E neanche un libro potrà descriverlo mai…

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La metro scorreva veloce lungo il suo binario. Si fermava ad ogni tappa obbligata per far salire quei pochi passeggeri impazienti. Dopotutto era mezzanotte passata e la voglia di tornare a casa si faceva sentire. Un paio d’indiani un po’ brilli, facevano un casino che si sparpagliava per tutto il vagone. Parlavano ad alta voce come se fossero stati in mezzo alla strada. Fastidiosi a quest’ora. Soprattutto per il mio Tetris. Chiusi il cellulare. Ad ogni fermata salivano persone diverse… giovani… vecchi… stranieri… La metro è così: multietnica. Non potrai mai azzeccare chi si siederà accanto a te… o chi ti schiaccerà i piedi perché troppo distratto. Ormai c’ho fatto l’abitudine. Una coppia di mezz’età discuteva in piedi vicino alla porta. Sembravano avere futili problemi. Come tagliare l’erba del prato o fare la spesa. Il mulatto di fronte a me, invece, leggeva un giornale arabo. Lo si capiva dalla strana scrittura tipica di quei paesi. Si sistemò gli occhiali e mi guardò. Voltai lo sguardo da un’altra parte. Duomo. Sale sempre un mucchio di gente in Duomo… a qualsiasi ora. E quella sera non era da meno. I posti a sedere si riempirono. Qualcuno rimase in piedi appoggiato al palo con la faccia assonnata. La donna di fronte a me, guardava con insistenza il biglietto. Aveva il volto triste… sembrava che qualcosa non fosse andata a buon fine quella sera. Già… le cose spesso non vanno come vorremmo. Magari un litigio. Un apprezzamento sgarbato. Una persona che non ci si aspetta d’incontrare. Spesso ci si sente soli… e molte volte ci si ritrova su una metro a rigirare il biglietto tra le mani guardando le fermate scorrere.
Un signore di bell’aspetto in un abito elegante si sedette accanto a me. Chiese scusa per avermi urtato e iniziò a giocherellare con il cellulare. Dovevo scendere ma la mia corsa non era ancora finita. Seconda metro… secondo giro. Percorrevo la banchina da un lato all’altro nell’attesa che arrivasse il mio mezzo di trasporto. Guardavo le facce delle persone e loro guardavano me. L’una più diversa dell’altra. Chissà quante storie avranno dietro quei volti… chissà quante ne avranno da raccontare… Oppure no… perché vivevano la solita vita di routine in cui tutto è uguale al giorno prima, compresa la metro in ritardo. Arrivò.
Cercai un posto dove sedermi.  Non era difficile a quest’ora. E come al solito iniziai ad osservare. Perché mi piace osservare la gente e capirne un po’ di più su di loro. Sono fatto così…
Una coppia di ragazzi salì alla fermata successiva. Si sistemarono nei posti di fronte. Lui iniziò a parlare ma non riuscii a capire cosa dicesse. La metro certe volte fa un casino infernale… soprattutto quando fa caldo ed i finestrini sono tutti mezzi aperti. Lei imbronciò il visto e gli rispose seccata. Sembrava averlo rimproverato per qualcosa. Beh… facile strigliare gli uomini… siamo sempre noi che sbagliamo. Ma è vero anche che alle donne piace rimproverare… ci provano gusto. Insomma certe volte, vogliono mettere i puntini sulle “i” giusto per ribadire che in amore ci sono delle regole. E quelle regole gli uomini devono rispettarle. O almeno far vedere. Fingere che tutto vada bene e che niente sia successo. Ma bisogna essere dei bravi mentitori perché le donne, l’intuito ce l’hanno dalla nascita. Era una coppia di giovani. Lui con la barba incolta e lei con una copia venuta male delle converse. Un sorriso comparve sul volto di entrambi… tutto regolare. Tutto come prima. Perché l’amore è cosi… Va e viene quando vuole. Sembra che a volte non ci sia… ma è sempre lì…
Che ti avvolge in una fredda serata primaverile…

Qualche ora prima…

– Chi è? –
– Sono Ciro. –
Qualcuno mi aprì il cancelletto ed entrai in casa di Francesca. Salutai i genitori ed andai in camera sua. Doveva ancora finire di prepararsi e, cosa che non sapevo, di studiare.
– Potevi dirmelo… che venivi prima! –
Disse con una vocina leggermente altisonante, come se non fosse stata felice che io fossi lì. Ma lo era… Mancavo da tanto all’appello in camera sua. Tutto era come l’avevo lasciato… Tutto nel solito ordine disordinato ma non troppo. – Cosa devi finire di studiare? – le chiesi mentre mi accomodavo sulla sua poltroncina. – Storia… la guerra dei trent’anni… domani ho la verifica. –
Pensai per un attimo a quanto fossi fortunato ad aver finito il liceo e a non aver più queste simili scocciature. – Dai… porta il quaderno che ripassiamo insieme… è ancora presto per andare a cena… –
– Sicuro che ti va? – mi chiese in cerca di sicurezza. – Certo bambolina. –
Uscimmo da casa sua. Il sole stava tramontando dietro le case ma il cielo era ancora illuminato. La guardavo.
– Cosa c’è? Non vado bene? Non sono truccata bene? Ho i capelli fuori posto? –
Non risposi. La guardavo perché mi piaceva e sorrisi nel vederla farsi mille paranoie.
– Dove andiamo? – le domandai.
– Alla panchina… –
La panchina in questione non era una semplice panchina… era La panchina. Un luogo speciale per lei. Un posto che l’aveva vista crescere nel corso degli anni. Una panchina dove magari sono cadute le sue lacrime… dove sono nati i suoi sorrisi… dove il sole la illuminava di giorno e la Luna le teneva compagnia la notte. Era un posto speciale.
Spesso quando eravamo ancora lontani, lei mi chiamava con il cellulare e stavamo ore ed ore a parlare e parlare. Spesso lei mi descriveva quella panchina. Mi diceva che le piaceva tanto stare seduta lì. E io la immaginavo così: stesa che guardava il cielo e parlava con me. Un bel po’ di strada ci divideva all’epoca… ma non ci fece perdere la speranza. Perché tutto può succedere… come per esempio può capitare che qualcuno prenda il tuo stesso treno, in un lontano giorno di mezz’estate.

– Ci sediamo? –
Guardai quella panchina per un attimo. Era abbastanza sporca. Poi guardai lei. Il suo sguardo caporalesco mi fece capire che dovevo sedermi per forza. E così feci, pensando: “Cosa non si fa per amore!”.
Prese il quaderno di storia mentre l’abbracciavo da dietro. Ci mettemmo comodi.
– Allora la guerra dei 30 anni… capitolo primo… –
La osservavo mentre ripeteva i concetti. Lei sorrideva e si bloccava leggermente come se ci fosse stata ancora quella innocente timidezza tra di noi. – Non mi guardare! – mi disse.
– Ok ok! – risposi, ma i miei occhi tornavano sempre su di lei… sulle sue mani che gesticolavano, sui suoi occhi che guardavano il cielo per non incrociare i miei, sulla sua bocca che avevo voglia di baciare.
E il bacio ci fu ma mi staccai subito altrimenti la sua verifica di storia sarebbe stata bianca come il latte. La lasciai continuare a ripetere… ci tenevo che andasse bene a scuola… o almeno non volevo essere io la causa dei suoi brutti voti!
Ci baciammo di nuovo… colpa sua stavolta…
– Dai… devi finire… –
– Chi se ne frega studio dopo… –
La voglia saliva mentre il sole finiva il suo giro. Ci baciammo per un po’, fino a quando, stanchi di quei bambini impertinenti, ce ne andammo da lì.
La serata prometteva bene.
Fino ad allora non avevamo ancora litigato. Nemmeno per gioco.
– Dove andiamo a cenare? –
– Al Barin… –
Il Barin era un piccolo pub del suo paese. Ci andavamo spesso a trascorrere le nostre serate quando venivo da lei. Era un pub di quelli classici: lungo bancone in legno, tavolini, birre alla spina. Un classico posto in cui avrei portato i miei amici a bruciare un po’ di neuroni. Già… i miei amici. Era da tanto che non vedevo quelle canaglie squattrinate. Ecco cosa mi ricordava quel pub: Sloppy Joe’s… il nostro pub. Il luogo dove sono praticamente cresciuto. Dove ho “buttato” i miei anni migliori. In mezzo alle persone che mi riportavano a casa perché ero troppo ubriaco… dove distruggevo le bottiglie di birra… dove davo un’occhiata a Dante e lui capiva: un altro giro! Un’altra corsa prima che il tempo mi avesse strappato via da lì. Mi mancava quel piccolo pub. E dire che le prime volte che ci andavo non lo sopportavo.
– A cosa pensi? –
– Niente di che… –
– Ecco i vostri menù… – disse la cameriera.
Ma a noi i menù non servivano. Sapevamo già cosa prendere. Il nostro solito… piadina e birra.
– Perché questa volta non prendiamo una bottiglia di Prosecco? –
– No… una è troppo poco! Facciamo due… anzi no, tre! – dissi io guardando il prezzo spropositato.
Lei sorrise ritornando a sbirciare il menù alla ricerca di quei gusti che già conoscevamo.
– Allora cosa prendete? – chiese la cameriera che era tornata da noi.
Parlai io e involontariamente mi sentivo come ad un interrogazione con due donne che mi osservavano.
– Ehm… allora vediamo… ci porti due piadine… con… ehm… prosciutto cotto, mozzarella… ehm… pomodori e salsa rosa! – ce l’avevo fatta, almeno la prima era andata, guardai la mia lei negli occhi per una conferma, come fanno i bambini quando rispondono bene.
– E da bere? –
– Da bere… 2 Ceres old nine… –
Ordinazione finita. Sorrisi guardando lei che mi aveva osservato per tutto il tempo.
– Che c’è? – le chiesi.
– Sei carino quando sei imbarazzato! – mi disse prendendomi in giro.
Sapevo come vendicarmi.
– Sai, ieri Luisa mi ha detto che deve lasciare la casa. – (Luisa era una delle mie coinquiline che insieme ad una sua amica dividevano la camera doppia del mio appartamento.)
Il suo sguardo si fece severo. In fondo in fondo, non l’aveva ancora mandata giù che io vivessi con due donne. E i suoi occhi dicevano tutto. Sembravano quelli di un gatto che stava per graffiare.
– Ah si?! E quando te l’ha detto? E dove te l’ha detto? E come era vestita?! –
A quella domanda risi.
– Beh Fra… che t’importa com’era vestita? di certo non girano nude per casa altrimenti non uscirei mai! –
– Ahia! –
Con un leggero schiaffo mi colpì la testa. La sua gelosia le ribolliva nelle vene, ma sapeva che non avrei mai fatto niente con quelle due. Si fidava di me… ma un po’ meno delle mie coinquiline.
Mangiammo. La piadina, come al solito, era ottima e la birra non era da meno. Decisamente dei soldi spesi bene. Discutemmo a lungo su questo o quello, ridendo e scherzando come sempre. Come al solito prendevo schiaffi a non finire per le mie battute che a lei non piacevano. E piano piano stavo imparando a non criticare le donne o apprezzarne altre.
È dura la vita degli uomini.
La notte stava scendendo dolcemente alle nostre spalle. Eravamo usciti dal Barin e passeggiavamo lungo le strade del suo paese. Sapevamo dove andare. Al nostro parchetto. La presi per mano guidandola in quel posto che non conoscevo. Sotto sotto, era lei a guidarmi e non solo su quella strada ma anche nella vita… quella vita che era diventata un po’ più sua. Che teneva stretta, come la mia mano in quel momento.
Nel parchetto dove eravamo diretti c’era, per così dire, la nostra “casa”. Era una casettina in legno e plastica con uno scivolo per i bambini.
Salimmo sulle scale in legno e ci sistemammo lì dentro.
La calda giornata stava facendo posto ad una notte che sembrava non aver capito quanti gradi c’erano prima. Faceva freddo. Lei aveva su una leggera camicetta. Mi tolsi la felpa facendo scorrere la zip.
La mettemmo sui nostri corpi… ci riscaldava mentre l’abbracciavo teneramente. Ci baciammo. E lì, della storia ce ne fregava ben poco. Perché i baci scorrevano lunghi ed appassionati. Non curanti del tempo e delle persone che si erano fermate poco distante… non curanti di niente se non dei nostri cuori che battevano, le nostre anime che s’intrecciavano, i nostri capelli che si mischiavano. Lei era bella come non mai. E io mi sentivo fortunato ad essere tra le sue braccia quella sera.
Il mio cuore riprese a battere più forte… Come se il passato non fosse mai esistito. Come se tutte quelle storie che l’avevano distrutto, fossero scomparse. Ora c’era lei che ricostruiva pezzo dopo pezzo un cuore malandato. Quello stesso cuore che volevo strapparmi perché troppo amaro. Troppi addii aveva dovuto sopportare… e troppe lacrime aveva fatto cadere…
Lei mi aveva reso più forte… mi aveva ridonato la vita…
Spero che forse… anche io per lei abbia fatto qualcosa…

..Buonanotte Bambolina..

20 Novembre 2006…

Lodi parchetto 20 novembre 2006

Un magico parchetto…

Sul piccolo sentiero di quel parchetto, c’era un fitto strato di foglie dalle varie tonalità di giallo. Si andava dal rosso intenso delle foglie secche al giallo limpido di quelle appena cadute. Ce n’erano tantissime in giro e molte altre ancora attaccate ai rami degli alberi nell’attesa di cadere da un momento all’altro durante una raffica di vento. Il cielo era semi-coperto e il sole stava tramontando dietro un gruppo di palazzi, regalandoci gli ultimi attimi di luce di quella stupenda giornata. La terra era un po’ umida, forse perché qualche giorno prima aveva piovuto e il sole non era riuscito a “rimettere a posto le cose”. Beh… l’autunno è così. Fatto di giornate fredde e piovose alternate spesso a momenti in cui il sole compare sulla scena. Ciò che non manca mai, invece, è il vento. Quello sì che si trova spesso lungo le tranquille passeggiate serali. Spesso da molto fastidio, ma altre volte invece, sembra un contorno magico che ondeggia i capelli e un motivo plausibile per stringere un po’ di più la tua “lei” al tuo cuore in un caldo abbraccio. E di abbracci, quella giornata, ne aveva visti parecchi e forse anche qualcosina in più che solo tre persone potevano capire. Io… lei… e un tenero pupazzetto di nome Bibo. Quel pupazzetto ora giaceva in una cartella indisturbato, tra libri mai aperti ed appunti stropicciati. Stranamente quella cartella era sulle mie spalle e quel leggero “peso” mi trascinava un po’ indietro con gli anni. A quando ero ancora un ragazzino ed utilizzavo il mio zaino della Seven per portare i miei libri a scuola. Di solito lo portavo su una spalla sola, la destra, e mi sentivo quasi a disagio ad averlo su tutte e due. Ero abituato così perché dovevo toglierlo subito quando per esempio entravo in macchina o tornavo stanco a casa e quello zaino veniva buttato rapidamente chissà dove. Chiaramente, lo zaino che portavo ora sulle spalle non era il mio, ma di una dolce ragazza che passeggiava insieme a me tra le migliaia di foglie cadute. Beh… la galanteria rientra nelle mie doti, anche se la nascondo spesso perché le donne sanno approfittarsene molto bene. Ma in quel caso lo facevo volentieri, dopotutto non potevo far stancare degli occhioni così dolci e convincenti.
– Dove stiamo andando? –
– Voglio portarti in un posto… – disse lei.
Ci stavamo avvicinando a un gruppo di alberi immersi nel verde di questo parchetto. Eravamo quasi al centro e il cancello da cui eravamo entrati si faceva sempre più lontano. Le foglie per terra erano più fitte tanto che non si riusciva a distinguere se camminavamo sul sentiero o sulla terra. Ai lati ogni tanto comparivano fredde panchine e piccole giostrine. Svago di chissà quali bambini che di giorno frequentano quel posto. L’oscurità stava calando rapidamente e a poco a poco si accendevano i lampioni delle strade. Tutto contribuiva a rendere la passeggiata più magica.
– Ecco. Vedi quegli alberi? –
– Si… –
– Andiamo lì… –
E la seguii trattenendo la sua mano che mi faceva da guida. Ci dirigemmo verso un gruppo di 4 alberi disposti quasi a formare un cerchio. Solo che non erano perfettamente diritti verso l’alto, ma avevano assunto negli anni una forma obliqua che li rese un comodo appoggio per chi voleva sedersi.
– Sediamoci qui… –
Ci abbracciammo e guardammo il cielo leggermente nuvoloso.
– Sai… vengo spesso qui… mi siedo su uno di questi alberi… e penso… –
– A cosa pensi? –
– Beh… penso a un ragazzo moro… alto… antipatico a volte… testardo… ostinato… che non mi lascia mai finire di parlare… Vabbè… ma anche molto romantico… ma poco… proprio poco così… –
Sorrisi e fingendo di arrabbiarmi e chiesi – …e chi sarebbe questo?..-
– …è seduto proprio accanto a me! –
L’abbracciai più intensamente e insieme guardammo il paesaggio. Il sole oramai era scomparso e la notte era diventata l’unica testimone del nostro amore. Era perfetto. Una perfetta serata d’amore. Eccetto forse per qualche mia battuta sarcastica che potevo anche risparmiarmi. Ma sono fatto così… che ci posso fare. So essere molto ironico.. ma anche molto romantico nei momenti delle magiche notti d’autunno.
– Ti amo piccola… – dissi guardandola intensamente negli occhi.
Lei sorrise e arrossendo abbassò lo sguardo…
– Ti amo anch’io… – mi rispose.
Essere felici è come chiedere al tempo di fermarsi. Un po’ come dire “stop” alla vita e chiederle il permesso di prolungare quell’attimo fantastico, muovendosi al rallentatore come in una sorta di moviola romantica di un semplice attimo. Come uno scambio di baci infinito in un intreccio di abbracci o uno sguardo intenso, ricco di parole difficili da pronunciare. È un’infinita giostra da cui non vuoi scendere perché sul biglietto c’è scritta a chiare lettere la parola “amore”. Quell’amore che hai sempre sognato. Intenso, puro, fantastico. Quello fatto di due cuori che battono all’unisono e che non si scontrano mai. Quello fatto di baci che trasmettono intense scariche elettriche ai corpi in modo da non poterne più fare a meno. Quello fatto di profumi indimenticabili impressi sulla pelle di entrambi che si mescolano ogni volta che vengono a contatto.
“Aveva ragione… era perfetto…”
Anche se a volte gioia e malinconia si fondevano in questo gioco di vita, quella era la vita che avevo scelto e che avrei proseguito in un’unica direzione senza voltarmi al passato. Perché altrimenti rischierei di ricadere ancora nel vuoto. L’abisso della paura dell’amore. Un timore che per sfortuna è ancora dentro me e sarà difficile estirparlo. E ce la sto mettendo tutta per potermi fidare ancora di quell’immensa forza misteriosa. Odio dirlo… ma ho paura dell’amore. Perché è l’unica cosa che può uccidermi.

– Dopotutto quello che ho passato… dopo tutte le storie “storte” che si sono susseguite… il mio cuore ha perso qualche pezzo per la strada… E ne è rimasto solo un piccolo pezzettino… E quel pezzettino l’hai preso tu… Mi raccomando… trattalo bene… perché  l’unica cosa che mi tiene ancora in vita è la consapevolezza che esista una “bambolina” che ha in custodia il mio amore… Certo… ci sono stati momenti in cui tutto è stato in “bilico”… ma ora tutto è cambiato… Ognuno ha capito i propri errori… e credo che mai più si verificheranno… almeno io ce la metterò tutta perché ciò non accada… e sono sicuro che anche tu mi darai una mano… restando accanto a me… vivendo attimi felici con me… per tutto il tempo che questa vita potrà concederci… ti amo bambolina… grazie d’esistere. –

Forse ritornare ad amare non è poi così tanto difficile. Basta solo crederci. Crederci e sperare di nuovo che il passato non si ripresenti alla tua porta o sul tuo telefonino con un semplice messaggio d’addio. Il passato fa male… Ma come dico sempre io:

“…lasciamoci il passato alle spalle… non pensiamo al futuro… e viviamo il presente…”

…Tienilo stretto il mio pezzettino di cuore…
…altrimenti non potrei vivere…
…So che tu lo custodirai bene…
…Perché mi fido di te…

Dolce… e un bicchiere di Thè alla pesca…

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Il treno scorreva talmente veloce che le luci dei lampioni sembravano percorrere un’unica scia. All’improvviso una leggera frenata, forse una piccola distrazione del macchinista che magari adocchiava l’ultimo inserto di Repubblica. In prima classe vi era un forte odore di ammoniaca mista a chissà quale altra soluzione pulente. Eppure non sembrava poi così pulito. Erano ancora presenti tracce di polvere e piccole cartacce sparse un po’ in giro. Del resto, non potevo lamentarmi. Avevo viaggiato su treni peggiori che spesso l’ammoniaca non l’avevano mai sentita nominare.
Il forte odore andava via via attenuandosi man mano che l’olfatto s’abituava a quell’ambiente. Pian piano cominciavano a ricomparire tutti gli odori “normali”: l’inchiostro di un giornale spiegazzato, il profumo di una donna che attraversava la carrozza, l’odore di un panino appena scartato, la puzza di un lucido da scarpe di un signore distinto… e così via in questa giostra d’odori dalle mille intensità.
Uno scossone mi destò dalla lettura del mio Sole24ore. Pensai che il treno avesse attraversato uno scambio e mi rimmersi nell’attenta lettura di titoli azionari, fusioni d’aziende e tasse di vario genere. Beh… per uno che studia economia, questo dovrebbe essere il “pane quotidiano”, ossia la fonte primaria da cui attingere la propria cultura generale economica, in modo da trovare un riscontro pratico delle nozioni che spesso s’imparano a memoria tra i banchi dell’università.
Indici, grafici a barre, aerogrammi, sono le uniche figure di questo giornale un po’ troppo scomodo da leggere. Non so perché abbiano scelto questo colore arancio-rosa, posso solo ipotizzare ironicamente che la bozza della prima copia in assoluto sia caduta in un secchio di diluente rosso o che è stampato su carta talmente riciclata che gli alberi ormai sono tagliati solo per gli stuzzicadenti. Fatto sta che questo colore particolare lo rende riconoscibile tra gli altri giornali e prontamente individuabile, soprattutto quando hai un treno che sta partendo e niente da fare per le prossime 6 ore e mezza. Meno male che in tutte le stazioni metropolitane c’è almeno un’edicola. Per non parlare degli extracomunitari che ti vendono i giornaletti che danno gratis al mattino! Mi chiedo spesso, chi sia talmente stupido da comprarsi il “City” o il “Leggo” o il “Metro” da uno che non sa nemmeno leggere l’italiano. Beh… ce n’è in giro di gente strana. Come il signore seduto poco distante da me. Aveva in mano l’ultima copia di “Dylan dog” e la sfogliava attentamente gustandosi le figure dei fumetti. A prima vista sembrava un uomo dall’aspetto serio. Magari un professore universitario di quelli tosti. Ma a vederlo sorridere mentre leggeva alcune vignette, mi faceva pensare che nella vita ognuno aveva i propri vizzi, e quando si vuole, ognuno da sfogo ai propri piccoli piaceri.
Invece la signora che mi stava seduta di fronte dormiva. Si sarà stancata dalla lunga camminata sui tacchi fatta dal binario 3 al 15. Le donne… Le donne odiano camminare… e ogni volta che possono, si spostano in macchina incasinando il traffico delle maggiori città. Ok ok… lasciamo perdere la mia vena maschilista almeno su questo treno. Dopotutto, quando dormono sono innocue come tutte le specie viventi. (o così sembra). Vabbè, umorismo a parte, la prima tappa di questo diretto per Napoli era stata da poco abbandonata con commozione di tutti i passeggeri comunisti di questo treno che non credo siano molti in prima classe, anche se le poltrone rosse si addicano di più al loro schieramento. Comunque Bologna era andata e ne restavano solo altre due prima del capolinea.

Una ragazza mora con una camicetta bianca, un gilet verde ed una spilletta FS all’occhiello, si faceva strada attraverso le poltroncine con il suo carrellino carico di roba, ripetendo le stesse frasi ad ogni persona.
– Buona sera… gradisce uno snack? –
– Si… –
– Dolce o Salato? –
– Dolce… –
– Qualcosa da bere? –
– Si… un bicchiere di Thè alla pesca… –
– Ecco a lei… buon viaggio… –
Così la signorina lasciò sul tavolino lo snack e il bicchiere di Thè insieme alla salvietta rinfrescante e al tovagliolino di carta rosso. Se ne andò e ripetette lo stesso copione al passeggero successivo. Purtroppo questo era il suo lavoro e sperai che non la pagassero anche per sorridere ogni volta, ma che lo facesse di sua spontanea volontà.
Il capotreno intanto annunciava che nella carrozza ristorante si stava servendo la cena ed invitava tutti i pendolari con prenotazione ad avviarsi verso il centro del treno. Sarei andato anche io se solo quel misero pasto non costasse quasi quanto il mio biglietto. Un ulteriore motivo era che non avevo molta fiducia nel mangiare qualcosa cucinato su un treno. Già i ristoranti chissà cosa ti rifilano di surgelato. Qui avrei l’imbarazzo della scelta su cosa vomitare per prima!
Un po’ di fame però, mi stava salendo. Così mi alzai lasciando il mio giornale sul seggiolino, un po’ come fanno i ragazzi alla mensa per occupare il proprio posto nell’attesa di andare a prendere qualcosa da mangiare. Mi diressi verso la vettura bar incrociando la signorina del carrellino che risaliva la carrozza pronta per andare in scena alla prossima stazione. Il passaggio fu difficoltoso e mi sorrise per il piccolo disturbo che mi aveva procurato. Ricambiai il sorriso e ripresi la strada per il bar. Nel mio tragitto passai davanti all’ufficio del capotreno. Era vuoto e volli sperare che almeno lui non stesse sfogliando l’ultimo inserto di Repubblica, ma che fosse solo andato in bagno temporaneamente (e non con l’inserto!). Passai oltre la Business class, con i suoi manager in giacca e cravatta seduti comodamente nelle poltrone in pelle nera. Finalmente arrivai al bar constatando che statisticamente una persona su due aveva un pc portatile mentre l’altra probabilmente ce l’aveva in borsa, come me. Il bar stranamente non era strapieno di gente. Chissà, forse la fame era venuta solo a me e a queste tre o quattro persone. Oppure la cassiera era molto brava a non fare inceppare lo scontrino nel registratore così da non creare code stancanti.
– Un panino… – dissi.
– Come lo vuoi? –
– Opzioni di scelta? –
– Speck, Prosciutto e mozzarella, Crudo e formaggio… – e bla bla bla… continuava nella sua lunga lista di gusti mentre io fissavo quell’invitante panino “crudo e formaggio” nell’attesa che finisse di parlare.
– …Allora? –
– …mmm… Crudo e formaggio… grazie… –
– Riscaldo? –
“Mi sembra il minimo” – Si… –
Pagai e ritornai al mio posto con il mio panino fumante di freschezza. Lo mangiai in tutta tranquillità mentre un “Dlin Dlon” destò l’attenzione di tutti i viaggiatori.
Firenze. Il treno era arrivato perfettamente in orario. Ora però si ripartiva nell’altro senso poiché la stazione di Santa Maria Novella è chiusa da un lato. Da seconda carrozza del treno passai a penultima e sperai che a Roma cambiasse di nuovo rotta perché non volevo farmi tutto il binario della stazione di Napoli per uscire. Beh… anche io certe volte metto i “tacchi”. Comunque, stazione dopo stazione, si ripetevano le stesse e solite cose: il capotreno che annunciava che questo treno era diretto a Napoli con le relative fermate intermedie, il controllore che ripassava e controlla i biglietti e la solita signorina mora con il suo simpatico carrellino…
– Gradisce qualcosa? –
– Si… un bicchiere di Thè alla pesca ed uno snack dolce… –
– Ecco a lei… –
– Grazie. –
Avevo snellito un bel po’ il suo copione sapendo già cosa mi avrebbe chiesto. Così lei riprese il suo cammino e io scartai il mio piccolo snack. Intanto guardavo fuori dal finestrino quel poco di paesaggio che riuscivo a intravedere alle 8 di sera. Si riuscivano a distinguere bene solo le luci delle case, o i fari delle fabbriche o magari qualche piccola auto con gli abbaglianti accesi.
Pensavo…
Pensavo a quante volte avevo preso questo benedetto treno nell’ultimo giro di mesi.
Pensavo alla prima volta che avevo preso la prima classe con il mio portafogli che mi urlava “pietà”. E coincidenza assoluta, era proprio questo giorno, questo mese… di un anno fa. Il 31 ottobre 2005 solo che allora viaggiavo in direzione opposta ma alla stessa identica ora e con le stesse identiche fermate…
Allora viaggiavo verso una storia che aveva solo un inizio…
Questa volta era diverso…
Questa volta non dovevo scappare via da nulla. Questa volta, la prima classe l’avevo comprata apposta e non perché era finita la seconda. Questa volta avevo una casa dove tornare se volevo. Questa volta…
E’ strana la vita…
Se magari tutto questo fosse accaduto prima, forse le cose ora sarebbero diverse. Decisamente diverse. E dire che bastava solo un anno. Un misero ciclo di mesi e il futuro poteva essere diverso. Sicuramente ora non starei qui a pensare invece di finire di leggere il mio giornale…
L’amore a volte non sa aspettare…
E’ strana la vita…
E non finirò mai di dirlo…

– Gradisce qualcosa? Dolce o salato? –
– …Dolce… e un bicchiere di Thè alla pesca… –

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