Frammenti di vita #103

Laurea-24

Auguri a me…
a questo traguardo raggiunto….
Non potevo non condividere qui, sul diario che mi accompagna da sempre, questo importante momento della mia vita. E per farlo, voglio incollare l’ultima pagina della mia tesi… quella dedicata a chi mi ha aiutato in questa lunga sfida con la vita… quella dedicata anche a chi, non la leggerà mai…


Ringraziamenti

 

…E finalmente si giunge al termine.
La conclusione di questo lavoro rappresenta per me un traguardo ambito da tempo.
Dopo tante incertezze e insidie, scrivere questa pagina non mi sembra quasi vero.
In passato, sono state molte le occasioni in cui stavo per perdere le speranze e abbandonare tutto…
Ma il caso ha voluto, che la mia vita s’incrociasse con quella di queste persone:

In primis volevo ringraziare i miei genitori, colonne portanti della mia vita. Due persone di sani principi che avrebbero meritato di certo un figlio migliore…
Senza di loro non sarei potuto essere qui.

Un pensiero ai nonni materni che mi hanno sempre incoraggiato e sostenuto.

…alla nonna paterna, che come ultimo desiderio, voleva vedermi laureato.

Un pensiero anche a mio nonno, chiamato al cielo prima del dovuto. Mi ha cullato nell’infanzia come un figlio più che nipote… insegnandomi a essere cosi come sono.

Un pensiero ai miei fratelli… che a ogni natale vedevo sempre un po’ più grandi, perdendomi attimi di vita irrecuperabili…
Auguro anche a loro, di arrivare a scrivere queste righe.

Ringrazio gli amici di sempre, quelli con cui ho assaporato le prime gioie e le prime amarezze della vita: Mario, Luca, Gabriele…
…e in particolare Enzo e Gianni che continuano a condividere con me il loro percorso.

Ringrazio Annalisa che mi ha sempre aperto le porte di casa, nei momenti più grigi.

Ringrazio i compagni di università, con cui ho stretto brevi ma intense amicizie:
Carmen, Paolo, Lorenzo, Federico e Federica.

Ringrazio Lory che con la sua semplicità e bontà d’animo, interrompeva i pomeriggi pesanti dell’università…

Ringrazio Sara, la miglior coinquilina che ho avuto… la cui dedizione allo studio m’è stata d’esempio.

…Un ringraziamento speciale, lo voglio rivolgere a chi mi ha insegnato che bisogna rialzarsi subito, dopo una caduta e prendere la vita con più serenità. Grazie Andrea.

…e dulcis in fundo… ringrazio Giusy, la ragazza che mi ha fatto ritrovare il sorriso ormai perso da tempo.

 

Nuove sfide della vita ora mi attendono, spero che qualcuno di voi rimanga ad affrontarle insieme a me..

 

 

Grazie a tutti di vero cuore.


Laurea-25

Diario #5

HPIM0694

Campovolo 2005

Foto ritrovata tra le mille cose… e sotto un pezzo di ciò che scrissi al tempo:

 

 

Reggio Emilia. 6:00 am
Il treno era quasi arrivato.
Il sole stava spuntando all’orizzonte, tenue ed indifeso, lasciando schiudere pian piano i miei occhi. Avevamo viaggiato tutta la notte per essere lì.
Gli altri miei compagni di viaggio dormivano ancora ma io ero troppo impaziente per poterlo fare.
Mi alzai cercando di non svegliare nessuno e mi avvicinai al finestrino.
Vidi una grande pianura che sembrava non finire mai.
e in lontananza…
finalmente..
Distante da me una manciata di chilometri…
Lui..
Il Campo Volo…
Il tanto atteso Campo volo!
Iniziai a gridare “Ragazzi! Il campo Volo!.. Il Campo Volo!.. sveglia!.. siamo arrivati!..”
Rimasi lì a guardarlo attonito..
Il palco doveva essere gigantesco..
Le luci erano accese quasi a dire… “Siamo qui… aspettiamo te”…
Era tutto spettacolare…
Il cuore iniziava a battermi..
i miei occhi non erano mai stati tanto vicini al a quel cantante fino ad allora..
trattenevo a stento le lacrime..
Finalmente il treno si fermò..

Quatre-vingts! (la nouvelle de Paris VII)

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Quella mattina il sole entrò con una certa resistenza in quella casa parquettata sugli Champs-Élysées. S’insinuò tra le fessure laterali che la fitta tenda plastificata non riusciva a coprire. E una volta dentro, la scena che gli si presentò davanti aveva qualcosa di grottesco e innaturale che gli sembrava aver visto solo in Vietnam ai tempi della guerra. Quel sole rise di noi… delle nostre facce stanche e assonnate; delle posizioni strane in cui dormivamo; dei vestiti sparsi e dei resti di cibo ovunque; rise di noi, perché non c’era nessun altro in città di cui poter ridere. Rise di noi e poi, con la sua potente luce, ci svegliò.
Avevo la bocca impastata e lo stomaco più arido del Sahara d’estate. L’alcol aveva fatto il suo corso lasciando un gran mal di testa e una sete inappagabile.
Ci alzammo tutti e in un’ora fummo arzilli e ben svegli, pronti, per la prossima avventura parigina. Ci catapultammo in strada con lo stesso sole che ci aveva svegliato.
Facemmo colazione in un bar a caso. Con non poche difficoltà a ordinare una brioches e un cappuccino. Sedemmo a un tavolino all’interno e cercammo di radunare quanti più ricordi possibili della serata precedente. Cercai di capire cosa avevano fatto gli altri e scoprii che non era molto differente da ciò che avevamo fatto Rafael ed io: bere e provarci con le ragazze.
Concordammo tutti che cantare Con te partirò di Bocelli a Parigi, era una delle cose da fare per forza nella vita. Fu l’apoteosi della serata, e soprattutto, totalmente imprevista. Imprevista… come la chiamata che ricevette Alberto in quell’istante.
– Pronto! Hi Yann! How are you? –
Alberto parlò con questo tizio dal nome difficile per un paio di minuti. Gli dette appuntamento nel primo luogo che gli venne in mente: la Tour Eiffel.
“Un genio… decisamente una persona molto intelligente!” pensai.
Dare appuntamento a una persona, sotto uno dei monumenti più famosi del mondo, visitato da quasi 7 milioni di persone l’anno, di sabato, ci vuole coraggio.
Gli feci un grande elogio e c’incamminammo.

Percorremmo avenue George V osservando macchine di lusso e ristoranti eleganti. Attraversammo la Senna su Pont de L’Alma e qualcosa s’iniziò a vedere da lontano. La Torre. Restai fermo un istante a osservarla. Non perché fossi estasiato o meravigliato, al contrario, quella bizzarra piramide ferrosa, non mi diceva niente. Mi dava l’impressione di essere un grosso traliccio della corrente elettrica e niente più. Cercavo nel mio corpo qualche emozione da sprigionare. Ci riflettevo… osservavo ancora… pensavo… ricordavo… Niente! Per me, quella rinomata Tour Eiffel, era solo un ammasso di ferraglia ben costruito. Rendeva meglio nelle foto da cartolina.
Dopo aver passeggiato per rue de l’université, finalmente ci fummo sotto. Proprio al centro, circondati da migliaia di persone in fila per salire. C’erano due ascensori che partivano da due piloni opposti e all’interno degli altri c’erano le scale per permettere alle persone di scendere. Mi posizionai al centro e alzai lo sguardo osservando il grosso quadrato metallico. Il culo della torre in pratica. Non mi diceva niente neanche quello. Solo ferro! Ganci, bulloni, travi… innesti, giunture, fili… cose non molto diverse da un cantiere di un grattacielo. E osservando le facce delle persone incantate dal metallo, ero invidioso e curioso di sapere il perché. Anch’io volevo provare una bella emozione… sognare e liberare un wow dalla mia bocca. Ma non riuscivo a mentire…
– Yann! My friend! –
Un normalissimo ragazzo con una normalissima borsa venne incontro ad Alberto. Era francese senza alcun dubbio. Il suo viso già parlava di per sé. Era un Vincent Cassel con vent’anni di meno e un fisico asciutto.
Ci presentammo, ovviamente in inglese, e anche a lui spiegai che Ciro ed io avevamo lo stesso nome. Iniziammo a camminare. Non chiedetemi per dove né perché. Camminammo e basta. Alberto, che conosceva questo Yann, parlò con lui per un po’, poi lo lasciò libero e subito passai all’attacco. Quel volto, quei movimenti e quel fisico, erano pressappoco interessanti per la mia fervente curiosità. Dovevo sapere di più.
– Yenn… – dissi cercando di richiamare la sua attenzione. Non si voltò e dopo capii il perché. Il suo nome andava pronunciato in maniera corretta. Nemmeno io mi sarei girato se qualcuno avesse urlato “Cero” invece di Ciro. Chiesi l’aiuto del pubblico e mi suggerirono la corretta pronuncia.
– Yann! – si girò e mi sorrise.
Mi affiancai a lui mentre camminavamo. Mi raccontò un po’ di sé. Aveva ventun anni e studiava economia come il sottoscritto. Gli piaceva la borsa e gli investimenti e mi s’illuminarono gli occhi quando me lo rivelò. Gli domandai qualcosa sull’economia francese e mi lamentai con lui perché la borsa di Parigi aveva subito un black-out causando notevoli perdite agli investitori.
In quel momento, per me, questo Yann rappresentava la Francia e Parigi. Anche se non era della città ma di un paesino a 300 chilometri di distanza. Aveva preso un treno e ci aveva messo meno di un’ora ad arrivare. E mi prese in giro dicendo che in Italia, con una buona fortuna, ne avrebbe impiegate almeno 4. Per lui, io impersonificavo l’Italia. E il problema era che non potevo dargli torto pur volendo difendere a spada tratta il mio Paese.
E così si aprì una sfida non dichiarata. Dibattemmo a lungo, senza tregua. Gli dissi che i francesi erano così stupidi da mangiare le lumache! Lui mi rispose che gli italiani erano così stupidi da non riuscire a raccogliere l’immondizia!
Il ragazzo lì, mi toccò nel vivo. Non mollava e aveva la risposta pronta. Eccitante dibattere con lui.
Gli dissi che L’Arc de Triomphe, altro non era che una banalissima copia dell’Arco della Pace di Milano. Di rimando, mi fece notare che lo spumante era una banalissima copia dello champagne.
Eravamo testa a testa come due pugili al primo round. E con una mossa non molto regolare gli dissi che la Francia era un paese di checche. Mi rispose che il Gay Pride Europeo si era svolto a Roma. Colpito e affondato. Era come duellare contro un avversario di eguale potenza.
In un impeto di rassegnazione tirai fuori l’ultima chance: – Voi francesi non avete una parola sola per dire il numero ottanta! Dovete dire per forza quattro volte venti! –
Yann ci pensò un attimo. Roteò gli occhi titubante. Si morse il labbro pensieroso. Alla fine però… mi diede ragione!

Italia – Francia = uno a zero.

 

 

Senza andata ne ritorno… (Malpensa, Terminal 2)

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– Pronto mamma… –
– Ciao amore… tutto bene? Sei partito?-
– No, sono ancora in aeroporto. Ci sono dei casini… mi sa che farò tardi. –
– Va bene ti aspetto a casa… –
– Mamma, farò davvero tardi. Per ora si parla di partire verso l’una… –
– Così tardi? –
– Sì, non mi aspettare… vai a dormire. Mi faccio sentire io. –
Click

Guardai l’orologio. Erano le sette e fuori era buio già da un pezzo. Il freddo non aveva risparmiato nessuno. La neve, caduta in mattinata, era ancora lì, sulle macchine parcheggiate nel parcheggio dell’aeroporto. Probabilmente la stessa neve era anche sugli aerei e non partivano per quello. Guardai di nuovo lo schermo delle partenze. Scorrevo la lista cercando il volo per Napoli. Il mio volo.
Se non ci fossero stati ritardi, sarei stato già sotto il metal detector a far squillare qualcosa. Oppure ancora in fila, a imprecare contro la solita signora che s’era portata con sé di tutto, anche ciò che non poteva e non voleva lasciare niente in aeroporto. Mi capita ogni volta che devo prendere un aereo. Guardai lo schermo.
Eccolo lì il mio volo. Continuava ad accumulare ritardo. Come se l’orario fosse diventato un cronometro invece di un timer, che più passava il tempo che aspettavo e più aumentava quello che dovevo aspettare. La cosa strana era che non ero per nulla infastidito. Mi stavo ambientando in quell’aeroporto.

Mi misi alla ricerca di un posto per sedermi e per fare ciò che mi piace di più: osservare.
Camminavo per il lungo corridoio. Alla mia sinistra scorrevano i banchi di check-in vuoti e dall’altra parte invece, lunghe file di panchine piene zeppe di persone. Di posti vuoti manco a parlarne. Mi sembrava di non essere il solo ad aver avuto problemi con il volo quella sera. Chi aspettava lì non si era ancora imbarcato… e se non si era ancora imbarcato qualche motivo doveva pur esserci. C’era gente di tutti i tipi. Dagli extracomunitari ai ricchi uomini d’affari; ragazzini ancora vergini di voli e ultra settantenni che avevano visto nascere e fallire intere compagnie aeree. Questo variegato impasto di persone mi ricordava quasi una piccola città. Mi sentivo come nella piazzetta di un piccolo paesino. Dove persone andavano e venivano… e magari qualcuna si fermava.
Accanto a una ragazza pressappoco sedicenne c’era un posto vuoto. Sopra il sedile era appoggiata una copia del sole24ore. Presupponevo che quel posto fosse occupato da qualcuno andato chissà dove. Una ragazza non avrebbe mai potuto aver comprato un giornale del genere. Provai lo stesso a chiedere. Perché se il giornale fosse stato suo, la cosa mi avrebbe incuriosito parecchio.
– Scusa è libero? –
– No, mi spiace… – disse la bocca della ragazza in coincidenza con l’espressione del volto. Stranamente sembrava dispiaciuta davvero. Forse ero l’ennesimo ragazzo che le faceva la stessa domanda.
Chissà chi era seduto lì?
Suo padre?
Il suo fidanzato?
Certamente qualcuno più grande di lei.

Continuai per la mia strada.
Una donna mora quasi mi urtò, camminando in modo spedito e nervoso. Appena mi passò avanti disse, con un tono minaccioso: “che compagnia di merda!” e si guardò a destra e sinistra quasi a cercare appoggio.
Anche io dovrei essere incazzato come lei, pensai.
Il ritardo del mio volo era ancora incalcolabile. Guardai uno dei monitor e vidi che uno dei voli era stato cancellato.
Ecco il motivo di tanta incazzatura.
La donna di prima, doveva essere una dei passeggeri di quel volo.
Spero solo di non fare la stessa fine
Ormai stavo perdendo le speranze di trovare un posto, quand’è che vidi un’altra area dietro i check-in principali. Lì qualche posto era ancora vuoto.
Mi sedetti.
Cacciai il mio solito libro dalla borsa, inforcai gli occhiali e cominciai a leggere. Affianco a me, sulla stessa panchina erano sedute due ragazze. Parlottavano fastidiosamente tra solo. Ogni tanto di sottecchi le guardavo. Una aveva i piedi appoggiati scompostamente sul trolley davanti a lei e l’altra aveva qualcosa che non andava. Fatto sta che non riuscivo a leggere tranquillamente. A ogni capitolo chiudevo il libro infastidito dalle loro risatine, commenti e ciarlanerie. Incominciai ad ascoltare i loro discorsi mentre guardavo distrattamente lo schermo lontano davanti a me. Parlavano di amici lontani, di università e di storie d’amore mancate. Una si chiamava Martina e l’altra non so, ma continuava a incuriosirmi. Un colpo di tosse mi diede la conferma. Questa qui… non sta bene.
Tornai a me. Il mio stomaco brontolava. Avevo fame e tutti i miei propositi di mangiare a casa con la mia famiglia erano svaniti. Dovevo cenare qui. Così mi alzai e mi diressi verso la piccola pizzeria del terminal che avevo notato prima, durante la mia “passeggiata”.
Camminando incrociai un ragazzo e una ragazza.
Guardai le scarpe di lei e le scarpe di lui. Le scarpe a volte dicono molte cose. Credo di poter descrivere il carattere di una persona solo dalle scarpe… e quando in un uomo, le scarpe s’intonano con il colore del foulard intorno al collo può voler dire solo una cosa:
Sicuramente quei due non sono fidanzati, perché lui è…
– Guarda questo ciuffo… continua ad andare a destra e sinistra! Mi sto irritando! – disse lui a lei.
Sorrisi.
Ecco la pizzeria. Si sentiva un odore misto di dolce e salato. Roba che all’olfatto sembrava piacevole ma al gusto sarebbe stato un abominio. Ordinai un pezzo di pizza e mi guardai intorno alla ricerca di un tavolino. Intravidi tra i tanti la ragazzetta di prima che mi aveva negato il posto. Mi guardò anche lei per un attimo. Mi fissò un po’ troppo per non avermi riconosciuto. Distolsi lo sguardo da lei e osservai lui, il ragazzo che cenava con lei. Aveva i suoi stessi occhi..
È suo fratello maggiore…
Sorrisi sotto i baffi e mi sedetti al mio tavolo. Mentre tagliavo la pizza, intravidi una signora di mezza età che girava con un carrello pieno di valigie. Ma più che valigie mi sembravano un ammasso di “perché”. Non so per quale strana ragione fisica il mio istinto si comporti così. Quando osservo una persona che desta la mia attenzione, il mio cervello comincia a farsi diecimila domande su ogni suo piccolo dettaglio. Cominciando dalle suole delle scarpe fino a qualche ciuffo di capelli fuori posto; e come un algoritmo ben progettato inizia a darmi automaticamente delle risposte. Quando però, qualcuna di queste domande resta incompleta, lì la mia curiosità schizza alle stelle.
Cos’ha che non va quella signora? Sembra un’anziana passeggera come tante…
Sotto sotto, c’era qualcosa.
Decisi però di lasciare in pace con lo sguardo la povera signora e mi concentrai sulla mia mediocre pizza margherita.
Appena finito mi alzai e mi ricomposi.

E ora un bel caffè…
Mentre camminavo verso il bar un bambino correndo mi urtò una gamba. La madre che lo seguiva subito dietro gli urlò qualcosa in non so quale lingua. Il bambino si girò un attimo e poi riprese a correre via.
Quel bambino mi darà dei problemi… pronosticai.
Detesto i bambini monelli. Certo, esistono cose che detesto di più. Ma quelli se si mettono d’impegno riescono a superare anche una folla di studenti rumorosi al corso di Matematica 2… o un passante indeciso se attraversare o meno la strada mentre sto guidando.
Arrivai al bar.
Un ragazzo di bel aspetto mi chiese cosa volessi.
– Un Caffè… grazie –
– 95 cent –
Gli diedi un euro e lui cercò in cassa un resto che non c’era. Prese uno di quei bussolotti di monete che si usano spesso nei supermercati. Lo spezzò a metà e saltò via una moneta da 5 cent che arrivò diritta nelle mie mani. Il barista con un sorriso mi disse: – Se volevo farlo a posta non ci riuscivo… –
Andai al bancone e aspettai il mio caffè. Casualmente affianco a me si posizionarono  le due ragazze di prima.
Martina e l’altra.
Martina prese un caffè e l’altra:
– Un tè grazie. Molto caldo… non mi sento bene. –
Il cameriere la guardò incuriosito, forse più di me.
– Che cos’hai? –
– Ho un po’ di febbre… –
– Anche tu! Se vuoi, di la ho la Tachipirina. Anche io oggi sto male… –
Risero tutti e tre.
Beati loro che ne ridono di certe malattie..
Volsi lo sguardo verso i monitor. Niente… qui si mette sempre peggio. Al mio aereo non andava di volare.
A un tratto si avvicinò la strana signora di prima. Il suo giubbottino viola stonava con tutto il suo abbigliamento. Si appoggiò con i gomiti sul bancone e cercò di avere l’attenzione del barista, non riuscendoci.
Sbirciai un attimo il suo carrello di valigie. Sembrava tutto normale ma mi chiesi: “Perchè non le ha ancora imbarcate tutte queste valigie, invece di farle vagabondare per tutto il terminal?” E mi sa che la parola giusta l’avevo appena pensata: vagabondare.
Quando la signora capì che il barista la stava ignorando, si rivolse a me.
– Scu-scusa… ma bi-bisogna fa-fare lo scontrino pri-prima? –
– Si certo… lì, guardi. – le risposi senza chiederle come abbia fatto a pronunciare la parola più difficile della frase senza balbettare.
La signora se ne andò appena dopo la mia risposta e non mi curai più di lei.
Dopo aver finito il mio caffè e aver salutato il gentile ragazzo, andai verso una panchina libera, poco distante. A quell’ora l’aeroporto si stava spopolando. A mano a mano le persone s’imbarcavano e partivano per le proprie destinazioni. Mi sedetti e aprii il mio libro.
Un paio di capitoli dopo arrivò, sempre correndo, il bambino pestifero di prima. Staccai gli occhi per guardarlo e all’improvviso si bloccò. Il suo viso si fece serio. Si chinò e un improvviso conato di vomito colpì il pavimento. Il bambino si guardò intorno con una faccia di chi ha capito di aver fatto qualcosa di sbagliato. Continuai a fissarlo esterrefatto e schifato. Raccolsi subito le mie cose e me ne andai via da quella zona.

Con una faccia disgustata e un passo nervoso mi allontanai. Vidi un piccolo schermo affisso al muro sulla mia destra. Cercai il mio volo. Un’altra mezz’ora di ritardo si era aggiunta all’estenuante attesa. Sospirai. Guardai l’orologio e calcolai la mia villeggiatura al terminal 2 di Milano Malpensa: 4 ore.
Dovrà partire prima o poi!
Appoggiai la mia valigetta sul sedile di un posto in una zona di passaggio del terminal. Sperai, per il mio stomaco, di cancellare al più presto la scena di poco prima. Di leggere non mi andava più, anche perché, il rumore della pulitrice elettrica guidata dall’inserviente poco più in là, era molto fastidioso. Presi le cuffie e misi su un po’ di musica.
Mi passò davanti la famosa signora di prima col suo ingombrante carrello di valigie. Cercai di convincermi che fosse un’insolita passeggera distratta e un po’ ritardata ma non ci riuscii. Per convincere il mio istinto ci voleva ben più di una conferma. La guardai sfilare via. Avanzava ondeggiando come se il carrello dinanzi a lei fosse un carrello della spesa. Si fermò e chiese qualcosa all’inserviente che stava passando con la sua fastidiosissima pulitrice, proprio in quel punto. Per gioia delle mie orecchie e di non so chi altro che prima aveva esclamato “chist c’ha rutt u cazz”, l’inserviente fermò il suo rumoroso attrezzo e si mise a parlottare con la strana signora.
Da lì non riuscivo a sentire cosa si stessero dicendo e continuai a chiedermi il perché non avesse ancora imbarcato i bagagli. Intuii qualche parola.
Parlavano di orari, di persone, di bar che chiudevano e di lui che doveva pulire nonostante ci fossero ancora tante persone in aeroporto.
– Di solito a quest’ora non c’è più nessuno… – le disse.
La signora gli fece un’altra domanda, ovviamente balbettando.
– No, no, al terminal 1 non chiudono, lì restano aperti tutta la notte, perché arrivano i voli intercontinentali… –
L’inserviente rimise in moto il suo stressante trabiccolo mentre la signora sembrava cercasse altre domande da fare per non interrompere quella conversazione…
Voleva chiaramente perder tempo. Lo stesso tempo che io stavo faticosamente aspettando. Sembrava irrispettoso da parte sua, soprattutto quando il malcontento per il ritardo stava aumentando.

Poco lontano da me c’era il tipico luogo comune napoletano. La solita famigliola numerosa e piena di difetti. La madre, ovviamente in sovrappeso come due dei tre figli e il marito, tipico operaio emigrato al nord in cerca di lavoro. Ogni volta che osservavo certe persone, era come se vedessi un pezzo della mia tanto odiata città. Piena di difetti e obesa anche lei… non di lipidi ma di problemi e persone.

Quella famigliola, però, di problemi sembrava non averne. La loro simpatia e spensieratezza, anche nel disagio, copriva ogni cosa. È questo che rende speciali i napoletani. Ridono anche quando soffrono… e il tipico detto “addà passà a nuttat” valeva non solo per quella notte ma per la vita in generale.

Ormai la mezzanotte era passata da un pezzo e il mio cellulare segnava già gli impegni per il giorno dopo.
Iniziai ad annoiarmi e non mi andava di leggere ne di ascoltare la musica. Volevo partire.

Una giovane coppia, poco distante, sembrava combattere la noia meglio di me. Erano visibilmente brilli e accesi in volto. Con un bicchiere a testa, ancora mezzo pieno di una bionda, parlottavano tra loro in qualche lingua nordica. Sorridevano ad ogni frase, forse incoscienti che quello fosse il posto meno adatto per ubriacarsi. Lui guardò lo schermo cercando di leggere gli avvisi degli aerei scritti in italiano.
– Ann… Anulato… –
– Annullato! – lo corresse la compagna.
Risero. Forse non conoscendo il significato di quella parola.
Li guardai invidioso.
Invidioso di tanta felicità e spensieratezza. Invidioso di tanta complicità di coppia. Invidioso degli sguardi e del loro amore che mostravano aiutandosi l’un l’altro. Anche io avrei voluto essere così. Solo che di bionde ne avrei dovuto bere almeno il doppio per scalfire il mio fegato veterano e scollegare i fili della mente.
Non si risolve tutto con l’alcol… disse la mia coscienza imitando qualche amico.
Le persone riescono ad essere felici anche normalmente. Basta una buona compagnia e qualche frase giusta mescolata ad una giusta scenografia.
Non serve rovinarsi… non ser…

I miei pensieri s’interruppero…

La porta scorrevole d’ingresso si aprì producendo uno strano cigolio e una ventata d’aria fresca che colpì tutti i presenti. Ad aprirla era stato il carrello pieno zeppo di valigie della signora con il giubbottino viola.

Se ne sta andando!
Avevo ragione. Non doveva partire! 
Quella signora era una vagabonda abilmente “travestita” da passeggera.
Tutto quadrava: le valigie, il barista, gli orari di chiusura. Non era affatto una passeggera e il mio istinto, ancora una volta, aveva ragione…

La sua figura ormai non si vedeva più. Era andata via… chissà per quale altro posto affollato, chissà per quale altro luogo cittadino ancora aperto… chissà dove avrebbe passato la notte… lei… il suo carrello… e il suo invisibile alone di malinconia.

E fu lì che decisi di tirar fuori il mio portatile e di scrivere 
tutta questa storia. Fu un ottimo passatempo fino all'imbarco sul mio volo... che alla fine partì. Un po' tardi, ma arrivai a casa sano e salvo chiudendo quella nottata movimentata al terminal 2 di Milano Malpensa.


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