Calabria Coast to Coast 2016 #16

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Dopo il caldo torrido della costa, decidiamo di fare tappa nel centro di questa bella regione. Dal coordinamento apprendiamo che ci sarà un notevole sbalzo di temperatura dai circa 33° ai 18. Quindi, dopo aver fatto rifornimento di vestiti primaverili, ci dirigiamo verso il parco Nazionale della Sila.

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Incantevole…

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Arrivederci Sila!

Calabria Coast to Coast 2016 #10

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Dopo pochi chilometri ci fermiamo a Roccella Ionica, per la nostra tappa serale.

Parcheggiamo e ci dirigiamo subito verso il famoso castello medioevale di roccella..

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ma dopo una luuuuunga camminata… troviamo il castello CHIUSO!

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Beh… ci accontentiamo della vista sul golfo… e riscendiamo dalla collinetta.

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Dopo un paio di pizze e qualche arancino…
riprendiamo il viaggio sulla statale 106 verso la prossima tappa.

Arrivederci Roccella!

Calabria Coast to Coast 2016 #1

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Ed eccoci qua… alla fine di questo strano viaggio che mi ha portato in giro per la Calabria ad ammirare le sue bellezze.
Ora è il momento di riorganizzare le idee e raccogliere i ricordi prima che si perdano…
Qui… in questo mio interminabile diario…
Buon viaggio tra le mie parole… le mie foto… e i miei video….

 

 

(a domani ore 10)

Corsi e Ricorsi Storici (II)

Corsi e ricorsi storici 2

(Foto personale)

Inizio:

“12 minuti, bene!”
Ero disteso sul piumone bordeaux che fasciava il letto da testa a coda. Un cuscino rosso mi teneva la testa leggermente inclinata per osservare meglio il libretto di Sudoku. Con una matita dalla grana pesante incasellavo numeri cercando di non sbagliare. Un orologio sul comodino teneva il tempo dell’esercizio. Era da un po’ di tempo che non m’appagava più la semplice risoluzione, la sfida del momento era finire nel minor tempo possibile.
Incasellare numeri in croci e quadri in rapida successione, per quanto posso essere difficile comprenderlo, risultava rilassante per le mie meningi. Sgombravo, per qualche minuto, la mente dallo stressante e ansioso studio dell’economia. La matita scorreva veloce. Alternava numeri grossi e sicuri, come se fossero fieri di occupare una casella di proprietà; a numeri piccoli e incerti, spesso in coppia, che litigavano ardentemente per il proprio posto. Avevo quasi ultimato il mio Sudoku. Diedi un’occhiata all’orologio. “10minuti, posso farcela”
Ma proprio mentre stavo per incastrare il penultimo numero, il cellulare vibrò, avvertendomi della presenza di un messaggio. La curiosità crebbe. Feci di tutto per riportare la mia concentrazione sul libretto ma i miei occhi scattavano a destra e sinistra percorrendo l’orologio, il cellulare per poi ritornare al Sudoku.
“Chi era?”
“11 minuti”
“Devo finire!”
“8 o 9?”
“E se è importante?”
“12 minuti!”
“il 7 c’è già!”
“13 minuti!”
“Cavolo! Non ce l’ho fatta!”

Mi alzai rapidamente dal letto e raggiunsi il tavolo in legno chiaro dove il mio cellulare era appoggiato. Mentre componevo il pin dello sblocco, sperai vivamente che non fosse il solito messaggio pubblicitario della palestra che m’invitava ad iscrivermi per non toppare la prossima prova costume. In caso affermativo avrei di certo spento il telefono per sempre! (Detto da uno che ha un principio di attacco di panico al solo riavvio)
Fortunatamente, non era la palestra ma un incomprensibile messaggio di un altrettanto incomprensibile amica.
Annalisa:
Ciro! Stasera aperitivo da Lia! Ore 9!
Porta qualcosa! Ciao!
Gironzolai per la stanza con aria dubbiosa. Era tipico di Anna uscirsene con questi messaggi improvvisi. Erano come palloncini pieni d’acqua che si schiantavano contro il muro della mia mente iperprogrammmatica. Mi sedetti sul letto a riflettere.
“Sono le 8, l’aperitivo è alle 9. Dovrei farmi una doccia, vestirmi, inventarmi qualcosa da portare e andare a… dove? Dove caspita abita Lia?”
Trafugai come una casalinga isterica ogni cassetto della mia memoria alla ricerca di quel benedetto indirizzo. Riuscii a trovare solo una via e una fermata della metro 1. Non potevo affidarmi a un vago ricordo, così composi il numero di Annalisa per chiederle le informazioni che mi servivano.
Purtroppo, il secondo difetto di quell’eccentrica ragazza, (secondo solo in questa trattazione) era l’ossessiva fobia di diventare cellulare-dipendente, quindi, onde evitar ciò, abbandonava spesso il telefono in posti remoti della casa, dimenticandosene del tutto.
Dopo circa venti chiamate a vuoto, decisi di desistere. Non avrebbe risposo… o almeno non in tempo. Optai per la doccia. Mi vestii e afferrai una bottiglia di Baileys, conservata in ripostiglio per le grandi occasioni. Nel tragitto dal portone di casa al portone d’ingresso del palazzo, provai a chiamare ancora Annalisa, senza però riuscire a sentire la sua voce nasale.

Con la metropolitana arrivai a una fermata della metro rossa che ricordavo esser quella più vicina alla casa di Lia. Mi guardai intorno cercando di ricordare che forma avesse il palazzo della mia amica. Non ne ricavai niente, quando a un tratto, scorsi tra i passanti il volto noto dell’ex coinquilina di Annalisa. Eleonora. Mi avvicinai a lei che subito mi sorrise riconoscendomi.

– Ciao Ele! Non dirmi che ti ha invitato quella sciagurata di Annalisa?! –
– Proprio così! –
– E dimmi… a te l’ha detto dov’è questa festa? –
– Bo… il palazzo dovrebbe essere questo. –
– Mmm… bene! –

continua…

Weekend finanziario (VI)

Weekend Finanziario 6

Una delle ragazze di quella sera credeva fossi un modello! Mah…

Ultimo giorno, mattina della partenza

Oltrepassata la robusta porta in legno di ciliegio, sigillata da una chiusura a chiave magnetica, si entrava in una delle stanze del quinto piano, vista mare, di un mediocre albergo Riminese. Per terra, sulla moquette blu notte a pois dorati, c’erano disseminati una miriade di capi d’abbigliamento stropicciati in un susseguirsi continuo fino ai piedi del letto. Una scarpa destra, con ancora i lacci legati in un classico e inconfondibile doppio nodo faceva la guardia all’ingresso, sperando di rivedere, prima o poi, la sua gemella sinistra. Subito dopo, antistante la porta del bagno, un giubbotto di pelle nero era adagiato a terra. Girato di spalle e con le maniche allungate, sembrava un soldato morto sul campo. Più avanti, tra un calzino e una maglietta si arrivava al letto, da cui sbucava, dal lato sbagliato, un piede nudo. Un ragazzo dormiva scompostamente lungo la diagonale di un letto matrimoniale. Percorrendo tutta la sua figura inanimata, si potevano confrontare i pezzi del puzzle di vestiti che non erano sulla moquette in modo da ricostruire l’abbigliamento originale. Tutto sembrava tranquillo, fino a quando, l’indice della mano sinistra non emise una sorta di breve tic

Ero in un luogo buio, con musica assillante e luci intermittenti. Seduto su un divanetto, conversavo con diversi ragazzi di assurde politiche economiche. In una mano avevo un cocktails e con l’altra carezzavo la pelle bianca del divanetto a due posti. Stranamente però, non sentivo la liscia consistenza della pelle sotto le dita. Al contrario, percepivo una sensazione di ruvidezza, come se la pelle fosse in realtà stoffa. Continuai a giocare con la mano sul bracciolo, isolandomi dal resto della scena. Non riuscivo a comprendere la strana alterazione sensoriale tra vista e tatto fino a quando il mio dito non incontrò un disegno in rilievo che, sul divanetto in pelle bianca dell’oscuro locale, non c’era.
Fu allora che aprii gli occhi e vidi la mia mano sinistra che strusciava sul copriletto del materasso matrimoniale della mia camera d’albergo. Lentamente continuai a delineare i bordi del fiore disegnato sulla stoffa per ristabilire il connubio tra vista e tatto.
“Era un sogno” pensai, poi sopraggiunse il mal di testa e il sogno non fu più una spiegazione plausibile.
Mi alzai, mettendomi a sedere. Mi resi conto di essere ancora, stranamente, vestito. Metà dei quali però, erano sul pavimento. “Cosa diavolo è successo?”. Tolsi l’unica scarpa che avevo per liberare l’altro piede ancora imprigionato dal mio classico doppio nodo. Mi spogliai completamente dai vestiti sgualciti e li buttai per terra insieme con gli altri. Passai davanti allo specchio a muro della camera. Volevo controllare se era tutto al proprio posto, poi mi buttai sotto la doccia.

Uscii dal bagno ancora tutto gocciolante, con un asciugamano bianco legato in vita. Con un altro asciugamano mi frizionavo i capelli umidi finché il mio sguardo non fini su un piccolo pezzo di carta sul comodino. Qualcuno aveva scritto qualcosa a penna e l’aveva lasciato lì, in bella mostra. Lo presi con le mani ancora umide e notai che era lo stesso bigliettino che mi aveva dato il tassista la sera prima e che io avevo conservato nel portafoglio. Lo lessi:

“Fantastica serata Ciro,
La prossima volta meno alcol però eh!
Ti abbiamo riportato noi in albergo…
Chissà! Ci si rincontrerà prima o poi!
Addio!”
Incredulo lessi e rilessi ancora quel bigliettino. “Chi cavolo sono questi?! E cosa cavolo ho fatto ieri sera?!” I miei pensieri non si davano pace alla ricerca di una risposta. “Come hanno fatto a riportarmi qui?”. Guardai sul comodino e vidi la chiave magnetica della mia camera con su scritto il nome del mio hotel. “Sicuramente usando quella…” pensai.
Guardai l’orologio e capii che non avevo tempo da dedicare alla ricerca dei ricordi perduti. Di lì a breve avrei avuto un treno che mi avrebbe riportato a Milano. Dovevo sbrigarmi per non perderlo. Mi rivestii in fretta e preparai la valigia. Fortunatamente non mancava niente. Quei ragazzi che mi avevano accompagnato, dovevano essere dei bravi ragazzi. Diedi un ultimo sguardo alla stanza e scesi nella Hall.
Alla reception c’era una ragazza dai capelli bordò. Mi diede un’occhiata mentre m’avvicinavo e mi face un sorrisino. Di solito, i receptionist sono sempre a conoscenza di ogni cosa avvenga nel proprio albergo. Ce l’hanno nel codice genetico come le portinaie o i barbieri. Ero tentato dal chiederle qualche notizia su ieri sera. Ma, a guardare quei dolci occhi maliziosi, mi vergognavo miseramente a chiederle come dei tizi sconosciuti mi avessero trascinato in camera la notte prima. Sicuramente avrà visto, se non lei, qualche collega. Pagai. Mi rifilò il resto condito dal solito sorrisino. Uscii dall’hotel con metà della coda tra le gambe. Per qualche strana e insulsa ragione malinconica, preferii fare a piedi il tragitto fino alla stazione, invece di prendere il taxi.

Venne a piovere come se non ci fosse stato più un domani.
Corsi per ripararmi sotto un balcone. La stazione era a pochi metri ma non potevo superare la colonna d’acqua che veniva dal cielo. Osservai Rimini… la fantastica città teatro di mille avventure. Solo e stanco mi appoggiai al mio trolley con l’acqua che veniva giù a pochi centimetri dal mio naso. Dal balcone sopra di me sembrava che ci fosse una cascata che veniva giù da chissà dove. Vedevo l’immagine della stazione come attraverso una gigantesca bottiglia di vetro trasparente. Ombre e bordi sfocati. Passanti anonimi. Vento… Mi sentivo impotente davanti a quell’onda invisibile di ricordi che mi stava travolgendo. Vedevo dinanzi a me il piccolo Ciro diciassettenne che, con la sua cartella Seven, usciva dalla stazione di Rimini. Tutto era sfocato… proprio come il ricordo… proprio come la pioggia. Il mio volto sorridente nel rincorrere i miei amici più grandi che mi avevano trascinato con loro in una magica vacanza. In testa nessun pensiero e sulle spalle chili di alcol… Sorrisi. Pantaloni larghi, canotta… il caldo asfissiante di quei giorni. In testa mille ragazze. Molte sbagliate… molte sofferte. Delusione. Osservavo il mio alter ego fantastico camminare a stento. Le scarpe erano di una misura più grande e a volte inciampavo nei gradini. I miei amici attendevano al di là del marciapiede. Avevo paura di attraversare la strada con quel pesantissimo zaino. Guardai a destra e poi a sinistra proprio nella mia direzione… ci fissammo. Io e il ricordo di me. Sotto la pioggia, dietro un muro d’acqua trasparente.
E il ricordo svanì…
Come la pioggia che si dissolse…
Uscii dal mio riparo e camminai verso la stazione.

Guardai un attimo la lunga via che portava diritta al mare.
Cos’è successo? Dove son finiti i miei sogni?
Tutti rotti…
Solo uno son certo di averlo realizzato:
Veder spuntare l’alba sul mare di Rimini…

Perché gli altri ho smesso di realizzarli?

Fine

##9

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9.

Stress. Mal di testa a chiazze e vene gonfie sul collo. Non ne potevo più. Chiusi il libro… silenzio. In casa non si sentivano rumori. Una mia coinquilina era partita per Roma mentre l’altra stava ancora dormendo. Guardai le pareti e i miei poster mi fecero notare la mia solitudine e i miei scarsi rapporti sociali di quel periodo. Colpa tua! Pensai mentre guardavo la copertina del libro. Mi stava tenendo incollato su quella sedia da giorni e più andavo avanti e più i giorni sembravano pochi. Guardai l’orologio e pensai che non avevo ancora fatto colazione…
Scesi in strada dopo aver salutato la mia gentile portinaia e aver gentilmente mantenuto la porta ad una vecchietta che stava entrando. Colmata la mia dose di buone azioni mi diressi verso il bar. Scansavo la fiumana di studenti che a sgoccioli procedevano verso il politecnico. Alcuni avevano facce felici… altri un po’ meno. Alcuni portavano grosse cartelline e altri un malloppo di libri in mano.
Ah! La vita da studente… quale strano mondo!
In preda alle mie divagazioni, non feci caso ad un ragazzo che mi salutò con la mano. Misi a fuoco e riconobbi Andrea, l’ex ragazzo della mia ex coinquilina, che non vedevo da secoli. Andava nella mia stessa direzione, con la mia stessa voglia.
– Ciao Andrea! –
– Ciao Ciro… –
Entrammo nel Bar ed entrambi salutammo Rocco. Lui lo conosceva meglio di me perché erano anni che lavorava nella pizzeria di fronte. Rocco mi guardò indeciso sul da farsi. Erano un po’ di giorni che alternavo tra caffè e cappuccino rompendo i suoi schemi.
– Cappuccio… e un brioches alla marmellata. –
Andrea mi guardò. – Allora come va? – mi chiese.
– Mah… sostanzialmente bene… sto studiando in questo periodo… –
– Spero che vadano bene gli esami… – disse mentre arrivarono i nostri cappuccini.
– Perché non ci sediamo al tavolino? – aggiunse guardandosi alle spalle.
– Certo… mi siedo sempre qui la mattina. – dissi con un pizzico esultanza.
Diedi un morso al mio cornetto. Come al solito mi girava in testa la domanda se fosse buona educazione o meno inzupparlo nel cappuccino. Un prassi normale quando ero da solo, ma quando avevo qualcuno che mi osservava non sapevo come comportarmi.
– Quando hai le ferie? – gli chiesi.
– Veramente ho già dato… sono stato a Miami due settimane. –
Lo guardai negli occhi desideroso di sapere qualche dettaglio in più. Lui mi accontentò. Mi raccontò del suo viaggio e delle città che aveva visitato.
Lo ascoltavo cercando d’immaginarmi la vita oltre i confini di questo paese. Difficilmente, dato che non ero mai stato all’estero.
– …e poi abbiamo affittato anche una macchina… –
– Bello… dev’essere stato stupendo girare la Florida in macchina… –
Di solito non invidio mai nessuno… ma lì, di fronte a quella storia, ammetto che peccai.
Ci alzammo e Andrea buttò una banconota da 10 sul banco. Fece segno a Rocco di pagare entrambe le consumazioni, nonostante il mio diniego.
– Però la prossima volta offro io! – gli dissi.
– Non ti preoccupare… –
Ci stringemmo le mani e prendemmo vie diverse.
Lui al lavoro, io allo studio…

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Si va in scena!

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Si accendono i riflettori.

La scena è ben inquadrata. Un leggero walzer domina il silenzio. La penombra e la foschia curano l’ambientazione di questo teatro deserto. Le poltroncine sono tutte vuote, ad eccezione di una. Una soltanto a circa metà della sala. C’è seduto un ragazzo. In mano ha un block-notes tutto spiegazzato. Lo poggia con non curanza sulle gambe accavallate.

Scrive..

La penna scorre veloce e sicura. Le parole sembrano conoscere alla perfezione il presente e il passato.

Si ferma..

Il foglio resta bianco a metà. Ha gli occhi fissi sul palco. Sembra aspettare qualcosa. Gioca con la penna. Lentamente la fa girare tra un dito e l’altro. Impaziente aspetta, mentre nella mente scorrono i pensieri.

Vita.. corse.. viaggi.. posti finestrino.. candele.. biglietti.. multe.. colori.. strade.. luci.

Sentirsi padroni della vita è una cosa fantastica. Ma sentirsi padroni di poterla raccontare lo è ancora di più. Era questo il potere che aveva nelle mani quel ragazzo.

Una semplice biro dall’inchiostro nero.

Una bacchetta magica che permette di ricordare il passato. Di fissare i ricordi.. di riempire fogli e quaderni.. pagine e lettere.. e piangere e ridere di storie ormai andate.

Ma tutto ciò doveva ancora avvenire.

Quella penna era ferma sul foglio bianco.

La storia da scrivere doveva ancora iniziare..

Si spalanca il sipario e una forte luce inonda la sala.  Si va in scena…

 


Atto I

29 aprile. “farei di tutto per te”

 

Eravamo seduti comodamente al Barin a sorseggiare la nostra amata ceres old nine. Il sottoscritto giocava a far roteare il proprio anello sul tavolo. Proprio come quando ha qualcosa da dire. La mia ragazza era seduta accanto a me con la faccia un po’ triste mentre il mio braccio le passava intorno al collo.

-Cosa c’è piccola?-

-Niente… è che sto passando gli ultimi giorni da diciassettenne così.. volevo qualcosa.. qualcosa di più..-

La guardavo. Aveva ragione. Non ricordo nemmeno le innumerevoli pazzie che ho compiuto prima di diventare grande. Pazzie poi.. le solite marachelle che quasi ognuno di noi ha commesso in gioventù. Non credo di certo di essere speciale. Chi non si è mai fatto sequestrare il motorino.. o fatto le ore piccole quando non poteva.. o vagabondato senza meta in preda ai fiumi dell’alcol. Ora non venitemi a dire che siete tutti santarellini!

 

-Quindi domani sarai in viaggio?-

-Si.. domani mattina parto e vado a Napoli..-

-Piccola lo sai che se restavi qui ti organizzavo una cosa carina.. come faccio sempre..-

-Come fai sempre?.. cioè rovinare le cose carine con le tue solite battute?..-

(Dannato senso dell’umorismo).

 

E la storia era questa. La mia ragazza non sprizzava gioia nel sapere che avrebbe passato il giorno del suo diciottesimo a casa con i parenti. Voleva qualcosa di speciale. Una sorpresa. Come per esempio.. prendere l’aereo e scendere a Napoli senza che lei lo sapesse.. e comparire a casa sua. Magari con un mazzo di rose rosse…

 

-Ciro.. a che stai pensando?..-

-A domani.. (cavolo)..-

-Che fai domani?-

-Ehm.. mi alzerò tardi come al solito.. e forse mi metterò a studiare..-

Pericolo scampato. Stavo per mandare all’aria tutto il piano. Non potevo fallire. I biglietti dell’aereo mi aspettavano a casa. Nascosti a dovere.. il trolley pronto e il pc sempre carico.

 

Mi guardava..

Come per dire “vieni con me domani”. Mi voleva alla sua festa. La strinsi un po’ a me. Le carezzai la guancia. Sentivo l’odore dei suoi capelli.. della sua pelle. La sentivo calma e sicura tra le mie braccia.. proprio come un piccolo gattino con la coda pelucheosa.. direbbe lei. Vorrei tanto dirglielo. Vorrei vedere il sorriso dipinto sul suo volto. Vorrei dirle “ci sarò”.. e lei salterebbe in aria dalla felicità. Ma non ora… non adesso. La sorpresa deve ancora arrivare. Per il momento le nascosi un bigliettino nella borsa con su scritto..

 

“Farei di tutto per te…”

 


Atto II

30 aprile.. sui cieli d’Italia.

 

La sveglia non suonava. Il perché? Mancava ancora mezz’ora. Capita spesso che mi alzi mezz’ora prima che suoni la sveglia. Chissà perché. Forse il corpo inizia già ad accendere i motori prima che la sveglia devasti il sonno.. o forse era pura e semplice ansia da parto. (nel senso di partire ovviamente)

Bene.. cerchiamo di non perdere l’aereo.

Allora.. trolley.. notebook.. anello..

Entrai nello stanzino dove c’era l’appendiabiti. Sul lato sinistro c’erano tutti i miei cappotti appesi. C’era il cappotto lungo nero invernale, il cappotto imbottito in piuma d’oca, il giubbotto di jeans e infine lui… il mio vecchio cappotto di pelle, immancabile compagno di mille avventure. Decisi..

Voglio lui con me

 

Ecco.. questa è la mia vita..

Ci sono cose a cui sono molto affezionato. E quel dannato giubbotto è una di quelle. Ma ora non voglio divagare. Questa non è la sua storia.. questa non è la sua scena.

In scena invece c’era un aereo. Su quell’aereo c’ero io che guardavo dal finestrino il paesaggio lentamente avvicinarsi. Stavo per atterrare a Napoli..

Ad attendermi all’aeroporto c’erano i miei amici. Quei due vecchi scapestrati dall’aria intellettuale. Enzo e Mario.

Ero a Napoli.. Ma tecnicamente ero a Milano nel mio appartamento a cercare di abbattere la noia. La mia ragazza non doveva saperlo. Doveva sembrare tutto normale.

Mi chiamò.. e non potei risponderle. L’interfono era troppo forte per una scusa sulla televisione. Uscii dall’aeroporto.. salii in macchina e via.

Fine secondo atto.

 


 

Atto III

1° maggio.. la festa..

 

Ero a Napoli a casa dei parenti della mia ragazza accuratamente nascosto in una stanza. Spaesato e impaziente di incontrare la mia lei, vagavo intorno al tavolo. Il mazzo di rose l’avevo poggiato sul letto. Sul mio volto un leggero sorriso. Pensavo alla sorpresa che di li a poco stava per avvenire. Non se lo aspetterà mai. Mi conosce.. Egocentrico cinico bastardo, mi definirebbe. A volte non mi comporto nel migliore dei modi. E riconosco che lei davvero non se lo merita. Meriterebbe di meglio. Magari un ragazzo normale.. con i fiori sempre pronti e il cellulare sempre acceso.. che si fa sentire spesso e non soffre di “pigrizia da trasporto”. Povera.. non le ho nemmeno fatto gli auguri a mezzanotte. Anche se lei dovrebbe saperlo che non sono il tipo dagli auguri a mezzanotte. Ma questa non è una scusa. Sarà incazzata nera. Mi farò perdonare… come al solito.

Nella stanza c’era una finestra che dava sul cortile. Accostai un po’ l’anta. Si vedeva il vialetto da cui sarebbe arrivata.

Si fermò una macchina.

Eccola..

Scese..

Era bella nella sua semplicità. Sorrisi. Si avvicinò alla porta d’ingresso. E’ bella davvero pensai. Mi preparai.. presi il mazzo di rose rosse e mi avvicinai alla porta. Nell’altra sala sentii urlare “sorpresa”.

Bene. Fra poco sarà il mio momento. Eccola che arriva..

E uscii dalla porta…

Mi trovai davanti ai suoi occhi.

-E tu cosa ci fai qui?- restò scioccata dalla mia presenza. Cercava di capire se era un sogno o no. Cercava di capire se ero vero o no. Mi diede un bacio fugace. Una leggera lacrima le scese.

Era felice.. e questa volta c’entravo un po’ anche io.

 


 

Atto IV

il lungomare..

 

Il sole stava tramontando sul mare dipingendo il cielo con tonalità rossastre. Camminavamo mano nella mano sul lungomare di Napoli. In lontananza si vedeva il Castel dell’ovo. I nostri passi si avvicinavano a quell’immensa massa di storia medioevale. Il tempo sembrava che per una volta non avesse importanza. Potevamo finalmente guardare il sole tramontare insieme, senza guardare l’orologio. Di solito a quest’ora dovevo riaccompagnarla a casa.. con il solito treno e il solito pullman. Capitava raramente che potevamo goderci un momento insieme senza dover correre a destra e manca per Milano..

 

-Grazie di essere qui.. sembra un sogno..-

-In fondo non ho fatto niente piccola..-

-Sei venuto qui apposta per me..-

-Farei di tutto per te.. te l’ho scritto..-

-Si.. ho con me il tuo bigliettino.. eccolo..-

Me lo mostrò. Forse un po’ lo sospettava. Forse un po’ lo sognava..

I suoi occhi erano ancora lucidi. Il suo cuore batteva. E le onde s’infrangevano sugli scogli bianchi.

-Fermiamoci qui.. sediamoci sul muretto..-

Ci arrampicammo alla meglio sul muretto che costeggiava il lungomare. I nostri piedi ballavano nel vuoto.. e sotto di noi gli scogli. La veduta del mare era stupenda. L’abbracciai.

-E’ fantastico tutto ciò… sembra niente.. ma è stupendo..-

-Hai ragione..-

-E dire che tu avevi già i biglietti dell’aereo ed io non sapevo niente..-

-Sono molto bravo a nasconderti le cose!-

Mi diede uno schiaffetto sulla nuca.

-Scherzavo! Scherzavo!-

 

Un leggero venticello le ondeggiava i capelli. Era tra le mie braccia. Le carezzavo la fronte. Le sussurravo parole dolci all’orecchio mentre il sole continuava a volar giù.

Dietro di noi c’era un via vai di gente. Persone.. famiglie.. amici.. passanti e coppiette come noi che si tenevano la mano. C’era un po’ di tutto li.. un po’ di vita normale che faceva da sfondo al nostro piccolo e intenso sogno.

Eravamo noi..

Io e lei..

A sorridere dei guai che ci accompagnavano ogni giorno. A pensare e fantasticare a come sarà il domani. Il nostro domani.

 

-Guarda.. la Luna..-

-C’è anche lei qui con noi..-

 

La scenografia era fantastica.

Il mare dava il dolce suono delle onde che costantemente si abbattevano sotto di noi. Gli scogli bianchi ad attutire il colpo creavano un sottile retroscena. Il golfo di Napoli era una perfetta ambientazione per lo scorrere degli eventi. Il direttore di scena lissù s’era dato un gran bel da fare quest’oggi. Aveva curato le luci con le stelle.. dettagliato lo sfondo con le barche e aggiunto il particolare storico del castello. Non si può far niente.. “Lui” è un vero maniaco dei particolari. Dovrei ringraziarlo qualche volta.. Soprattutto ora che sembra tutto perfetto. Come quando lo immaginavamo stesi sul letto a romanticare.

 

La dolce voce del vento e la leggera luce della luna accompagnavano i nostri baci.  La mente, il corpo, e il cuore di entrambi avevano una sola direzione.

Toccare la dolcezza con un dito..

 

..Fine dell’ultimo atto..

 

 

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Il ragazzo nella sala continuava a scrivere. Non voleva fermarsi più. Osservava la scena e scriveva.

Cercava di non perdere il più piccolo particolare.

Cercava di regalare alla mente ogni singolo ricordo.

L’inchiostro sembrava non finire mai e le pagine si accumulavano una sull’altra. Non vi erano cancellature. Le parole scorrevano leggere e precise. Uniche e inconfondibili.. come perfetti scrigni che racchiudevano tutto il senso della storia. Della loro storia. Perché in fin dei conti cos’è una storia? Solo ricordi e parole.. e inchiostro buttato su un foglio di carta nel giusto ordine.

Il ragazzo smette di scrivere..

Purtroppo come in ogni storia.. e a malincuore in una bella storia, giunge la fine.. e con essa il punto più deciso e marcato del racconto. E la penna non si stacca.. non si vuole staccare..

Il sipario si chiude lentamente.

Una lacrima scorre..

Alternata da un piccolo sorriso.

Perché quel ragazzo sa..

..che continuerà a scrivere ancora di quella storia..

..Amnesia..

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Amnesia…
“Nel linguaggio medico, l’amnesia è una patologia carat-terizzata dalla parziale o totale perdita di eventi passati, è un disturbo collegato alla memoria.”
La stanza era fredda… immobile. Apparentemente vuota, fatta eccezione da quel ritmico respiro proveniente dal letto. Il sole faticava ad entrare attraverso i vetri appannati della porta del balcone. Le mensole… l’armadio… l’appendiabiti… Tutto sembrava nel giusto ordine mentre nell’aria regnava una sorta di foschia apparente. Quel tetro alone regalava allo spettatore più attento la sensazione di stranezza. Perché qualcosa non andava… anche se sembrava tutto normale…


Aprii gli occhi.
Ero nel mio letto.
Respiravo… o almeno ricordavo come si facesse.
Misi a fuoco e sbiancai nel vedere il soffitto della mia camera. La confusione cresceva nella mia testa e combatteva con il dolore lancinante che mi martellava la parte alta della testa. Assunsi una espressione dolorante e nel voltarmi scoprii che anche il collo aveva qualche problema. Ma a parte quei dolori, non riuscivo ancora a capire come mai mi trovassi lì. Ricordavo che ero ad una festa… ricordavo che mi stavo divertendo… e non ricordo più niente…
Iniziai a fare a cazzotti con la mente scavando a fondo nei ricordi. Niente. Vuoto totale.
Mi girai nel letto ma qualcosa mi tirava. Era il colletto della camicia abbottonato e troppo stretto. Sollevai le coperte e scoprii di essere completamente vestito. Jeans nero… Cintura… camicia nera a righe… e un calzino solo.
“Ahia la testa!” e riaffondai sul cuscino. Le domande si affollavano e le risposte si facevano complicate.
Perché ero vestito mentre il mio pigiama faceva bella mostra di se su un ripiano dell’armadio?  E soprattutto, perché avevo un calzino solo?!
Richiusi gli occhi. Un po’ per il dolore e un po’ perché credevo o almeno speravo, che si trattasse di un sogno mal riuscito.  Mi riaddormentai pensando che forse un po’ di riposo avrebbe sistemato le cose. Cercai di calmarmi. Forse in fondo non era successo niente. Probabilmente mi sarebbe tornata la memoria dopo qualche minuto… forse due… tre… quattro…
– La macchina!! – ricordavo di essere uscito con la macchina la sera prima e la parte in cui la riponevo nel garage mi era del tutto assente.
Mi alzai di botto e scoprii che anche la spalla mi doleva. Mi diressi verso il bagno. Abbattuto, stordito. Quasi mentalmente assente. Mi affrettai ad andare alla finestra che dava sul cortile. Sul vialetto c’era la Ford Focus con mio padre e mio nonno intenti a fare chissà cosa. Non riuscivo a vedere bene. Andai allo specchio. “Almeno la mia faccia è rimasta quella di sempre” pensai, e cercai di ristabilirmi un po’ sciacquandomi il volto. Ma non servì a niente. Uscii dal bagno e percorsi il corridoio con una mano che strusciava contro il muro, come i ciechi che cercano di orientarsi in una casa che non è la propria. Vidi le scale. Mi sembravano altissime… silenziose… quasi innocue. Feci il primo passo come colui che si appresta ad entrare in un mare di acqua gelata. I sensi ormai sembravano tutti ingannarmi. La vista si annebbiava ondulando le cose, creando facili squilibri. L’udito manteneva perennemente quell’irritante sibilo dovuto forse alla musica troppo alta della sera precedente. Continuai a scendere quelle scale reggendomi alla ringhiera. Un po’ come faceva mia nonna quando doveva salire al piano superiore. Arrivai giù. Al primo piano c’era la cucina dove mia mamma aveva sicuramente preparato il pranzo. Solo che  non riuscivo a sentire nessun profumo dato che anche l’olfatto era andato a farsi fottere. Guardai il grande orologio che faceva capolino all’entrata nella cucina. Erano le 2:30. Un po’ troppo tardi per mangiare. Mia mamma mi sbucò da dietro portando una pentola con due mani. – Finalmente ti sei svegliato! – mi disse… con un tono di leggero rimprovero.
Non risposi. Non sapevo cosa dire. Mi limitai a seguirla con lo sguardo nelle sue faccende.
All’improvviso mio padre entrò nella cucina. Dal viso e da come aveva sbattuto la porta sembrava abbastanza adirato. – Che cavolo avete fatto ieri sera?!? Chi è che ha ridotto così la Ford?? –
Il cuore mi batteva… cercavo una risposta… invano. – Perché? Che è successo? – dissi.
– La macchina è sudicia… cenere ovunque… e qualcuno ci ha vomitato dentro! Chi è stato?? –
Spalancai gli occhi alle parole di mio padre. Terrorizzato al pensiero che avesse rovistato dappertutto. Dovevo correre fuori. Nella macchina c’erano cose che mio padre non doveva nemmeno immaginare. Tra cui, un ignaro e innocuo “pacchetto di fazzoletti”. Così cercai di divincolarmi dalle domande con risposte vaghe del tipo “abbiamo un po’ esagerato ieri sera”, “Enzo è stato male e non è riuscito a trattenersi…” anche se non ne avevo la più pallida idea. Scesi nel cortile e andai verso la macchina. Mio nonno era ancora lì con in mano un tappetino. Lo salutai e gli feci gli auguri. Aspettai un suo momento di distrazione per intrufolarmi in uno sportello. Guardai in giro cercando di metterci la massima attenzione. All’apparenza quel pacchetto sembrava scomparso. Cercai nel portaoggetti… sotto i sedili… tra i pedali. Niente… Il cuore mi si riempì di terrore. “Se l’ha trovato mio padre sono casini grossi”. Niente… non c’era. Dovevo smettere la mia ricerca perché stavo dando troppo nell’occhio. Mi alzai con un viso sbiancato e rientrai in cucina. Continuavo a pensare a mio padre che stava progettando  la scenata da farmi… che all’improvviso avrebbe detto “vieni qui che dobbiamo parlare” con quel volto serio con cui solo poche volte l’ho visto.
“Dannazione non ci voleva!”
Se andava come sospettavo… ero nei guai. E per di più, la testa continuava a girarmi. I segnali del cervello sembravano correre a tratti lungo il mio corpo. Mi serviva un po’ di riposo… o forse qualche altra cosa. Tornai in camera da letto evitando il più possibile i miei genitori. Mi ributtai nel letto e appena chiusi gli occhi… Strane costellazione si facevano beffe della mia vista. Tutto girava e nel mezzo, nel preciso centro di tutto, c’ero io. Il mio corpo, me stesso. Mi guardavo dal di fuori come uno specchio irreale. Sogno e realtà si fondevano creando mistiche illusioni. “Vieni da me… Vieni da me…” mi sussurrava il mio alter ego dall’altra parte dello specchio. Non rispondevo… avevo  il respiro affannato. Eppure non avevo fatto sforzi… non avevo mosso nessuno dei miei muscoli. Mi sedetti per terra… ed appoggiai una mano allo specchio. Dall’altra parte, l’immagine di me stesso, rideva di me e l’eco della sua risata rimbombava in ogni dove… Resistevo… Resistevo mentre la testa compieva strani viaggi e tutto continuava a girare…
Sentii delle voci. Colpi battuti su una porta in legno…
toc  toc…
toc toc…
e poi di nuovo le voci… ridevano… Dicevano qualcosa in sottovoce. Nominavano il mio nome…
Ciro?
Ciro!

Sembravano le voci dei miei amici che mi chiamavano. Erano entrati nella mia stanza e cercavano di svegliarmi. Mi scuotevano… Ciro!
– Cazzo questo non si sveglia! –
Aprii gli occhi…
Vidi i volti di Enzo e Luca che mi guardavano in silenzio.
– E se non si riprende? – chiese Enzo a Luca.
– Secondo me è rimasto scemo… –

– Ehi… che volete? Idioti! – risposi con un po’ d’incertezza.
– Ciro, tutto a posto? – mi chiese Luca, un po’ preoccupato.
– Si, tutto a posto… – dissi strascicando le parole.
– La testa non ti fa male? – disse Enzo ridendo.
– Si un po’ si… –
– Solo un po’!? –
– Si… solo un po’… –
– No, perché ieri hai preso tante di quelle testate… –
– Ieri? Ragazzi io non ricordo niente… –
Enzo e Luca si guardarono in faccia e iniziarono a ridere.
– Quindi non ricordi proprio niente? –
– Niente… vuoto totale. –
– Nemmeno quando sei saltato sulla tua macchina e hai iniziato a pulire il vetro con la tua giacca? –
Sgranai gli occhi, la mia giacca!.
– Non è possibile dai ragazzi non prendetemi in giro… –
– Certo che è possibile… guarda! –
Luca prese la giacca nera che era disordinatamente appoggiata sulla sedia e me la mostrò. Sporchissima, sudicia e tre lunghi squarci la percorrevano sulla schiena.
– Porc… – dissi. La mia giacca da 250 euro era ridotta uno straccio. Era praticamente da buttare… anzi da bruciare. Non capivo più niente. Che cosa era successo? Che cosa avevo fatto? mi chiedevo continuando a fissare la giacca.
– Cavolo se la vede mia mamma mi uccide! Dannazione! Devo nasconderla… almeno per il momento. –
– Dai ora alzati che usciamo. – disse Luca.
– Ok… forse è meglio… –
Mi alzai dal letto.. Mi guardai i piedi. Anche loro mi guardarono i piedi.
– Ragazzi, mi sapete dire perché diavolo ho un calzino solo? –
E risero di gusto… come se avessi fatto la più splendida delle battute.

– Vieni che fra poco ti racconteremo tutte
le disavventure che ci hai fatto passare ieri notte… –

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