E neanche un libro potrà descriverlo mai…

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La metro scorreva veloce lungo il suo binario. Si fermava ad ogni tappa obbligata per far salire quei pochi passeggeri impazienti. Dopotutto era mezzanotte passata e la voglia di tornare a casa si faceva sentire. Un paio d’indiani un po’ brilli, facevano un casino che si sparpagliava per tutto il vagone. Parlavano ad alta voce come se fossero stati in mezzo alla strada. Fastidiosi a quest’ora. Soprattutto per il mio Tetris. Chiusi il cellulare. Ad ogni fermata salivano persone diverse… giovani… vecchi… stranieri… La metro è così: multietnica. Non potrai mai azzeccare chi si siederà accanto a te… o chi ti schiaccerà i piedi perché troppo distratto. Ormai c’ho fatto l’abitudine. Una coppia di mezz’età discuteva in piedi vicino alla porta. Sembravano avere futili problemi. Come tagliare l’erba del prato o fare la spesa. Il mulatto di fronte a me, invece, leggeva un giornale arabo. Lo si capiva dalla strana scrittura tipica di quei paesi. Si sistemò gli occhiali e mi guardò. Voltai lo sguardo da un’altra parte. Duomo. Sale sempre un mucchio di gente in Duomo… a qualsiasi ora. E quella sera non era da meno. I posti a sedere si riempirono. Qualcuno rimase in piedi appoggiato al palo con la faccia assonnata. La donna di fronte a me, guardava con insistenza il biglietto. Aveva il volto triste… sembrava che qualcosa non fosse andata a buon fine quella sera. Già… le cose spesso non vanno come vorremmo. Magari un litigio. Un apprezzamento sgarbato. Una persona che non ci si aspetta d’incontrare. Spesso ci si sente soli… e molte volte ci si ritrova su una metro a rigirare il biglietto tra le mani guardando le fermate scorrere.
Un signore di bell’aspetto in un abito elegante si sedette accanto a me. Chiese scusa per avermi urtato e iniziò a giocherellare con il cellulare. Dovevo scendere ma la mia corsa non era ancora finita. Seconda metro… secondo giro. Percorrevo la banchina da un lato all’altro nell’attesa che arrivasse il mio mezzo di trasporto. Guardavo le facce delle persone e loro guardavano me. L’una più diversa dell’altra. Chissà quante storie avranno dietro quei volti… chissà quante ne avranno da raccontare… Oppure no… perché vivevano la solita vita di routine in cui tutto è uguale al giorno prima, compresa la metro in ritardo. Arrivò.
Cercai un posto dove sedermi.  Non era difficile a quest’ora. E come al solito iniziai ad osservare. Perché mi piace osservare la gente e capirne un po’ di più su di loro. Sono fatto così…
Una coppia di ragazzi salì alla fermata successiva. Si sistemarono nei posti di fronte. Lui iniziò a parlare ma non riuscii a capire cosa dicesse. La metro certe volte fa un casino infernale… soprattutto quando fa caldo ed i finestrini sono tutti mezzi aperti. Lei imbronciò il visto e gli rispose seccata. Sembrava averlo rimproverato per qualcosa. Beh… facile strigliare gli uomini… siamo sempre noi che sbagliamo. Ma è vero anche che alle donne piace rimproverare… ci provano gusto. Insomma certe volte, vogliono mettere i puntini sulle “i” giusto per ribadire che in amore ci sono delle regole. E quelle regole gli uomini devono rispettarle. O almeno far vedere. Fingere che tutto vada bene e che niente sia successo. Ma bisogna essere dei bravi mentitori perché le donne, l’intuito ce l’hanno dalla nascita. Era una coppia di giovani. Lui con la barba incolta e lei con una copia venuta male delle converse. Un sorriso comparve sul volto di entrambi… tutto regolare. Tutto come prima. Perché l’amore è cosi… Va e viene quando vuole. Sembra che a volte non ci sia… ma è sempre lì…
Che ti avvolge in una fredda serata primaverile…

Qualche ora prima…

– Chi è? –
– Sono Ciro. –
Qualcuno mi aprì il cancelletto ed entrai in casa di Francesca. Salutai i genitori ed andai in camera sua. Doveva ancora finire di prepararsi e, cosa che non sapevo, di studiare.
– Potevi dirmelo… che venivi prima! –
Disse con una vocina leggermente altisonante, come se non fosse stata felice che io fossi lì. Ma lo era… Mancavo da tanto all’appello in camera sua. Tutto era come l’avevo lasciato… Tutto nel solito ordine disordinato ma non troppo. – Cosa devi finire di studiare? – le chiesi mentre mi accomodavo sulla sua poltroncina. – Storia… la guerra dei trent’anni… domani ho la verifica. –
Pensai per un attimo a quanto fossi fortunato ad aver finito il liceo e a non aver più queste simili scocciature. – Dai… porta il quaderno che ripassiamo insieme… è ancora presto per andare a cena… –
– Sicuro che ti va? – mi chiese in cerca di sicurezza. – Certo bambolina. –
Uscimmo da casa sua. Il sole stava tramontando dietro le case ma il cielo era ancora illuminato. La guardavo.
– Cosa c’è? Non vado bene? Non sono truccata bene? Ho i capelli fuori posto? –
Non risposi. La guardavo perché mi piaceva e sorrisi nel vederla farsi mille paranoie.
– Dove andiamo? – le domandai.
– Alla panchina… –
La panchina in questione non era una semplice panchina… era La panchina. Un luogo speciale per lei. Un posto che l’aveva vista crescere nel corso degli anni. Una panchina dove magari sono cadute le sue lacrime… dove sono nati i suoi sorrisi… dove il sole la illuminava di giorno e la Luna le teneva compagnia la notte. Era un posto speciale.
Spesso quando eravamo ancora lontani, lei mi chiamava con il cellulare e stavamo ore ed ore a parlare e parlare. Spesso lei mi descriveva quella panchina. Mi diceva che le piaceva tanto stare seduta lì. E io la immaginavo così: stesa che guardava il cielo e parlava con me. Un bel po’ di strada ci divideva all’epoca… ma non ci fece perdere la speranza. Perché tutto può succedere… come per esempio può capitare che qualcuno prenda il tuo stesso treno, in un lontano giorno di mezz’estate.

– Ci sediamo? –
Guardai quella panchina per un attimo. Era abbastanza sporca. Poi guardai lei. Il suo sguardo caporalesco mi fece capire che dovevo sedermi per forza. E così feci, pensando: “Cosa non si fa per amore!”.
Prese il quaderno di storia mentre l’abbracciavo da dietro. Ci mettemmo comodi.
– Allora la guerra dei 30 anni… capitolo primo… –
La osservavo mentre ripeteva i concetti. Lei sorrideva e si bloccava leggermente come se ci fosse stata ancora quella innocente timidezza tra di noi. – Non mi guardare! – mi disse.
– Ok ok! – risposi, ma i miei occhi tornavano sempre su di lei… sulle sue mani che gesticolavano, sui suoi occhi che guardavano il cielo per non incrociare i miei, sulla sua bocca che avevo voglia di baciare.
E il bacio ci fu ma mi staccai subito altrimenti la sua verifica di storia sarebbe stata bianca come il latte. La lasciai continuare a ripetere… ci tenevo che andasse bene a scuola… o almeno non volevo essere io la causa dei suoi brutti voti!
Ci baciammo di nuovo… colpa sua stavolta…
– Dai… devi finire… –
– Chi se ne frega studio dopo… –
La voglia saliva mentre il sole finiva il suo giro. Ci baciammo per un po’, fino a quando, stanchi di quei bambini impertinenti, ce ne andammo da lì.
La serata prometteva bene.
Fino ad allora non avevamo ancora litigato. Nemmeno per gioco.
– Dove andiamo a cenare? –
– Al Barin… –
Il Barin era un piccolo pub del suo paese. Ci andavamo spesso a trascorrere le nostre serate quando venivo da lei. Era un pub di quelli classici: lungo bancone in legno, tavolini, birre alla spina. Un classico posto in cui avrei portato i miei amici a bruciare un po’ di neuroni. Già… i miei amici. Era da tanto che non vedevo quelle canaglie squattrinate. Ecco cosa mi ricordava quel pub: Sloppy Joe’s… il nostro pub. Il luogo dove sono praticamente cresciuto. Dove ho “buttato” i miei anni migliori. In mezzo alle persone che mi riportavano a casa perché ero troppo ubriaco… dove distruggevo le bottiglie di birra… dove davo un’occhiata a Dante e lui capiva: un altro giro! Un’altra corsa prima che il tempo mi avesse strappato via da lì. Mi mancava quel piccolo pub. E dire che le prime volte che ci andavo non lo sopportavo.
– A cosa pensi? –
– Niente di che… –
– Ecco i vostri menù… – disse la cameriera.
Ma a noi i menù non servivano. Sapevamo già cosa prendere. Il nostro solito… piadina e birra.
– Perché questa volta non prendiamo una bottiglia di Prosecco? –
– No… una è troppo poco! Facciamo due… anzi no, tre! – dissi io guardando il prezzo spropositato.
Lei sorrise ritornando a sbirciare il menù alla ricerca di quei gusti che già conoscevamo.
– Allora cosa prendete? – chiese la cameriera che era tornata da noi.
Parlai io e involontariamente mi sentivo come ad un interrogazione con due donne che mi osservavano.
– Ehm… allora vediamo… ci porti due piadine… con… ehm… prosciutto cotto, mozzarella… ehm… pomodori e salsa rosa! – ce l’avevo fatta, almeno la prima era andata, guardai la mia lei negli occhi per una conferma, come fanno i bambini quando rispondono bene.
– E da bere? –
– Da bere… 2 Ceres old nine… –
Ordinazione finita. Sorrisi guardando lei che mi aveva osservato per tutto il tempo.
– Che c’è? – le chiesi.
– Sei carino quando sei imbarazzato! – mi disse prendendomi in giro.
Sapevo come vendicarmi.
– Sai, ieri Luisa mi ha detto che deve lasciare la casa. – (Luisa era una delle mie coinquiline che insieme ad una sua amica dividevano la camera doppia del mio appartamento.)
Il suo sguardo si fece severo. In fondo in fondo, non l’aveva ancora mandata giù che io vivessi con due donne. E i suoi occhi dicevano tutto. Sembravano quelli di un gatto che stava per graffiare.
– Ah si?! E quando te l’ha detto? E dove te l’ha detto? E come era vestita?! –
A quella domanda risi.
– Beh Fra… che t’importa com’era vestita? di certo non girano nude per casa altrimenti non uscirei mai! –
– Ahia! –
Con un leggero schiaffo mi colpì la testa. La sua gelosia le ribolliva nelle vene, ma sapeva che non avrei mai fatto niente con quelle due. Si fidava di me… ma un po’ meno delle mie coinquiline.
Mangiammo. La piadina, come al solito, era ottima e la birra non era da meno. Decisamente dei soldi spesi bene. Discutemmo a lungo su questo o quello, ridendo e scherzando come sempre. Come al solito prendevo schiaffi a non finire per le mie battute che a lei non piacevano. E piano piano stavo imparando a non criticare le donne o apprezzarne altre.
È dura la vita degli uomini.
La notte stava scendendo dolcemente alle nostre spalle. Eravamo usciti dal Barin e passeggiavamo lungo le strade del suo paese. Sapevamo dove andare. Al nostro parchetto. La presi per mano guidandola in quel posto che non conoscevo. Sotto sotto, era lei a guidarmi e non solo su quella strada ma anche nella vita… quella vita che era diventata un po’ più sua. Che teneva stretta, come la mia mano in quel momento.
Nel parchetto dove eravamo diretti c’era, per così dire, la nostra “casa”. Era una casettina in legno e plastica con uno scivolo per i bambini.
Salimmo sulle scale in legno e ci sistemammo lì dentro.
La calda giornata stava facendo posto ad una notte che sembrava non aver capito quanti gradi c’erano prima. Faceva freddo. Lei aveva su una leggera camicetta. Mi tolsi la felpa facendo scorrere la zip.
La mettemmo sui nostri corpi… ci riscaldava mentre l’abbracciavo teneramente. Ci baciammo. E lì, della storia ce ne fregava ben poco. Perché i baci scorrevano lunghi ed appassionati. Non curanti del tempo e delle persone che si erano fermate poco distante… non curanti di niente se non dei nostri cuori che battevano, le nostre anime che s’intrecciavano, i nostri capelli che si mischiavano. Lei era bella come non mai. E io mi sentivo fortunato ad essere tra le sue braccia quella sera.
Il mio cuore riprese a battere più forte… Come se il passato non fosse mai esistito. Come se tutte quelle storie che l’avevano distrutto, fossero scomparse. Ora c’era lei che ricostruiva pezzo dopo pezzo un cuore malandato. Quello stesso cuore che volevo strapparmi perché troppo amaro. Troppi addii aveva dovuto sopportare… e troppe lacrime aveva fatto cadere…
Lei mi aveva reso più forte… mi aveva ridonato la vita…
Spero che forse… anche io per lei abbia fatto qualcosa…

..Buonanotte Bambolina..

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