Il Quartiere Latino (la nouvelle de Paris IX)

La%2520nouvelle%2520de%2520Paris%2520IX

20:00

Il giro al Louvre era stato estenuante. Avevo i piedi in condizioni pietose. Mi buttai sul letto a peso morto. In casa, un vociare confuso di persone. I ragazzi discutevano, parlavano, raccontavano mescolando l’italiano con l’inglese affinché anche il nostro compagno brasiliano potesse capire. Chiusi gli occhi e cercai di recuperare le forze. I miei polpacci erano incandescenti, la schiena a pezzi e la mente in black-out.
Ad Aberto la stanchezza sembrava non toccare. Avevamo percorso chilometri ma lui era ancora fresco come una rosa sbocciata. Faceva progetti per la serata e cercava di coinvolgerci tutti. Antonio e Rafael lo stavano a sentire. Ciro aveva la testa sotto il cuscino a mo’ di struzzo e stava peggio di me. Sinceramente non mi andava di ballare anche quella sera. I piedi mi avrebbero dato buca.
Quando finalmente tutti fummo sistemati in un letto, piombò su di noi, come una leggera coperta, un sonno profondo.
Dormimmo in tutto un paio d’ore. Qualcuno si svegliò e ci svegliò tutti.
– Andiamo ragazzi! La notte è giovane! E soprattutto… siamo a Parigi! – urlò a gran voce Alberto.
Quel ragazzo, se ancora ragazzo si potesse chiamare a trent’anni, sembrava essere sempre pieno di energie e desideroso di assaporare ogni momento della vita, com’era desideroso di attaccarsi alle sottane di qualche giovane parigina. Anche se molto diversi, questo lato del carattere ci accomunava tanto. Anch’io voglio prendere la vita e farne brandelli di avventure. Anche a me piace viaggiare, osservare, raccontare… anch’io amo non fermarmi mai, anche se a volte, la ragione blocca la maggior parte delle pazzie.
Ci vestimmo tutti con indumenti già visti nelle serate precedenti. Non so come, ma Parigi mi faceva dimenticare che le mie bellissime scarpe nuove erano state devastate nella serata in discoteca. Rafael era sotto la doccia e cantava un motivetto portoghese. Vidi Ciro spruzzarsi un paio di gocce del suo Versace e me ne feci prestare un po’. Antonio girava per la stanza alla ricerca di una cintura per i suoi jeans. Infine Alberto, aveva sfoggiato il suo imbattibile pantalone rosa con cintura marrone, abbinato alla camicia bianca. Si avvicinò a noi e ci disse:
– Questo pantalone… quante ne ha acchiappate! –

Mezz’ora dopo uscimmo. Erano le undici in punto. Le strade parigine si colorarono di tenui luci arancioni che donavano a luogo un’intensa aura dorata. Ci dirigemmo verso il famoso Quartiere Latino. Un quartiere frequentato principalmente da studenti universitari e da turisti. Infatti, non molto distante c’è la Sorbona, la prestigiosa università di Parigi. Le sue vie pullulano di locali, dove mangiare, bere e fare bisboccia fino all’alba. Il quartiere costruito a posta per noi, in pratica.
Ci addentrammo per le sue vie, alcune molto strette da proibire il transito alle auto. Mi colpì subito il colore. Il colore delle cose, delle insegne, dei cibi, delle luci, di tutto! Dopo aver passato giorni e aver osservato palazzi e monumenti antichi così da abituare gli occhi alle tonalità settecentesche, ora, quel rosso, quel viola, quel blue, mi riportavano al futuro, ovvero il presente della nostra tipica società. Ciononostante, quella diversità del luogo, era perfettamente incastonata tra palazzi antichi e cattedrali gotiche da non rovinare l’ambiente cittadino.
C’erano insegne di ristoranti italiani, tedeschi, indiani, cinesi, giapponesi… C’era un vasto assortimento culinario. Noi, però, cercavamo qualcosa di tipico della zona ed entrammo in un ristorante francese.
Il maître ci indicò dove sederci e ci portò le liste. Ovviamente scritte in francese. I ragazzi pensarono subito al vino e ne fecero portare una bottiglia. Un Sauvignon blanc da 20 euro.
Non avevamo ancora ordinato che già la prima era andata. Ne ordinammo un’altra con immenso piacere del maître. Di quel menu non ci capivo un acca. Volevo scegliere qualcosa di commestibile e che si accostasse bene all’immensa quantità di vino che sicuramente avremmo bevuto. Lessi tutta la lista, poi sorrisi.
– Ecco cosa prenderò! Un’omelette! –

Mangiammo, bevemmo, chiacchierammo… Ognuno raccontava un pezzo di se. Li stavo ad ascoltare con piacere. Quella combriccola non era male. Il vino scorreva a fiumi e il cibo era ottimo. Il maître rimpiazzava le bottiglie vuote con quelle piene e ogni tanto si fermava a fare due chiacchiere sulle sue vacanze italiane. Eravamo entrati così in confidenza che fu quasi dispiaciuto nel mandarci via. L’ora era tarda e il ristorante doveva chiudere. Ci fermammo davanti all’entrata a bere l’ultimo bicchiere di vino e vedemmo uscire dal locale due ragazze. Alberto ovviamente partì all’attacco e attaccò bottone con una di loro. Si fermarono a fare quattro chiacchiere e a fumare una sigaretta. Parlavano inglese ma non erano inglesi, bensì di una delle sue ex- colonie: l’Australia.

E qui la memoria subisce un salto. Non ricordo il come e il perché finimmo in un altro locale. Mi ritrovai a parlare con una delle due, davanti a un bancone di un piccolo pub.
– Un Cuba Libre, and for you? – ordinai al barista.
– Un Mojito
Con la vista un po’ annebbiata mi accorsi che Alberto era lì vicino e tentava un approccio con l’amica. Del resto della compagnia non avevo notizie. Guardai negli occhi la mia giovane donzella. Si chiamava Kate e aveva all’incirca la mia età. Ancora non riesco a spiegarmi di come abbia fatto ad attraversare metà mondo per finire a bere un Mojito a Parigi. Mi disse che era il suo ultimo giorno in Francia e coincidenza lo era anche il mio. Il viaggio però non si sarebbe fermato lì, la sua prossima tappa sarebbe stata l’Italia e più precisamente Milano.
– Milano?! Really?! I came from Milano! – le dissi.
– Wow… I love Milano, fashion and shopping! –
La ragazza la sapeva lunga sulla vita mondana e stava per recarsi proprio nel suo cuore, nel centro di ogni attività modaiola e festaiola. Avevo già capito le sue intenzioni. Mi chiese di insegnarle qualche parola in italiano. Aveva fatto un corso di qualche mese in Australia e voleva far pratica nel Bel Paese. Per fortuna che la mia galanteria mi fece desistere dall’insegnarle le parolacce, anche se l’istinto voleva divertirsi un po’. Le corressi la pronuncia delle parole che conosceva già. Qualche volta sbagliava gli ausiliari; in alcune frasi ometteva il soggetto; e i plurali le erano sconosciuti. Nonostante tutto se la cavava egregiamente, e sempre meglio del mio abominevole inglese!
Parlammo a lungo. Non avevo idea di che ore erano e di dove fossimo. Però vedevo Alberto lì vicino e questo mi dava un po’ di sicurezza. Chissà se Alberto pensava lo stesso di me? Non era che entrambi contavamo sull’altro per tornare a casa? Per fortuna non fu così e vidi spuntare da dietro Antonio con una bionda. Non in carne e ossa, ma liquida e spumosa. Me la offrì e mi chiese come stesse andando.
– Tutto bene… – gli risposi.

Tornai a guardare la mia compagna di serata negli occhi. Aveva un qualcosa di nascosto. Qualcosa di segreto aleggiava in lei. Quel suo sorriso così semplice e al tempo stesso misterioso. Quel suo fare disinvolto, socievole, intrigante… ne facevano di lei una persona da scoprire, come una rosa chiusa in un bocciolo. A ogni mio passo lei non indietreggiava, mi fronteggiava, stava allo scherzo. Rideva, giocava, si avvicinava. Ogni tanto mi lanciava languide occhiate che io raccoglievo e rilanciavo.
Era un gioco per me. Un perfetto gioco di frasi fatte, battute ben affilate e parole intriganti.
Era un gioco… e chissà per quanto ancora… sarebbe durato…

 

 

Uno strano scivolo… (Livigno 2010 parte V)

Livigno%252C%2520lo%2520strano%2520scivolo

Appena varcata la soglia del Miky’s pub, sembrava quasi d’entrare in un altro mondo. Fuori tutto tranquillo e regolare. Il silenzio regnava ed era rotto solo dal rumore dei nostri passi. Dentro invece si sentiva la musica, le persone che parlavano, il tintinnio di bicchieri e bottiglie. Sembrava proprio di aver oltrepassato lo stargate ed essere entrati in una nuova dimensione.

All’ingresso c’era una giovane ragazza addetta al guardaroba, cosa che non avevo mai visto in un pub old style. Mi bloccai…

– E questo a che cazzo serve?! –

Poco di fianco alla ragazza c’era uno scivolo in legno che portava al piano di sotto, da dove proveniva la musica. Rimasi per un po’ ad osservarlo fantasticando sulle mille cose che avrei potuto farci. Di fianco al bizzarro scivolo c’erano le scale. Le scendemmo e venimmo inondati da musica dance ad alto volume. Guardai tutta la sala e pensai che finalmente avevano inventato ciò che volevo: una discoteca… in un pub.

Perché sì… entrambi i locali hanno i loro pregi ma anche i loro piccoli difetti.

In discoteca, se entri… devi per forza ballare. Non c’è mai un fottuto posto dove sedersi e godersi il proprio drink. Drink che deve essere per forza un cocktail, perché se prendi una birra ti guardano storto e pensano che tu sia un ubriacone. Nonostante ciò, mi piace ballare… sentire la musica dance o house che ti pompa nelle orecchie solleticandoti la mente e dandoti piccole scariche di adrenalina.

Nel pub, invece… ti siedi con davanti la tua bella birra doppio malto e gli amici intorno. Scheggi un po’ il tavolo col coltellino, racconti un po’ di stronzate a chi vuol sentire. Ma la musica che c’è non è mai quella giusta… o non sempre. Una volta sono entrato in un pub dove la canzone migliore era di Laura Pausini. Il pub che prendo sempre come riferimento è lo Sloppy’s Joe di Dante. E’ uno dei migliori, a mio avviso. Forse solo perché ci ho passato i migliori anni della mia vita. Ed anche lui ha la pecca di tutti i pub. La musica e soprattutto, sono almeno 5 anni che sui suoi schermi gira ancora a ripetizione senza voce quel cavolo di film di Sin City e non c’è bisogno di dirvi che lo conosco a memoria.

 

Il Miky’s pub, quindi… era un po’ tutt’e due. Sulla destra c’era il lungo bancone in legno dove il barista serviva i cocktails. Quasi in fondo alla sala c’era una postazione deejay rialzata con annesso ragazzo con cuffia e capelli strani. Sulla sinistra invece c’erano i tavolini, di quelli alti con gli sgabelli sempre in legno. Qui un po’ tutto era in legno… e io amo il legno. Al centro del locale c’era uno spazio non molto grande, dove la gente ballava.

Ci sedemmo in fondo. Enzo, Ciro, Luca ed io.

Tutti intorno allo stesso tavolo, a guardare la sala piena di gente.

– Non è male questo posto… –

– Già… ordiniamo qualcosa… –

– Una bella bottiglia di vino bianco… e quattro bicchieri… – proposi io.

– Chi inizia? …Ok ok… ho capito… vado io… – dissi.

 

Andai al bancone. Feci segno al barista di venire da me.

– Che vini bianchi hai? – Gli urlai.

Lui ne elencò alcuni, ma io non capii niente a causa della musica troppo alta e gli dissi:

– Fai tu! –

Poco dopo tornai al tavolo con la bottiglia stappata e quattro bicchieri a calice alto.

Poco dopo ancora… la bottiglia era vuota.

 

– Guarda quelle tre sedute lì…-

Mi voltai nella direzione indicata da Ciro e vidi tre ragazze sedute a un tavolino. Una mora, una castana e una bionda. Mancava la rossa e il quadro era completo… pensai sorridendo.

– Vanno a vino anche loro… – disse Luca, osservando i loro bicchieri.

– Quella con i capelli corti è la più bella… –

– Naa… meglio quella con gli shorts… –

– Perché la bionda la vogliamo buttare via? –

– Perché non vai da loro e chiedi se vogliono sedersi qua con noi? La prossima bottiglia la offro io… –

– Tu comincia a offrire… al resto ci penso io… – risposi

 

Naturalmente, essendo quello più vicino al bancone in linea d’aria, dovetti alzarmi io. Il barista mi vide e gli chiesi di stapparmi una nuova bottiglia. Lui al volo la prese, stappò con classe e me la diede.

Dopo mezzanotte la musica cambiò. Si fece più aggressiva e ballabile. Guardavo la sala un po’ annebbiato dall’alcol. I ragazzi erano andati nella sala fumatori e rimasi solo a fare la guardia alla bottiglia vuota di vino bianco.

A un certo punto il deejay cambiò canzone. Una di quelle belle che mi piacciono molto… ma che adesso… proprio non ricordo.

Questa devo proprio ballarla, pensai

E mi buttai in pista tra la gente che si dimenava al ritmo di musica. Iniziai a muovermi cercando di ballare decentemente in quello spazio ridotto. Intorno a me c’erano ragazzi e ragazze di ogni tipo. Dai volti  si riconoscevano tedeschi… polacchi… svizzeri. C’erano anche le tre ragazze sedute a quel tavolo. Ballavano vicino a me. E ogni tanto mi adocchiavano. Mentre ballavo, mi voltai in direzione del mio tavolo. Vidi i miei tre amici tutti li seduti che mi osservavano. Sentivo i loro occhi addosso e sapevo già cosa stavano dicendo su di me.

So cosa ci vuole.. pensai.

Mi appoggiai al bancone con un gomito. Il barista mi vide e iniziò già a prendere una bottiglia di vino. Praticamente non gli dissi niente. Lui già sapeva.

– Thanks… – gli risposi e tornai al tavolo.

 

Purtroppo quella bottiglia fu l’inizio della fine. Un attimo dopo averla vuotata, il mio cervello praticamente galleggiava nell’alcol. E subito dopo, una scena incontrollabile si prestava agli occhi di tutti i presenti nella sala. Io su una specie di palchetto che facevo volteggiare la mia maglietta al ritmo di musica. Il barista corse da me e cercò di farmi scendere, urlandomi di rimettere la maglietta. Per fortuna non si incazzò.

Tornai al tavolo e mi detti una calmata.

Vidi Enzo e Luca che parlottavano con una ragazza inglese.  Quest’ultima sorrideva mentre mi guardava. Enzo le aveva detto qualcosa. Lei mi disse – Ok, ok… – e mi fece un gesto di approvazione con la mano. Non capii niente. Ero un po’ stanco, ma l’alcol mi teneva sveglio. Entrai nel gruppetto che si era formato con l’inglese. Cercavo di biascicare qualche parola che lei, con mio stupore, comprese. Enzo era quello che se la cavava meglio. Forse anche perché era più sobrio di me. Dopo un po’ mi limitai a osservare, cercando di calmare un po’ i battiti del mio cuore. Avevo un bicchiere vuoto in mano e ci giocavo.

Dopotutto, questa serata non è andata poi così male, pensai mentre guardavo

lo strano scivolo dall’altra parte della sala… 

 

Ci vuole sempre qualchecosa da bere.. (TorreSuda ’09) (II)

 

 

Li avevamo persi. Eravamo partiti con due macchine per questo lungo viaggio. E guarda caso, proprio come era nostro solito fare, ognuno faceva di testa sua. Erano finiti chissà dove. Al telefono tentavano di spiegarci la strada che stavano facendo. Ma il punto era che nemmeno noi sapevamo dove eravamo. Tecnicamente andavamo verso la direzione giusta. Verso sud. Ma se la strada che percorrevamo fosse stata giusta o meno non lo sapevamo.

-Ciro accendi il navigatore..-

-Te l’ho detto Luca.. ho l’antenna GPS scarica..-

Avevo dimenticato di ricaricare il mio GPS convinto che la batteria avesse retto tutto il giorno. Mi venne un idea. Rovistai nella mia monospalla nera alla ricerca di qualcosa. Quella borsa è sempre stata l’ultima speranza di ogni situazione. Potrei anche naufragare su un isola deserta o restare isolato su una montagna a 3000 metri.. ma se ho la mia monospalla con me mi sento al sicuro. Mentre cercavo pensavo che quella borsa ne aveva di storie da raccontare. Tra tutte le modifiche che le avevo fatto.. le aggiunte, le tasche segrete, i rinforzi.. quella borsa ne aveva passati di anni.. e di avventure…

 

 


     “Ricordo quella volta che ero a Firenze con i miei amici e decidemmo di andare agli Uffizi. Avevo la mia monospalla addosso e tra l’altro in quell’occasione c’era anche il mio giubbotto di pelle.

Mentre ero in coda non pensavo che all’entrata ci fossero stati il metal detector e i vari controlli. Pensavo a fare battute con i miei amici sull’ubriachezza molesta di certi orientali. Quando vidi il metal detector mi salì una vena di paura. Ero in una fila obbligata. Davanti c’erano i miei amici e dietro persone su persone. Osservai meglio.. c’era un poliziotto che controllava i turisti che passavano sotto al metal detector e ce n’era un altro al pc che osservava gli zaini che passavano ai raggi x. Confesso che vedere la foto della mia monospalla ai raggi x sarebbe stato divertente. Sorrisi.. ma non potevo distrarmi, dovevo trovare una soluzione. Le strategie erano: far aprire la mia monospalla al poliziotto e stari lì ore ed ore a farmi sequestrare il 90% delle cose o andarmene? Oppure, la più bella.. rischiare…

All’improvviso vidi il poliziotto al pc che si alzò e se ne andò. Colsi il momento e passai avanti ai miei amici piazzando la mia borsa sul tappeto scorrevole. Tutti espressero il loro disappunto ma il mio sguardo minaccioso li tenne a bada. Forse intimoriti dalla minaccia della notte prima di accoltellarli se non mi avessero lasciato dormire. La mia monospalla entrò sotto il canale dei raggi x.. osservavo il poliziotto davanti al metal detector. L’altro poliziotto entrò nella sala. Si sistemò la cintura dei pantaloni e si sedette alla sua comoda scrivania. Appoggiò il caffè su un lato ed osservò il monitor del pc che aveva lasciato incustodito.

Intanto.. ero già nel corridoio degli uffizi seguito dai miei amici..

Con il giubbotto sbottonato.. e la mia monospalla nera..”

                                                                                     


 

La macchina correva veloce. Luca sembrava aver dimenticato gli ammonimenti del padre. Armando dietro stava dormendo tra le valigie. Ed io ero ancora intento nella ricerca.

-Eccola!- esclamai alzando una batteria.

-Che cos’è?-

-E’ la batteria di riserva del mio cellulare..-

 

Smontai la mia antenna GPS. Tolsi la batteria e cercai di farci entrare quest’ultima alla meglio. Feci un po’ di spessore con un fazzoletto per tenerla ferma.

-Andiamo.. accenditi..- dissi speranzoso mentre tenevo premuto il tasto di accensione..

-SI! Abbiamo il navigatore!-

 

Sapevo che la mia monospalla non mi avrebbe deluso.

 

 

 

 

Quella sera..

 

 

La mia mente era distesa su un bel letto di neuroni in cancrena. Mi girava. Si svuotava di ogni pensiero maligno. Le inibizione cedevano lasciando spazio alla sfrontatezza. Non ero in me. Ero tutta un’altra persona, una persona che però mi piaceva. Mi sentivo indistruttibile con il cuore a mille, i muscoli pompati e la voglia irrefrenabile di uscire a spaccare il mondo. Dovevo farlo.. quella notte era mia. Volevo dar la buonanotte a mille ricordi e soprattutto al Ciro che ha bisogno di star male.

I ragazzi si preparavano per la serata.. chi si lavava.. chi si vestiva.. chi si dedicava all’artificeria.. chi metteva su canzoni..

Aspettavo stravaccato su una poltrona. Guardavo gli altri e sorridevo delle loro azioni. Volevo dire la mia. Volevo dire a ognuno di fare le cose in un altro modo, magari migliore. Ma in quel momento me ne fottevo allegramente. E per una volta smisi di rompere le scatole.

Il tempo correva e la mia percezione di quella sera lo sentiva ancora di più. Uscimmo.

Andammo in un pub sulla spiaggia. Scesi dalla macchina e come prima cosa mi fiondai al bar ad esigere la mia porzione di alcol. Presi la mia Tennent’s dal bancone e mi girai ad osservare il posto. Carino. Non era il solito pub. C’era un grande terrazzo in legno che dava sulla spiaggia. Sopra c’erano i tavoli e la gente che ordinava. Da un lato del terrazzo la cucina e il bar. Diedi un lungo sorso alla mia birra e adocchiai la cameriera. Riccia.. mora.. occhi chiari. Decisamente carina. Aveva un gran bel daffare quella sera mentre mi chiedevo come mai mi saltassero sempre agli occhi le cameriere. C’erano tante altre ragazze in giro, anche più carine di lei. Chissà perché l’avevo notata per prima? Chissà cosa m’intrigasse..

-Ciao Ciro!-

-Ciao Gaetano.. posso offrirti una birra?- Dissi.. dimenticando totalmente che il mio amico era celiaco.

Gaetano non ci fece caso rinunciando alla mia offerta.

-L’hai vista la cameriera?- disse.

-Certo..-

-Veramente bella..-

Sorrisi e brindai con la sua Coca-Cola pensando che non ero il solo a cui piacevano le cameriere.

 

Un ora dopo avevo il triplo delle birre in corpo. Stavo quasi per toccare il mio limite. E non sapevo se quella sera mi andava di battere il record. Intanto ero su uno scoglio a parlare con una tipa. Sembrava simpatica. Intrattenevo discorsi stupidi con battute orribili.. ma divertenti. Non si può pretendere molto quando uno ha la mente annebbiata. Veniva da Milano anche lei e subito attaccai con le mie storie. Di avventure e pazzie fatta in quella odiatissima e amatissima città. Lei non parlava molto. Le piaceva ascoltare.. ed essere quello che parlava di più in una conversazione mi faceva sentire strano, quasi importante. Lei rideva.

I miei amici erano su uno scoglio poco distante a fumare. Mi osservavano e sicuramente facevano i loro commenti. Continuavo a parlare con la ragazza non curandomi di loro. Le chiesi come mai fosse qui.. in questo posto desolato. E chissà che viaggio avrà fatto. Le raccontai il mio..

 

-…Davvero??!?!..-

-Certo!.. poi siamo finiti in un posto stile deserto del Colorado. Con tanto di terra rossa e arbusti che rotolavano. C’eravamo persi ancora! Nonostante il navigatore..-

-Divertente però..-

-Altroché.. e in ogni deserto che si rispetti poteva mancare il tizio che vede i meloni col carretto? Certo che no.. pensavamo che fosse un miraggio. Era solo.. in un angolo della strada..-

-Ed era vero?-

-Certo che era vero! Comprammo un melone. Ma non avevamo coltelli e stavamo pensando a come aprirlo. Proponevo ad ogni curva di aprirlo a morsi per la troppa sete.-

-ahahah-

-Per fortuna che trovammo una signora che ci prestò un coltello. Dovevamo proprio sembrare dei disperati.-

-Già..-

Appoggiai le labbra al freddo vetro della mia Tennent’s. La alzai di un colpo e lasciai scendere l’ultimo sorso di birra. Avvicinai la bottiglia e l’osservai meglio nella remota speranza che fosse rimasto ancora un goccio d’alcol. Niente..

-Questa è finita.. e ha deciso di non essere l’ultima..-

-Dai.. basta bere..- mi disse.

Mi girai e le feci un sorriso beffardo mentre mi allontanavo per andare al bar.  Cercavo di camminare senza inciampare tra i sassi di questa ipotetica spiaggia. Cercavo di non barcollare a destra e manca. Sentivo le gambe pesanti.

Quasi all’uscita della spiaggia mi si pararono davanti i miei amici. Volevano sapere della tipa e di come si prospettava la serata. Li mandai a cagare facendomi un varco con le mani. Ma loro non mi facevano passare.. volevano sapere.

Ad un certo punto sentii vibrare la mia tasca sinistra. Era il mio cellulare.

Lo presi e cercai di ricordarmi il codice di sblocco.

Un messaggio.. I miei amici osservavano la scena.

“chissà chi sarà a quest’ora”

Lessi il nome.. e pensai..

“Mi sa che un’altra birra non basterà..”

 

 

E neanche un libro potrà descriverlo mai…

E%2520neanche%2520un%2520libro%2520potr%25C3%25A0%2520descriverlo%2520mai

La metro scorreva veloce lungo il suo binario. Si fermava ad ogni tappa obbligata per far salire quei pochi passeggeri impazienti. Dopotutto era mezzanotte passata e la voglia di tornare a casa si faceva sentire. Un paio d’indiani un po’ brilli, facevano un casino che si sparpagliava per tutto il vagone. Parlavano ad alta voce come se fossero stati in mezzo alla strada. Fastidiosi a quest’ora. Soprattutto per il mio Tetris. Chiusi il cellulare. Ad ogni fermata salivano persone diverse… giovani… vecchi… stranieri… La metro è così: multietnica. Non potrai mai azzeccare chi si siederà accanto a te… o chi ti schiaccerà i piedi perché troppo distratto. Ormai c’ho fatto l’abitudine. Una coppia di mezz’età discuteva in piedi vicino alla porta. Sembravano avere futili problemi. Come tagliare l’erba del prato o fare la spesa. Il mulatto di fronte a me, invece, leggeva un giornale arabo. Lo si capiva dalla strana scrittura tipica di quei paesi. Si sistemò gli occhiali e mi guardò. Voltai lo sguardo da un’altra parte. Duomo. Sale sempre un mucchio di gente in Duomo… a qualsiasi ora. E quella sera non era da meno. I posti a sedere si riempirono. Qualcuno rimase in piedi appoggiato al palo con la faccia assonnata. La donna di fronte a me, guardava con insistenza il biglietto. Aveva il volto triste… sembrava che qualcosa non fosse andata a buon fine quella sera. Già… le cose spesso non vanno come vorremmo. Magari un litigio. Un apprezzamento sgarbato. Una persona che non ci si aspetta d’incontrare. Spesso ci si sente soli… e molte volte ci si ritrova su una metro a rigirare il biglietto tra le mani guardando le fermate scorrere.
Un signore di bell’aspetto in un abito elegante si sedette accanto a me. Chiese scusa per avermi urtato e iniziò a giocherellare con il cellulare. Dovevo scendere ma la mia corsa non era ancora finita. Seconda metro… secondo giro. Percorrevo la banchina da un lato all’altro nell’attesa che arrivasse il mio mezzo di trasporto. Guardavo le facce delle persone e loro guardavano me. L’una più diversa dell’altra. Chissà quante storie avranno dietro quei volti… chissà quante ne avranno da raccontare… Oppure no… perché vivevano la solita vita di routine in cui tutto è uguale al giorno prima, compresa la metro in ritardo. Arrivò.
Cercai un posto dove sedermi.  Non era difficile a quest’ora. E come al solito iniziai ad osservare. Perché mi piace osservare la gente e capirne un po’ di più su di loro. Sono fatto così…
Una coppia di ragazzi salì alla fermata successiva. Si sistemarono nei posti di fronte. Lui iniziò a parlare ma non riuscii a capire cosa dicesse. La metro certe volte fa un casino infernale… soprattutto quando fa caldo ed i finestrini sono tutti mezzi aperti. Lei imbronciò il visto e gli rispose seccata. Sembrava averlo rimproverato per qualcosa. Beh… facile strigliare gli uomini… siamo sempre noi che sbagliamo. Ma è vero anche che alle donne piace rimproverare… ci provano gusto. Insomma certe volte, vogliono mettere i puntini sulle “i” giusto per ribadire che in amore ci sono delle regole. E quelle regole gli uomini devono rispettarle. O almeno far vedere. Fingere che tutto vada bene e che niente sia successo. Ma bisogna essere dei bravi mentitori perché le donne, l’intuito ce l’hanno dalla nascita. Era una coppia di giovani. Lui con la barba incolta e lei con una copia venuta male delle converse. Un sorriso comparve sul volto di entrambi… tutto regolare. Tutto come prima. Perché l’amore è cosi… Va e viene quando vuole. Sembra che a volte non ci sia… ma è sempre lì…
Che ti avvolge in una fredda serata primaverile…

Qualche ora prima…

– Chi è? –
– Sono Ciro. –
Qualcuno mi aprì il cancelletto ed entrai in casa di Francesca. Salutai i genitori ed andai in camera sua. Doveva ancora finire di prepararsi e, cosa che non sapevo, di studiare.
– Potevi dirmelo… che venivi prima! –
Disse con una vocina leggermente altisonante, come se non fosse stata felice che io fossi lì. Ma lo era… Mancavo da tanto all’appello in camera sua. Tutto era come l’avevo lasciato… Tutto nel solito ordine disordinato ma non troppo. – Cosa devi finire di studiare? – le chiesi mentre mi accomodavo sulla sua poltroncina. – Storia… la guerra dei trent’anni… domani ho la verifica. –
Pensai per un attimo a quanto fossi fortunato ad aver finito il liceo e a non aver più queste simili scocciature. – Dai… porta il quaderno che ripassiamo insieme… è ancora presto per andare a cena… –
– Sicuro che ti va? – mi chiese in cerca di sicurezza. – Certo bambolina. –
Uscimmo da casa sua. Il sole stava tramontando dietro le case ma il cielo era ancora illuminato. La guardavo.
– Cosa c’è? Non vado bene? Non sono truccata bene? Ho i capelli fuori posto? –
Non risposi. La guardavo perché mi piaceva e sorrisi nel vederla farsi mille paranoie.
– Dove andiamo? – le domandai.
– Alla panchina… –
La panchina in questione non era una semplice panchina… era La panchina. Un luogo speciale per lei. Un posto che l’aveva vista crescere nel corso degli anni. Una panchina dove magari sono cadute le sue lacrime… dove sono nati i suoi sorrisi… dove il sole la illuminava di giorno e la Luna le teneva compagnia la notte. Era un posto speciale.
Spesso quando eravamo ancora lontani, lei mi chiamava con il cellulare e stavamo ore ed ore a parlare e parlare. Spesso lei mi descriveva quella panchina. Mi diceva che le piaceva tanto stare seduta lì. E io la immaginavo così: stesa che guardava il cielo e parlava con me. Un bel po’ di strada ci divideva all’epoca… ma non ci fece perdere la speranza. Perché tutto può succedere… come per esempio può capitare che qualcuno prenda il tuo stesso treno, in un lontano giorno di mezz’estate.

– Ci sediamo? –
Guardai quella panchina per un attimo. Era abbastanza sporca. Poi guardai lei. Il suo sguardo caporalesco mi fece capire che dovevo sedermi per forza. E così feci, pensando: “Cosa non si fa per amore!”.
Prese il quaderno di storia mentre l’abbracciavo da dietro. Ci mettemmo comodi.
– Allora la guerra dei 30 anni… capitolo primo… –
La osservavo mentre ripeteva i concetti. Lei sorrideva e si bloccava leggermente come se ci fosse stata ancora quella innocente timidezza tra di noi. – Non mi guardare! – mi disse.
– Ok ok! – risposi, ma i miei occhi tornavano sempre su di lei… sulle sue mani che gesticolavano, sui suoi occhi che guardavano il cielo per non incrociare i miei, sulla sua bocca che avevo voglia di baciare.
E il bacio ci fu ma mi staccai subito altrimenti la sua verifica di storia sarebbe stata bianca come il latte. La lasciai continuare a ripetere… ci tenevo che andasse bene a scuola… o almeno non volevo essere io la causa dei suoi brutti voti!
Ci baciammo di nuovo… colpa sua stavolta…
– Dai… devi finire… –
– Chi se ne frega studio dopo… –
La voglia saliva mentre il sole finiva il suo giro. Ci baciammo per un po’, fino a quando, stanchi di quei bambini impertinenti, ce ne andammo da lì.
La serata prometteva bene.
Fino ad allora non avevamo ancora litigato. Nemmeno per gioco.
– Dove andiamo a cenare? –
– Al Barin… –
Il Barin era un piccolo pub del suo paese. Ci andavamo spesso a trascorrere le nostre serate quando venivo da lei. Era un pub di quelli classici: lungo bancone in legno, tavolini, birre alla spina. Un classico posto in cui avrei portato i miei amici a bruciare un po’ di neuroni. Già… i miei amici. Era da tanto che non vedevo quelle canaglie squattrinate. Ecco cosa mi ricordava quel pub: Sloppy Joe’s… il nostro pub. Il luogo dove sono praticamente cresciuto. Dove ho “buttato” i miei anni migliori. In mezzo alle persone che mi riportavano a casa perché ero troppo ubriaco… dove distruggevo le bottiglie di birra… dove davo un’occhiata a Dante e lui capiva: un altro giro! Un’altra corsa prima che il tempo mi avesse strappato via da lì. Mi mancava quel piccolo pub. E dire che le prime volte che ci andavo non lo sopportavo.
– A cosa pensi? –
– Niente di che… –
– Ecco i vostri menù… – disse la cameriera.
Ma a noi i menù non servivano. Sapevamo già cosa prendere. Il nostro solito… piadina e birra.
– Perché questa volta non prendiamo una bottiglia di Prosecco? –
– No… una è troppo poco! Facciamo due… anzi no, tre! – dissi io guardando il prezzo spropositato.
Lei sorrise ritornando a sbirciare il menù alla ricerca di quei gusti che già conoscevamo.
– Allora cosa prendete? – chiese la cameriera che era tornata da noi.
Parlai io e involontariamente mi sentivo come ad un interrogazione con due donne che mi osservavano.
– Ehm… allora vediamo… ci porti due piadine… con… ehm… prosciutto cotto, mozzarella… ehm… pomodori e salsa rosa! – ce l’avevo fatta, almeno la prima era andata, guardai la mia lei negli occhi per una conferma, come fanno i bambini quando rispondono bene.
– E da bere? –
– Da bere… 2 Ceres old nine… –
Ordinazione finita. Sorrisi guardando lei che mi aveva osservato per tutto il tempo.
– Che c’è? – le chiesi.
– Sei carino quando sei imbarazzato! – mi disse prendendomi in giro.
Sapevo come vendicarmi.
– Sai, ieri Luisa mi ha detto che deve lasciare la casa. – (Luisa era una delle mie coinquiline che insieme ad una sua amica dividevano la camera doppia del mio appartamento.)
Il suo sguardo si fece severo. In fondo in fondo, non l’aveva ancora mandata giù che io vivessi con due donne. E i suoi occhi dicevano tutto. Sembravano quelli di un gatto che stava per graffiare.
– Ah si?! E quando te l’ha detto? E dove te l’ha detto? E come era vestita?! –
A quella domanda risi.
– Beh Fra… che t’importa com’era vestita? di certo non girano nude per casa altrimenti non uscirei mai! –
– Ahia! –
Con un leggero schiaffo mi colpì la testa. La sua gelosia le ribolliva nelle vene, ma sapeva che non avrei mai fatto niente con quelle due. Si fidava di me… ma un po’ meno delle mie coinquiline.
Mangiammo. La piadina, come al solito, era ottima e la birra non era da meno. Decisamente dei soldi spesi bene. Discutemmo a lungo su questo o quello, ridendo e scherzando come sempre. Come al solito prendevo schiaffi a non finire per le mie battute che a lei non piacevano. E piano piano stavo imparando a non criticare le donne o apprezzarne altre.
È dura la vita degli uomini.
La notte stava scendendo dolcemente alle nostre spalle. Eravamo usciti dal Barin e passeggiavamo lungo le strade del suo paese. Sapevamo dove andare. Al nostro parchetto. La presi per mano guidandola in quel posto che non conoscevo. Sotto sotto, era lei a guidarmi e non solo su quella strada ma anche nella vita… quella vita che era diventata un po’ più sua. Che teneva stretta, come la mia mano in quel momento.
Nel parchetto dove eravamo diretti c’era, per così dire, la nostra “casa”. Era una casettina in legno e plastica con uno scivolo per i bambini.
Salimmo sulle scale in legno e ci sistemammo lì dentro.
La calda giornata stava facendo posto ad una notte che sembrava non aver capito quanti gradi c’erano prima. Faceva freddo. Lei aveva su una leggera camicetta. Mi tolsi la felpa facendo scorrere la zip.
La mettemmo sui nostri corpi… ci riscaldava mentre l’abbracciavo teneramente. Ci baciammo. E lì, della storia ce ne fregava ben poco. Perché i baci scorrevano lunghi ed appassionati. Non curanti del tempo e delle persone che si erano fermate poco distante… non curanti di niente se non dei nostri cuori che battevano, le nostre anime che s’intrecciavano, i nostri capelli che si mischiavano. Lei era bella come non mai. E io mi sentivo fortunato ad essere tra le sue braccia quella sera.
Il mio cuore riprese a battere più forte… Come se il passato non fosse mai esistito. Come se tutte quelle storie che l’avevano distrutto, fossero scomparse. Ora c’era lei che ricostruiva pezzo dopo pezzo un cuore malandato. Quello stesso cuore che volevo strapparmi perché troppo amaro. Troppi addii aveva dovuto sopportare… e troppe lacrime aveva fatto cadere…
Lei mi aveva reso più forte… mi aveva ridonato la vita…
Spero che forse… anche io per lei abbia fatto qualcosa…

..Buonanotte Bambolina..

Blog su WordPress.com.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: