Si viene si va… per sempre! (V)

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che la Spagna e l’Ungheria non sono poi tanto male…
Devo scappare… sai… genitori… casa… famiglia…
Mi capisci…
Ah! Ti devo 5 euro! Ricordamelo…
P.S. Minchia che freddo!!

11:41

Ero seduto su un muretto. Respiravo guardando l’orizzonte davanti a me. Non riuscivo a vedere la fine di questa immensità. Trovavo così strano non riuscire a percepire la fine di un qualcosa di finito come il mondo. Però era bello sapere che potevo avere l’infinito così vicino a me da poterlo toccare se solo facessi un passo più in là… ma muovendomi, le cose cambierebbero… e l’infinito si sposterebbe in un altro luogo… toccherebbe altre mete a me inaccessibili, mantenendo sempre la sua aura di fantasia.

Ero in una via sperduta del Molise. La mia Audi era parcheggiata dietro di me. Mi ero perso. Non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi. Presi il mio cellulare dalla tasca. Provai un’ultima volta ad accenderlo. Niente… morto… e con lui era morto anche il mio navigatore. Guardai lo schermo nero con una smorfia di rassegnazione.
E ora chi mi tira fuori da questo casino?
Incrociai le gambe sul muretto di cemento che costeggiava quella lingua d’asfalto che avrebbe dovuto essere una strada, anziché un viottolo di campagna. Maledetto navigatore ignorante! Quell’aggeggio doveva saperne più di me, doveva farmi da guida e invece mi aveva spinto per chilometri e chilometri a viaggiare nel nulla. Non un cartello… un’indicazione… una freccia per terra. Niente! Eravamo solo io… la mia macchina, questo muretto e chilometri e chilometri di prati, alberi da frutto, campi e qualche casa troppo lontana per un: mi può dare una mano?

Forse la vita voleva mettermi alla prova. Voleva vedere se mi sarei incazzato come al solito. Se avrei scaraventato qualche bestemmia al cielo per farlo tuonare un po’. Ma non gliela diedi vinta. Ero calmo e pacato. Perché arrabbiarmi, poi? Alla fine… nel bene o nel male, la soluzione si trova sempre. Solo che io scelgo sempre quella più facile e quella più sbagliata.
Se vuoi punirmi per questo, sappi che è un supplizio fantastico…

Tirava un bel venticello che mi rinfrescava la mente. Chiusi gli occhi e mi lasciai percorrere dal freddo. Avrei voluto tanto che arrivasse al mio cuore, così avrebbe smesso di darmi il tormento. Gira e rigira è sempre lui il protagonista della mia vita. Fuori sono solo un ragazzo di ventitré anni, quasi ventiquattro… con un giubbotto di pelle che mi è sempre andato un po’ largo… con i capelli a spazzola e gli occhi profondi che la sanno lunga. Sono io… e troppo spesso lascio che il mio passato parli per me.
Tutto quel verde mi fece pensare. Nella mia Milano, trovare pezzi di natura è molto difficile. E uno di quei “pezzi” lo condividemmo insieme.
Posso mandarti un ricordo? Sono un po’ lontano… ma spero che ti arrivi lo stesso… bambolina.

Ricordi quando eravamo sul prato del Parco di Porta Venezia, con quella coperta blu che si riempiva sempre di foglie e ciuffi d’erba? Ti piaceva. Ti piaceva stare sdraiata tra le mie gambe con la testa appoggiata al mio petto. Ricordi gli scarabocchi infantili che facevamo quando portavo pastelli e fogli bianchi? Ricordi la Settimana enigmistica che non riuscivamo mai a finire, perché spesso litigavamo su una definizione e uno dei due voleva avere per forza ragione? Che testardi… Due teste dure che spesso si davano capocciate di pensieri diversi. A volte me lo chiedo se eravamo poi tanto diversi… E mi chiedo anche se sia stato giusto demolire un castello di 4 anni in pochi giorni. Non lo so… Lascio scorrere… cerco il mio spazio. Ma a volte sento un vuoto incolmabile… e parlo di te a me stesso fingendo che tu ci sia ancora.

Una lacrima scese e accesa dal vento mi bruciò la guancia. La asciugai con il polsino in stoffa del giubbotto, troppo abituato a raccogliere la mia sofferenza. Sentii dei passi dietro di me. Un uomo anziano portava una carriola piena di erbacce e strumenti di lavoro. Aveva un viso serio e deciso scolpito dagli anni. Si avvicinava nella mia direzione con un passo svelto. Aveva le scarpe sporche di terra e i vestiti non erano da meno. Sorrisi, sperando che fosse la mia soluzione. Scesi dal muretto e gli andai incontro. Lui si fermò a pochi passi da me.
– Salve signore… mi può dare una mano? –
– Certo giovanotto! Che posso fare? –
– …dirmi come fare a tornare a casa… –
– Dove devi andare? –
– Benevento… –
Il signore si stupì. Si mise una mano sulla fronte e si guardò intorno.
– Benevento?! Come diavolo hai fatto a finire qui? –
– Beh… è una lunga storia… se mi aiuta gliela racconto… –

Monotonia… leggero tocco di libertà…

Monotonia Leggero Tocco di Libertà

Vita vita vita…

Sugli stessi passi mi trascinavo da giorni. Sulle stesse lunghe vie. Nella stessa grande città. Quella vita sembrava un gioco di specchi. Uno straordinario spettacolo d’illusioni che si ripetevano ogni giorno. Era difficile ammetterlo. Ma la vita in solitaria mi stava ustionando. “L’hai scelto tu”… mi dicevano… “ed ora vai… fino in fondo…”. Tre anni. Era quasi una prigionia. Io prigioniero delle mie scelte che dentro di me urlava di uscire. Era il Ciro delle bravate… delle notti bianche… e dal tasso alcolico sempre in salita. E lo reprimevo dentro. Perché avevo scelto la vita da bravo ragazzo. Avevo scelto di essere così: calmo, tranquillo e preciso. Ed ero prigioniero di quello stato… di quelle quattro mura e del suo interno. Prigioniero di libri incompresi e di appunti fugaci… di ore in metro e ore in uni… ore di semi libertà che come un prigioniero mi guadagnavo in settimana. Avevo la mente che scoppiava e la voglia di vivere nel sangue. Tremavo al solo pensiero della mia macchina che correva senza di me sulle strade… sulle mie strade. In quel posto che non aveva ancora perso il nome di “casa”. 

Ho messo via un bel po’ di cose diceva qualcuno. E chi conosce almeno un briciolo di me… sa per certo quanto io riesca a metter via le “cose”.

Dannati ricordi.. continuano a tornare… nonostante anche le mie recenti amnesie. Come si fa? Come si fa a dimenticare tutto?

Forse non era questa la strada… forse la strada era continuare a creare ricordi… in modo che gli altri non abbiano il tempo di ritornare. Già…

 

Aeroporto di Malpensa..

 

– Correte!! Su! Siamo in ritardo!! –

Il sole entrava dalle grandissime vetrate alla mia sinistra. I miei passi erano gli unici a sentirsi in quell’enorme edificio. Il mio zainetto traballava mentre correvo a perdifiato.

Guardai in alto il grande orologio digitale.

9.23

– Cazzo cazzo… siamo in ritardo!! –

Mi girai indietro e vidi che avevo distanziato di parecchio Luca e mio cugino Ciro. Li guardai per un istante come per dirgli “Dannazione muovetevi!” ma non sembravano aver inteso.

Continuavo a correre.

Alla mia sinistra scorrevano le insegne dei vari imbarchi…

D-09

D-10

Ci siamo quasi. D-12 eccolo. Ci sono. Arrivai al banco stremato. L’hostess e un tizio pelato mi guardarono allibiti.  – Dobbiamo imbarcarci… – dissi con un briciolo di fiato.

– Troppo tardi ragazzi… –

– No no… dobbiamo imbarcarci! – ripetei come se non mi avesse capito.

– Non si può più! Vede quell’aereo lì fuori… Il pilota sta già rollando… –

– Cazzo… –

In quel momento arrivarono anche i miei compagni. Videro la mia faccia e capirono all’istante.

– Ed ora che si fa? –

– Bè… ragazzi potete andare in biglietteria e vedere se vi cambiano il volo… – disse il tizio pelato.

Ci guardammo.

– Si… dai… torniamo indietro… –

– Che sfiga… vabbè… una volta nella vita bisogna perdere l’aereo… – disse Luca.

– Sai che bello se questo aereo cade e noi ci salviamo! –

– Già… come in Final Destination… –

– Metti che cade quello che prenderemo ora e quello no… – dissi io.

(Grattata scaramantica generale)

– Fermi fermi… guardiamo su questo schermo quando ci sarà il prossimo. Dunque.. Bari… Roma… Napoli… Ecco. 14.30. –

– Cavolo… così tardi… che facciamo fino a quell’ora? –

(Fruscio di vento stile deserto)

– Ok! Iniziamo col tornare in biglietteria. –

 

L’operazione in apparenza sembrava facile. In fondo dovevamo solo tornare sui nostri passi. Ma di ostacoli ne trovammo parecchi. Scale mobili a senso unico, tornelli, lunghi corridoi… quell’aeroporto sembrava costruito in modo che non si potesse più tornare indietro. Come se la perdita di un aereo fosse una cosa non concepita. Continuavamo a camminare. Lentamente questa volta. Dalla grande vetrata vedevo un aereo che stava partendo. Magari era il nostro… e fantasticavo sull’immenso spazio della pista d’atterraggio. Non sapevo perché ma m’incuriosiva. Era un gigantesco luogo… e tutto in confronto sembrava più piccolo. La prima volta che presi l’aereo non potetti ammirare tutto ciò. Perché arrivai a Milano che era notte fonda… e l’oscurità copriva il panorama. Ora invece la luce era ovunque e potevo ammirare quest’immensa realtà… fatta di aerei mastodontici, enormi sale d’aspetto, lucine intermittenti… e la torre controllo lontana…

Guardai avanti… i miei compagni di viaggio mi avevano distanziato. O forse ero io che avevo rallentato il passo. Eccoli lì… alla fine di quella fugace avventura durata 5 giorni. Tra litigi, battibecchi… e storie assurde…

Come quella sera che andammo a Cius… e che dopo tre giri di bionde invitammo la giovane cameriera ad alloggiare nel nostro albergo al parco della vittoria. Oppure quando nel ritorno a casa suonammo i campanelli di tutta Milano… come giovani adolescenti non contenti della loro età. Per non parlare delle passeggiate sui navigli alle tre di notte… quando ormai non c’era più nessuno… e tornare a casa era sempre un’impresa. Ma alla fine si ritornava sempre lì… dall’alto del mio balcone a fumare la solita sigaretta guardando la strada… e passare le notti insonne perché Luca, russava da Dio.

Ed ora li vedevo lì… che discutevano di non so quale discorso assurdo. E non sapevo cosa avrei fatto se loro non  fossero esistiti…

Non so cosa farei se loro, ogni tanto, non spazzassero via…

…quest’aria di malinconica monotonia…

 

Alla prossima ragazzi..

 

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