gli occhi per un istante cercando di dimenticare. Ma nemmeno il buio poté contrastare l’assordante rumore dei miei problemi. Di solito avevo un metodo per risollevarmi un po’ da qualche casino in cui ero immischiato. Guardavo il tutto con un’ottica di una persona esterna. Alienandomi dalle situazioni spiacevoli e dalle complicazioni… e ridendone a volte. Passavo intere serate con la mente sgombra… vivendo giorno per giorno… attimo per attimo. Ma quando il tutto toccava di nuovo quota zero, allora si che entravano i casini. Mi richiudevo in me stesso lasciando che la vita bussasse alla porta che raramente aprivo. Aspettavo che la persona giusta entrasse. Ma si sa… le persone giuste… sono difficili a trovarsi.
 
Toc toc
 
Una mano leggera bussò alla mia spalla. Mi girai di scatto e vidi Sara in tutto il suo splendore.
– Scusami per il ritardo… – disse, come colpevole di qualcosa di grave.
Si sedette vicino a me, su quella panchina di una fermata di un autobus urbano.
Si sistemò la gonna e si mise più comoda.
– Allora? Come mai da queste parti Ciro? –
– Avevo voglia di farmi un giro… –
– Tutto bene? – mi chiese con una voce seria. Ed io, nel mio solito giro di menzogne, dissi anche a lei che andava tutto bene. Ma Sara era una ragazza diversa. Sara non ci credeva. Sara sapeva già tutto anche solo dal mio sguardo. E mi guardò negli occhi mentre le dicevo che andava tutto bene.
La mandò giù, almeno per il momento e sdrammatizzò. – Dai facciamoci un giro… – mi disse, perché erano le sole parole che in quel momento volevo sentirmi dire.
– Tutto bene a te? – le chiesi.
– Bè… mica poi tanto… Sto riflettendo un po’ su questa storia… con il mio ragazzo… –
– Già… è proprio il momento adatto per parlare di storie d’amore… – Le dissi fingendo di grattarmi la testa.
Lei sorrise…  – Non navighiamo in belle acque! –
– Le acque non sono un problema… è il vento… la tempesta… i fulmini che ti cascano sulla testa all’improvviso da tutte le parti… –
Sara sapeva dove volevo arrivare. Aveva visto molte volte i miei occhi dissolversi nel vuoto alla ricerca di qualcosa di vago e profondo. Come in quel momento. Avevo dentro di me un fiume in piena che aveva voglia di uscire… di sfondare ogni cosa… tutto e tutti e liberare il mio essere dall’ostile peso che avevo sul cuore. Ma nella bocca c’era qualcosa che mi bloccava. Come un tappo messo in gola da qualcuno d’ignoto che non mi permetteva di sfogarmi liberamente. Era l’esperienza che mi bloccava… era l’esperienza di brutte amicizie e di persone non troppo fidate a cui ho confidato preziosi segreti. Pentendomi. Ma Sara non era così… e ne ero ben cosciente. Dovevo solo convincere il mio istinto a fidarsi di lei.
 
Percorremmo il corso principale. Qualche gocciolina di pioggia si sentiva qua e là senza dare troppo fastidio. Avevo indosso il mio giubbotto che mi proteggeva e mi teneva al caldo mentre lei, solo a guardarla, mi faceva venire i brividi di freddo.
– Non senti freddo? – Le chiesi
– Na… per niente… – (attimo di silenzio)
– Scherzavo! Sto morendo di freddo! Ho fatto male ad uscire così leggera. – disse sfregandosi le braccia.
Così mi tolsi il giubbotto e glielo offrii. Sotto, avevo una di quelle felpe con il cappuccio che mi avrebbe riscaldato ugualmente. Lei non lo accettò subito ma sfiorando il mio caldo giubbotto cambiò idea e disse.
– Ok… ma te lo ridò subito! –
Adoravo la sua sincerità. Adoravo il fatto che non sapeva mentire. Era una ragazza che all’apparenza sembrava una delle tante. Ma la sua parte nascosta, la sua indole, il suo carattere, erano cose preziose che solo poche avevano.
Giungemmo al nostro posto. Nostro… per modo di dire. Era una panchina che ci piaceva parecchio. Circondata da palazzi ma immersa nel verde… seminascosta da sguardi indiscreti. Un posto ideale quando hai voglia di parlare con qualcuno.
– Allora? Come mai è così tanto che non ti fai sentire? –
– Ho il telefono fuori uso… –
– Smettila… ora fai il serio! Dai… so che c’è qualcosa che non va… –
– Lo sai? E come lo sai? –
– Dal tuo odore… puzzi di “qualcosa che non va”! –
Ridemmo…
Una cosa era certa: “era la migliore… a saper sdrammatizzare…”
 
E tra una cosa e l’altra partì il mio racconto. Lei stava ad ascoltarmi silenziosa aspettando impaziente il suo momento. Le raccontai della storia con Erika e della sua inevitabile fine. Le raccontai dei miei genitori, delle guerre in casa e fuori… e le parlai della scuola dicendole:
– …l’ho lasciata… –
Lei sgranò gli occhi in modo eccessivo come se le avessi annunciato la morte di qualcuno. Ma subito si riprese e balbettando impercettibilmente disse:
– I tuoi lo sanno? –
– Certo che non lo sanno… continuo a mentirgli… –
E lei capì… non chiese come mai e perché si fanno certe cose. Si fanno e basta… è un misto di eventi che ti portano a una conseguenza irreparabile. Risalire al principio, percorrendo a ritroso un cammino sbagliato, non è una buona scelta per risolvere il problema. È solo una pugnalata in più al cuore e forse non una, ma due, tre, quattro… fino a quando non senti un peso sul collo che risale velocemente verso il centro della fronte… e da lì scende giù… sotto forma di lacrime. E in quel momento… non puoi proprio più fermarti.
L’ho voluto dire lo stesso a Sara… anche se lei non me lo chiese esplicitamente. Volevo che almeno lei fosse a conoscenza del peso che avevo addosso. Forse sbagliavo, perché vedevo il suo volto assorbire le mie parole e farsi pian piano più triste.
Feci un sospiro..
Tirai i piedi sulla panchina… abbracciai le gambe e poggiai la testa sulle ginocchia.
– C’è stato un tempo in cui credevo… – le dissi.. – …che le cose sarebbero andate per il verso giusto… –
E lì non resse più…
 
Una lacrima scese dai suoi occhi..
piccola e leggera percorse tutto il viso…
il suo sguardo era mutato…
non so se aveva compassione di me o cosa..
so solo… che mi sentivo colpevole…
 
 
 

Un amore ghiacciato…

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“…perché c’era una sorta di magia nei suoi occhi…
…quella magia che mi aveva fatto innamorare…
…ed ora era lì…
…che danzava inesperta sul ghiaccio…”

Ore 12
Avevo da prendere un treno per Lodi e non dovevo fare tardi, ma soprattutto, non dovevo dimenticarmene. A volte mi succede di distrarre un po’ troppo la mia attenzione vagando nel vuoto dei pensieri. Ok… dov’ero rimasto? Ah sì. Come dicevo, dovevo prepararmi. Maglietta, jeans, scarpe, una pettinata ai capelli, profumo. E invece ero ancora sul letto ad oziare beatamente. Fino a che non mi feci coraggio e spensi la tv.
Ok… si parte!
Il cielo era grigio e tirava un leggero venticello che faceva sentire perfettamente che eravamo all’11 dicembre. Potevo portarmi i guanti, ma le tasche servivano solo a metterci le  chiavi di casa e il resto del caffè. Così, leggermente infreddolito, aspettavo il mio treno alla solita stazione… ed anche al solito binario… con persone indifferenti e annunciatori distratti.
“Il treno per Verona è in ritardo di 48 ore.”
Poveri passeggeri. Mai affidare il proprio sedere a Trenitalia. Perché sanno fin troppo bene cosa farsene!
Beh, menomale che il mio treno era diretto in tutt’altra direzione. Ammesso che arrivasse.
Arrivò.
Nell’attesa, rivolsi il mio sguardo a ciò che mi proponeva il finestrino. Il mio Ipod vagava in modalità casuale tra le sue innumerevoli canzoni. Ogni tanto chiudevo gli occhi, convinto che forse quella bellezza non esisteva. La bellezza della vita. La bellezza della natura.
Pensavo alle complicazioni che avvenivano sempre in momenti sbagliati. In cui desideri un attimo infinitesimo di stabilità mentre tutto il mondo ti avvolge. E ti chiudi in te stesso per avere un senso di protezione irrisorio regalato dal chiassoso silenzio del gongolio del treno.

Ero arrivato e aspettavo la mia ragazza all’ingresso della stazione.
Eccola lì… in tutto il suo splendore.
– Che facciamo?..-
– Beh… non so… –
– Hai fame? –
– Si un po’… –
– Allora ci mangiamo qualcosa! E poi vediamo! –
– Ok! –
Entrammo in un bar e ci sedemmo a un tavolino. Finalmente eravamo un po’ al caldo. Lei aveva le mani ghiacciate così gliele strinsi cercando di riscaldarle.
Ordinammo dei panini. Due per me, uno per lei. Perché non avevo fame!
Conto… caffè… e passeggiata nella piazza centrale.
Guardavamo le vetrine.
Lei le scarpe…
Io i telefonini…
Lei i vestiti..
Io i manichini…

– Ahia! Dai! Ma è un manichino! –
– …di una donna! –
– Appunto! –
– Ahia! Ok ok… pace! –
Arrivammo al parchetto tra battute e schiaffi che volavano a destra e manca. Sopravvivendo entrambi senza troppi rimorsi ma con qualche sorrisetto furbetto ancora da calmare.
In lontananza si vedeva la pista da pattinaggio allestita all’aperto in mezzo alla piazza.
Non avevo mai pattinato in vita mia. Tutto quello che avevo fatto e che poteva somigliare al pattinaggio era sciare ed andare sui roller. Pesavo che fosse un misto tra i due con  qualcosa in più… ma non lo sapevo ancora…
E nemmeno lei…
– Pattiniamo? – le proposi.
– Dai… non so pattinare! –
– Nemmeno io! Impariamo! –
– Ma guarda quelle due come sono brave! Lo so già che cadrò e tu riderai! –
– Può darsi che cada prima io? No? –
E dopo vari convincimenti… ricatti e seduzioni di vario tipo, presi due biglietti e due paia di scarponi.
– Gli scarponi sono simili a quelli per gli sci… aspetta… quello devi metterlo lì… –
– So fare benissimo da sola! –
Non ci potevo fare niente, purtroppo me l’ero scelta testarda.
– Dai… lascia fare a me che ti aiuto. –

E un attimo dopo eravamo dentro. Io in mezzo alla pista, lei chiaramente attaccata al bordo come un bambino alla sua mamma.
Dopotutto era la sua prima volta. Quindi la lasciai un po’ tranquillizzare, anche perché le sue parole avevano una cattiva intonazione!
– Vattene via!! – mi rispondeva appena provavo ad avvicinarmi.
Dopo un po’ mi abituai ad avere ai piedi quei cosi. Bastava portare un po’ il peso in avanti e via… si scivolava da Dio. Con qualche incertezza riuscivo ad andare anche abbastanza veloce. Facevo il giro della pista e ritornavo da lei che aveva percorso solo un paio di metri.
– Dai…  prendimi la mano… e vieni via con me… –
E come nell’amore reale, un piccolo gesto di fiducia risvegliava i nostri cuori. Gli occhi erano impegnati a fissare il ghiaccio per il timore di cadere. Le nostre mani si tenevano l’una all’altra… sfiorandosi e stringendosi… allontanandosi per qualche istante per poi riprendersi e ritrovarsi. Era come un gioco. Come una sfida… e lei era bravissima, quasi meglio di me. Danzava, mentre la musica ci cullava e ci trasportava in questo girotondo di persone. Era stupendo pattinare insieme a lei. Abbracciandola e sorreggendola ogni volta che aveva bisogno. Punzecchiandola ogni tanto cercando di farla cadere. Guidandola… portarla vicino al bordo e baciarla… con le labbra che sapevano d’amore.
E la sera scendeva… mentre le luci ci tenevano compagnia… con la folla che ci osservava curiosa.

…In un giostra infinita…
…che girava in una sera di un amore ghiacciato…

Torno tra un momento… cerco un argomento…

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Sapete perché amo la vita? Per la sua imprevedibilità. Non si sa mai ciò che può succedere mentre stai comodamente seduto a giocare con la tua pallina preferita. Le persone cercano sempre di prevedere il futuro, ma nessuno ha la sfera di cristallo o la palla numero 8 delle risposte. Credo che non bisogna pensare al futuro… perché tutto può succedere… cose belle, ma anche cose brutte. Ciò che bisogna fare, è sperare in positivo lasciandosi alle spalle i brutti pensieri. Alcuni credono nel destino. Credono che tutto sia stabilito da una forza maggiore, e che nulla sia attribuito al caso. Credono che ogni momento della vita, sia pure il più imprevisto possibile, sia stato programmato da qualcuno… o qualcosa… o chicchessia…
Naa…
Per me la vita è come una pallina rossa. Non rotola mai nella direzione in cui vorresti. Non è lei a rincorrere te… ma tu a doverla assecondare correndole dietro per afferrarla. Anche se lei sale in un Eurostar diretto delle ore 10.
Può sembrare strano… ma la mia storia con lei, cominciò con un “No!”

(carrozza 7 di un treno diretto)

– No… Ciro… No…-
– Che succede? –
– No… no… no! –
– Ho fatto qualcosa che non dovevo? – dissi con aria furbesca.
– Non dovevi essere qui! –
– Non sei contenta che io sia qui? –
– No! Cioè… si… ma no! –

Sembrava confusa. Qualcosa l’aveva turbata… o per meglio dire, qualcuno. Qualcuno che non doveva essere lì, a quell’ora, su quel treno, a disturbare la lettura del suo Focus.

– Non dovevi! Ti avevo detto di non farlo! –
– Sbaglio o avevi detto: “non venire alla stazione di Napoli” e sottolineo Napoli. – dissi chiedendo conferma con la testa all’amica seduta affianco a lei.
– Si ma… –
– Ma! Ma! Primo: non credo che questa sia una stazione. Le stazioni di solito hanno tanti binari… questo ne ha uno solo e sembra muoversi… naa… non è una stazione… credo che sia un treno… Già! Sono sicuro che sia un treno! – dissi con aria ironica rivolgendomi ogni tanto all’amica che mi dava ragione.
– Quella credo che sia una stazione… – dissi indicando, fuori dal finestrino la stazione di Roma che da poco avevamo abbandonato.
– Ma credo che nemmeno quella sia la stazione di Napoli… quindi tecnicamente, non sono alla stazione di Napoli… e tu mi avevi detto di non venire alla stazione di Napoli centrale… quindi… non ho fatto niente di male! –
– Giusto… – disse l’amica rivolgendosi a Francesca.
Francesca era girata verso il finestrino e guardava fuori con aria quasi furibonda. Ogni tanto sbuffava per farmi percepire la sua irritazione. Aveva le braccia conserte come la piccola faccina che usava spesso su internet. Io ero seduto di fronte a lei. Ci separava solo il tavolino di quel lussuoso Eurostar che entrambi tenevamo aperto: io per appoggiare il mio Ipod e i miei occhiali da sole, lei il suo focus e il suo cellulare. L’amica, di nome Imma, appariva alquanto divertita nel vederci. Francesca ripeteva quasi a intermittenza un “no” secco e conciso. Io, invece, cercavo di cambiare discorso tentando di farle passare l’arrabbiatura. Sembravamo due acerrimi nemici che si odiavano a morte. Credo che se avesse avuto una mazza da baseball a portata di mano me l’avrebbe data diritto sulla testa. “Non sarei dovuto essere lì…” pensavo. Era passata mezz’ora e lei continuava a fare l’indifferente con me; a parlare con Imma facendo finta che non ci fossi; a fare azioni per ripicca e ripetere: “No! No! e No!”. Avevo fatto una cazzata e ora me ne stavo rendendo conto, e forse stavo anche rovinando un’amicizia. Così presi e me ne andai…

– Dove vai ora?! –
– Faccio un giro… vedo se su questo treno ci sono persone più simpatiche ed amichevoli… ciao! –
– Fai pure… – disse lei indifferente.
Così, spinto ancora di più dal suo atteggiamento, presi la mia borsa e mi diressi in fondo alla carrozza. Ero convinto di andarmene… mentre le porte scorrevoli si chiusero dietro di me.


Flashback:
Ciò che successe prima…
“Una mattinata particolare”

Spesso la vita ci spinge a fare cazzate. Azioni che per quanto studiate e progettate a dovere vengono sempre definite “irrazionali”.
Irrazionale.
Quanto amo questa parola. La vita per me è descritta a pieno da quel sostantivo. Un qualcosa che non si lascia ridurre entro gli schemi della ragione. Niente regole prestabilite… niente orbite in cui girare… niente di niente… È come il vento che corre nel cielo trasportando con se una piccola fogliolina appena staccata dal suo ramo.
La vita è fatta di difetti: problemi, caos, niente è perfetto. “Le vite nei film sono perfette” sosteneva qualcuno, ma nemmeno in quelle credevo più. Anche quelle erano imperfette… con momenti sbagliati su sfondi irreali. La vita è come una sfera su un piano tortuoso… Non saprai mai dove rotolerà.
Ops
“la mia pallina… dove cavolo è andata a finire?!”

Ero nella mia piccola stanzetta, intento a guardare fisso l’orologio con lo sguardo impaziente di chissà quale avvenimento. Facevo rimbalzare nell’aria la mia piccola pallina rossa riprendendola, poi, con l’altra mano. Ma qualcosa non andò, e quella piccola e impertinente pallina pazza mi scivolò dalle mani finendo chissà dove. Non riuscivo a trovala! Ero chino per terra a cercare sotto la scrivania pensando che fosse andata ad incastrarsi, come al solito, nei cavi dell’alimentazione del pc. Niente… non era lì. Chissà quale strano rimbalzo aveva preso. Guardai l’orologio. Mancavano tre minuti alle otto di mattina. Questo mi fece ricordare che ero terribilmente in ritardo. Tutto era pronto. Tutto era stato perfettamente programmato a dovere. Mancava solo lei… Quella maledetta pallina rossa!
– Ma dove cavolo sei?! – dissi ad alta voce non curante che qualcuno potesse sentirmi. E infatti…
– Ciro cosa cerchi? –
– Niente mamma… niente… solo quella maledetta pallina! –
– Ciro… è una pallina! –
– Si… questo lo sapevo… dimmi qualcosa che non so… –
– Ciro… io vado a lavoro… Torno per mezzogiorno… ciao… –
– Si si… ciao… ma dove cavolo è andata a finire! –
Mia madre chiuse la porta dietro di se con un aria alquanto sconcertata. Mio padre avrebbe detto sicuramente: “20 anni buttati sul pavimento”. Menomale che quella mattina era uscito presto e non l’avevo beccato in giro per questa manciata di stanze.
“Devo muovermi a trovarla! Non posso andarmene senza di lei!” Guardai un po’ più in là, in un posto impensabile dietro un angolo remoto. Era lì quella maledetta! La presi e la infilai al volo nella borsa. Chiusi e guardando la scrivania ricapitolai mentalmente gli oggetti che dovevo portarmi.
“Ipod? C’è… Cellulare? C’è… Portafoglio? C’è… della pallina non ne parliamo… e poi? Che mi manca? Ah! I Biglietti! Eccoli… tutto regolare… si parte!”

La mattinata era iniziata più movimentata del solito. Non facevo altro che correre a destra e sinistra della casa dalle sette e mezzo cercando di dare il meno possibile nell’occhio. I miei genitori non dovevano sapere del mio “piano” altrimenti avrebbero fatto troppe domande a cui non ero preparato a rispondere. Un po’ come ad un’interrogazione di geografia, se non sai dove si trova Varsavia è inutile girarci in torno, la maestra lo scoprirà. Ecco… io ero quell’alunno che quel giorno non aveva fatto bene i compiti e quindi era, per così dire, fuggito da “scuola”. Ma lasciando stare scuole e ramanzine, ero seduto alla fermata del pullman godendomi questo breve attimo di tranquillità.
Calma…
Respiravo…
Sentivo l’aria del mattino che mi entrava nei polmoni e che aveva quel gusto particolare che solo la tenera ora sapeva darmi. Silenzio… non passava nemmeno una macchina… tutto sembrava essersi fermato davanti a me… anche il vento aveva smesso di soffiare. Chiusi gli occhi e sentii le macchine che si avvicinavano in lontananza, il vento che mi accarezzava i capelli e il fischio di un treno che mi fece destare dai miei pensieri.
Il pullman era arrivato. Si aprirono le porte… salii.

Napoli (bambolina Torno tra un momento)

                                                                                                                          (Foto: Napoli)

Come sempre non mi sono mai fidato dei pullman. La loro puntualità è sempre stata, come posso dire, inesistente. A volte quando prendevo il mio Fbn per andare a scuola ero costretto a continue corse per evitare di rimanere intrappolato nella chiusura delle porte che quel maledetto vicepreside alias: “guardia svizzera del cavolo”, chiudeva sempre allo scoccare delle otto. Quella volta però, ero stato più furbo della società Metrocampanianordest, poiché avevo preso il pullman dell’ora prima così da arrivare puntuale alla partenza del treno che mi attendeva a Napoli. Secondo me, dovrebbero ritoccare tutti gli orari di arrivo visto che fanno puntualmente sempre ritardo. Ormai il traffico a Napoli era un dato di fatto. Non si poteva evitare… nemmeno i motorini ci riuscivano più! Misi da parte le autolinee e mi concentrai di più sui problemi del momento. Primo: fame. Ero uscito da casa così in fretta che non avevo avuto il tempo necessario per fregare l’ultima tazzina di caffè a mia madre. “Dannazione!”. Lo stomaco brontolava caffeina ed era passato troppo tempo dall’ultima dose. Dovevo rifornirmi… e si sa, alla stazione di Napoli, puoi rifornirti di ogni genere di cosa, ma per adesso bastava solo un cappuccino. Così mi diressi al bar sulla sinistra cercando di evitare i soliti passanti che ti chiedevano gli ultimi spiccioli per comprarsi il biglietto del treno. La macchina della polizia era parcheggiata al solito posto ed ogni volta mi chiedevo: “Cosa cavolo ci fa una macchina in una stazione?”. Mha… domanda svanita non appena vidi il poliziotto che mi guardava con aria sospetta. Così presi e tirai diritto.
“Ok… caffè preso e bottiglietta di tè comprata nel caso mi venisse sete sul treno. Ora cosa mi serve? Già! Un treno per Roma!”

Carrozza 8…
Carrozza 7…
Carrozza 6…
era quella che cercavo.
Avevo da poco fatto il biglietto. In tasca ne avevo già un altro. Era quello per il treno di ritorno da Roma. L’avevo prenotato su internet molto tempo prima.
– Permesso… permesso… permesso… posto 126… dovrebbe essere questo. –
Mi sedetti nell’ultimo posto vicino al finestrino. Di fronte a me c’era un’anziana signora dallo sguardo non molto intellettuale giustificato anche dal fatto che leggeva Visto. Sulla sinistra invece c’era un tizio distinto. Camicia con cravatta, ventiquattrore e telefono cellulare rigorosamente acceso e squillante. Doveva essere un avvocato da come parlava. Gli avvocati mi sono sempre stati simpatici. Perché cercano di contorcere la legge per cercare di tirarti fuori dai casini… ed io ne avrei avuti molti da proporgli. Affianco a me invece c’era il tipico napoletano. Maglietta giromanica, pantaloncini corti e corriere della sera usato come ventaglio. Faceva molto caldo. Non sapevo come facesse l’avvocato ad avere ancora addosso la cravatta. Il caldo sembrava non toccarlo proprio. Io, dopo aver osservato i miei coinquilini, mi misi comodo sprofondando nel seggiolino. Presi il mio ipod e superai la play list di Ligabue per andare a quella dei Dream Theater. In quel periodo, non sapevo bene il perché, ma ascoltavo solo canzoni di quel gruppo. C’era una canzone che mi piaceva particolarmente. “Pull me under” Stupenda… anche se in quello scompartimento c’era troppo poco spazio per saltare sui sediolini cantando a squarciagola. Quella canzone aveva una carica emotiva pazzesca.
“Ripassiamo un po’ il piano”. Presi il mio blocknote dove avevo annotato ogni cosa.
“Allora… Il suo treno parte alle 10 da Milano centrale e dovrebbe essere a Napoli verso le 4 e mezza. Ma dato che io a Napoli non dovrei esserci… A Roma dovrebbe arrivare alle 2 e mezza. Dovrei riuscire a farcela.” Avrei preso il treno su cui lei stava viaggiando alla stazione di Roma. Avevo già il biglietto con il posto prenotato nella sua stessa carrozza il più vicino possibile a lei. Tutto era stato semplice fino ad allora. Forse troppo…

Trrrrrrr
La vibrazione del mio cellulare iniziava a farsi sentire. Era arrivato un messaggio di Francesca che diceva che aveva qualche problema con il treno e che sarebbero partiti un’ora dopo. “Cavolo!” pensai. Le avevano fatto cambiare il treno, a lei e a tutti gli altri passeggeri. Era un casino! Un vero e proprio casino. Ora come facevo a trovarla? Il treno sarebbe stato lo stesso 9433 che avevo prenotato io? E quando sarebbe arrivato a Roma? “Dannazione! C’è sempre qualcosa che deve complicarmi la vita! Sempre! Ora cosa si fa?” Ricalcolo i tempi:

Milano 11.05
Bologna 12.47
Firenze 13.50
Roma 15.35
Napoli 17.30

Era leggermente in ritardo. Dovevo solo sperare che il treno fosse lo stesso. Non conoscevo la procedura di Trenitalia in certe occasioni. Speravo che avessero spostato tutti su un treno vuoto così da mantenere intatte le prenotazioni, i posti e il numero del treno. Altrimenti sarebbe diventata una vera e propria caccia al tesoro. E io non sono mai stato bravo a trovare le cose. Tantomeno le persone sui treni. E pensare che la stazione di Roma ha più di trenta binari. Dannazione… per il momento devo arrivare a Roma, poi si vedrà.

Roma (bambolina torno tra un momento)

Roma... Roma caput mundi… la mitica città di Nerone, Augusto, Cesare… La città del Colosseo… del foro romano… di San Pietro… di piazza di Spagna… dell’altare della patria… Chi non ha mai visto, almeno una volta, una di queste cose? Chi di voi non ha mai gettato una monetina nella stupenda fontana di Trevi? Chi non ha mai girato per le sue strade a fare compere? Beh, se non lo avete mai fatto, fatelo! E saprete perché l’Italia sia la meta più ambita di tutti i turisti. Quel giorno, anche io ero lì. E sembravo proprio un giovane turista spaesato in cerca d’informazioni. Ma le informazioni che cercavo non riguardavano statue o chiese. Avevo fatto migliaia di gite turistiche in quella città e di chiese ne avevo piene le scatole. In quel momento mi serviva sapere se quel treno sarebbe arrivato a Roma. Così chiesi al centro informazioni.

– Scusi… il treno 9433 per Napoli… mi sa dire a che ora arriverà? –
– Ha 70 minuti di ritardo… dovrebbe essere qui alle 15 e 40… se vuole ci sono un sacco di treni che partono prima. –
– Grazie… –
– Vuole rimborsare il biglietto? –
– No… a me serve quel treno… grazie lo stesso. –
L’addetto mi guardò con una faccia incuriosita. Avevo appena negato di volere il rimborso. Forse qualcuno di voi lo sa… è quasi impossibile ottenere il rimborso dei biglietti Trenitalia. Ogni volta trovano una scusa nuova. Ogni volta ti mandano in un’altra stazione. Ogni volta ti fanno spedire una lettera a Trenitalia con la richiesta, e tanti saluti, niente rimborso. Quanto li odio quando fanno così! Però devo spezzare una lancia in loro favore perché una volta mi hanno pagato l’albergo. Beh… è lunga storia.

Guardai l’orologio: “È l’una… ora cosa cavolo faccio qui fino alla quattro?”

 Treno (bambolina torno tra un momento)

Erano quasi le quattro. Il treno che attendevo da tempo, era da poco arrivato. Mi batteva il cuore. Avevo addosso un misto d’ansia e tremore che dovevo al più presto eliminare altrimenti avrei rovinato le cose. Ero impaziente. Le gambe mi tremavano. Non vedevo l’ora di salire su quel maledetto treno che finalmente era arrivato.
Le porte si aprirono. La gente scese. Ero già davanti alla mia carrozza. Cioè davanti alla sua. Non stavo più nella pelle. Dovevo salire! “Chi se ne frega della gente che scende… devo salire… ho aspettato fin troppo… devo salire..”
E salii…
Il treno era uno dei modelli nuovi di Trenitalia. Non l’avevo mai preso, eppure di viaggi me ne sono fatti parecchi seduto su questi seggiolini. Ma il mio pensiero era altrove. Camminavo piano lungo la carrozza cercando di intravedere quella ragazza con lo sguardo. Niente… non riuscivo a vederla. Scorrevo lentamente i posti a sedere.
66… 67… 55… 54…
Eccoli… 44 e 45. Erano i posti su cui erano sedute le due ragazze provenienti da Milano. Diedi un rapido sguardo ma ce n’era seduta soltanto una. Mi sedetti al mio posto che era dall’altro lato del corridoio. La ragazza aveva in mano un cellulare. Avrà avuto al massimo 16 anni a giudicare dai lineamenti del viso. Molto probabilmente era l’amica di Francesca. Ma lei non era lì. Perché non c’era? Forse avevo sbagliato qualcosa… Doveva essere lì! Il treno era quello… la carrozza la numero 7… e il posto il numero 44. Le mandai un messaggio e sentii la vibrazione di un cellulare tremare dall’altro lato del corridoio. Era lei… e quello era il suo cellulare, mi aveva detto il modello di quel Nokia in una delle nostre solite conversazioni. “Sarà molto probabilmente in bagno”. E così era… infatti vidi tornare una ragazza dal fondo del corridoio e sistemarsi vicino al finestrino facendo spostare la compagna. Sapevo che preferiva viaggiare vicino al finestrino. Tutto combaciava ora.
Era lei!
Vederla mi fece un effetto strano. Sapete… è strano parlare con una persona per quasi tre anni su internet e poi vedersela in carne ed ossa a poco più di due metri di distanza. Sembrava una ragazza comune. Ma la conoscevo a fondo. Conoscevo quasi ogni cosa di lei. Su internet infatti le persone si sentono più libere di dialogare. E io ci avevo parlato parecchio. La consideravo la mia amica più cara. Forse più di un’amica. Era molto strano… non so per quale legge fisica o chimica, ma noi due non avevamo mai litigato. Mai. Di solito quando acquisto abbastanza confidenza con una persona, la prima cosa che faccio è litigarci. Ma non lo faccio apposta. Capita sempre e a tutti una giornata no. E chi ti trovi davanti diventa molto spesso la vittima del tuo nervosismo. Lei però, capitò molte volte in quelle giornate e, non so come, ma se la cavò molto bene.
Non riuscivo ancora a crederci. Era lì. Quella piccola e ostinata ragazza era a meno di un passo da me. Era stupenda. Semplicemente stupenda. Mi chiedevo quanto ancora dovevo far durare quel gioco. Possibile che non mi avesse riconosciuto? Ammetto di non essere molto fotogenico, quindi dal vivo faccio tutto un altro effetto. “Forse avrà capito? Na… è lì che parla con la sua amica”. Mi venne un’idea. La pallina rossa! Quella imprevedibile pallina che mi ero portato dietro. È una pallina speciale… e solo poche persone lo sapevano. Così mi misi a giocare spingendola avanti e indietro sul tavolino. Lei mi guardava. Non la vedevo ma sentivo il suo sguardo addosso. Sospettava… e io non riuscivo a trattenermi dal sorridere. Non stavo più nella pelle. Volevo urlarle: “Si Francesca! Sono io!” ma aspettai. Lei intanto mi mandò un messaggio che fece vibrare il mio cellulare senza suoneria. Lei aspettava che io facessi la mia mossa, ossia prendere il cellulare e vedere il messaggio. Ma mi trattenni… fino a che non ce la feci più e mi girai verso di lei che, con uno sguardo trionfante, mi aveva scoperto.


“Tu e quella maledetta pallina rossa!”


Oramai non ci speravo più. La conoscevo. Era ostinata e orgogliosa quasi quanto me. “Non sarebbe venuta…”. Forse avevo fatto un errore a venire lì. Potevo risparmiarmi tutto questa trafila e stare dove “tecnicamente” sarei dovuto stare: a casa di Enzo a rilassarmi nella sua piscinetta. Mi sedetti per terra. Ero nello spazio tra le due carrozze. Quello in cui di solito si trovano i bagni. Infatti erano disposti proprio dietro di me e, a ritmo intermittente, arrivavano persone “bisognose”. Speravo che una di quelle persone fosse Francesca. Ma dopo 4 o 5 volte che mi giravo a vuoto allarmato dal rumore delle porte scorrevoli, persi le speranze e mi rassegnai. “Te l’ho detto Ciro… non sarebbe venuta…” La mia coscienza era più ostinata di me e continuava a ripetermi frasi del tipo “goditi la fine del viaggio” o “perché non sei andato da Enzo davvero?” Stavo cominciando a innervosirmi. Così presi la mia borsa. Volevo distrarmi un po’ e il Nintendo DS che stamattina avevo fregato a mio fratello faceva al caso mio. Un po’ di musica sarebbe stata meglio, ma non so per quale strana ragione avevo lasciato il mio ipod su quel maledetto tavolino a quel maledetto posto. Un messaggio:

“Ehi… torna qui…”

“Per sentire altri no? Per continuare a parlare a vanvera da solo? Per continuare ad essere ignorato? No grazie!” Ero nervoso. Terribilmente nervoso. E nemmeno il DS riusciva a calmarmi. “Devo tornare? Era questo che voleva veramente? Voleva me? Chi ero io? Un perfetto sconosciuto, conosciuto su internet che non aveva mai visto. Perché ero lì?”
“Perché le voglio bene” mi risposi, e un’anima di malinconia m’invase il cuore. Ma non sarei tornato lo stesso… Io le volevo bene… e gliel’avevo dimostrato arrivando fin lì, ora toccava a lei fare una decina di metri per dimostrare quello che valevo per il suo cuore. Intanto continuavano ad arrivare suoi messaggi. Voleva che ritornassi al mio posto… e io volevo che superasse il mio test… così continuai a giocare con il mio DS cercando disperatamente di superare quel livello di Burnout. Ma a metà della corsa, senti scendere sul mio volto due piccole mani che andarono a coprirmi gli occhi.
– No! c’ero quasi riuscito! – dissi dopo aver perso quella gara. Lei si mise davanti a me e mi chiuse lo schermo del Gameboy.
– Allora? –
– Allora… sono sessanta minuti… –
– Ciro… –
– So come mi chiamo! –
– No… no… e no… non dovevi… – continuava a ripetermi..
– Uffa! Sei venuta qui per ripetermelo ancora? E che cavolo! Si ok, ho fatto una cazzata va bene?! –
– No… è che… non puoi capire… –
– Già… io non posso capire… già… non capisco tante cose… – dissi con un velo di alterazione.
– Ehi… – disse quasi sussurrandolo.
E lì… Ci guardammo negli occhi. I suoi erano stupendi. Non riuscivo quasi a reggere il suo sguardo. Erano così penetranti e carichi di sentimento che potevano comunicare anche senza le parole. Come si poteva dire di no a degli occhi così? Come si poteva essere arrabbiati con una ragazza così? Era lì, seduta di fronte a me, con uno sguardo pentito di come aveva dato inizio a quell’incontro. Ed io lo percepivo. L’avevo capito già da un pezzo, leggendo i messaggi che mi aveva inviato. Voleva discolparsi… anche se non ce n’era bisogno. L’avevo già perdonata.
– …È stata una giornata stressante… Mi sono fatta male a un piede… il treno che fa ritardo… Ho sonno e fame… E all’improvviso sbuchi tu… Beh… mi hai lasciata scioccata… non me l’aspettavo… per questo ho reagito così… scusa… –
Era pentita. Aveva il viso oscurato da quello che aveva appena detto. L’abbracciai. Era la prima volta che lo facevo. E sentii il cuore battere più forte. Stavo abbracciando la ragazzina a cui avevo dedicato gran parte del mio tempo, raccontandole le assurde storie della mia vita. Quasi non ci credevo. E pensare che parlavamo da quasi tre anni. Assurdo… quasi impensabile. Ci conoscevamo così bene eppure non avevo mai avuto modo di abbracciarla… di sentirla. Era un angelo… Un piccolo angioletto… caduto dal cielo per finire tra le mie braccia.
– Sei arrabbiato? –
– E perché dovrei esserlo? N’è valsa la pena… l’avrei fatto anche solo per stare cinque minuti con te… –

L’avrei fatto lo stesso… perché volevo bene a quella dolce bambina che aveva emozionato quella giornata… e un po’ la mia vita…

“E certe volte…
quando cerchi di vedere il mare e non ci riesci…
forse…
quel mare…
potrebbe essere proprio dietro di te…”

per te…

bambolina.

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