Un’isola italiana nel cuore di Parigi (la nouvelle de Paris III)

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(Ultimo giorno)

– Quelle est cette chose? –
– Je ne sais pas… –
Ero in un letto non mio… in un posto sconosciuto alla mia percezione. Cercavo di dormire ma dalla finestra entrava un filo di luce che mi colpiva il viso. Il vetro era aperto e sentivo delle voci provenire da fuori.
– …un bâton en plastique… –
– Comment est arrivé ici? –
C’erano due signori francesi che discutevano davanti all’ingresso di questo palazzo sconosciuto. Si stavano chiedendo chi avesse devastato il loro splendido atrio. Feci un sorriso malizioso e con un braccio tastai la spalla di mio cugino.
– O… che vuoi? –
– Mi sa che abbiamo fatto un gran bel casino ieri… –
– Speriamo che non chiamino la polizia! –
– Già… come faremo a spiegargli che non volevamo fare del male a nessuno? –
– Dormi che è meglio… –
Mi rimisi a dormire. Le voci erano scomparse. Tutto era scomparso… e soprattutto, tutto questo doveva ancora accadere. Era il futuro di una storia ancora tutta da scrivere. Una storia Parigina incredibile che cominciò qualche giorno prima… in una città, ancora inesplorata…


(Primo giorno)

Ero a Parigi!
Davvero! Ero a Parigi!
Ero nell’aeroporto di Orly. Avevo seguito il fiume di passeggeri fino al punto in cui si era dissolto diramandosi nelle varie direzioni. Ero al centro di una grande sala rettangolare. Imponenti lastroni di vetro ci dividevano dall’esterno, dove lo spettacolo era fantastico. Aerei provenienti da tutto il mondo atterravano e decollavano su chilometri sterminati di asfalto. Ero solo, ero ancora solo perché i miei amici dovevano ancora arrivare. Ero solo, e avevo un po’ di tempo per sognare…
Avevo superato quel confine. Ero riuscito a saltare nel vuoto. Il vuoto che per me era un bianco sterminato… e i luoghi erano solo storie di libri e un mucchio di geografia. Potevo vedere, sentire, toccare quel qualcosa che avevo ascoltato dalle spiegazioni dei professori liceali o visto in documentari e quadri d’arte. La mia percezione era obbligata a limitarsi al confine stretto tra inchiostro e fantasia. Il rumore delle pagine e il suo sfrigolio era l’unico suono che sentivo quando immaginavo. Li vedevo nella mia mente quei personaggi storici che avevano cambiato l’Europa. Vedevo Napoleone, alla testa del suo immenso esercito. Vedevo Luigi XIV, il re sole, immaginandolo con una lunga parrucca nera riccioluta. Vedevo la rivoluzione e quando la Senna si dipinse di rosso per tutto il sangue versato. Non potevo credere di essere nella città più importante del ‘700. Ero eccitato e impaziente. L’ansia del volo si era trasformata in ansia positiva… in ansia curiosa. Volevo vedere…

Brrrrr
Il mio stomaco brontolò come quando un bambino ti tira il pantalone perché vuole qualcosa. Scollai gli occhi dalla pista e cercai un posto dove rifocillarmi. Erano le 3 e non avevo ancora mangiato qualcosa. La mia ricerca terminò quasi subito quando vidi un’emme dorata in fondo alla sala.
Ringraziai il Dio delle multinazionali ed entrai. Era pieno di gente. Persone in fila e persone alla cassa, responsabili e inservienti… e io che mi guardavo intorno sentendomi per un attimo disorientato. Nemmeno una parola amica risuonava al mio orecchio. Mi sentivo strano… come qualcosa di esterno.
Che ci faccio qui? Mi domandai quasi dimenticandomi del mio stomaco.
Osservai il primo della fila che sciorinava un francese perfetto. Il cassiere non fece nemmeno una domanda e iniziò a preparare la sua ordinazione. La mia mente era così impegnata nella decisione della lingua da adottare che la fame era svanita. Fu il mio turno e one cheeseburger e one coke fu la scelta più adatta. Il cassiere capì e mi rispose con una domanda incomprensibile. Annuii col capo due volte e mi ritrovai con una salsetta inutilizzabile perché non avevo le patatine. Mi sedetti in un posto e mangiai il mio panino. Mi accorsi che vicino al tavolo c’era uno sportellino rotondo. Lo aprii perché le mie dita sono sempre state curiose.
Alla vista restai sbigottito. Era una presa elettrica francese. Formata da due buchi e un perno di ferro che fuoriusciva quasi al centro. Era completamente diversa da una normale presa.
“Cazzo! Calma Ciro… stai calmo… respira… Il tuo amico Antonio è italiano… casa sua sarà italiana… avrà delle prese italiane…”
Rigirai più volte il cellulare in mano con il pensiero fisso di chiamarlo e appiattire la mia paranoia. Se non fossi stato in grado di ricaricare il mio cellulare o il mio pc mi sarei impiccato con il cavo dell’alimentatore.
Mi alzai e buttai i rifiuti nel cestino. Una signora anziana mi si avvicinò e in un francese molto stretto mi chiese qualcosa…
– Excusez-moi, madame… Je suis italien! – le dissi.
“L’ho detta bene? Come sono andato? Dammi un voto da uno a dieci…” pensai mentre la fissavo.
La signora mi fece un mezzo sorriso e se ne andò. La guardai un po’ deluso come quando studi tutta la notte e il giorno dopo vai male all’interrogazione.
Fa niente… sarà per la prossima volta.
Tornai nella sala centrale e il grosso divano a forma di serpente o di S arancione, allettò la mia stanchezza. Appoggiai il mio trolley e mi distesi sopra. Avevo bisogno di dormire. Avevo passato la notte in bianco e non avevo ancora preso un maledetto caffè. Chiusi gli occhi… ma non entrambi, uno solo, l’altro restò vigile e in guardia. Come solo un ansioso paranoico riesce a fare.

Biiip…
Mi arrivò un messaggio. Era di mio cugino Ciro e diceva che erano arrivati ad un certo imbarco B ad Orly ouest. Scattai sugli attenti come un soldato di fanteria. Presi il mio trolley e scesi le scale. Inclinai il capo in alto. Centinaia di cartelli distraevano la mia attenzione.
“Orly ouest! Eccolo lì…”
Camminai in quella direzione. Camminavo e camminavo ma non raggiunsi nessun arrivo di voli. Arrivai ad un punto morto. Vidi un altro cartello…
“Orly ouest! Allora è dall’altra parte!”
Ritornai sui miei passi e raggiunsi l’altro lato dell’aeroporto. Niente. I miei amici non erano lì. Avevo perlustrato ogni dove. Chiamai Ciro.
– We! Dove cavolo siete? Vi sto cercando da un quarto d’ora! –
– Orly Ouest! Tu dove sei? –
– Beh… io sono a Or… –
Mi venne un dubbio. Possibile che i terminal potrebbero essere due? Cercai qualche cartello che me lo dicesse… e infatti…
“Orly sud!”
– Cazzo! Sono a Orly Sud! –
– Ve bene… non ti preoccupare… veniamo noi la… ciao! –
Attaccai il telefono e lo lasciai scivolare in tasca. Mi sovvenne un po’ di timore che non sarebbero riusciti a trovarmi. I miei amici, presi singolarmente, sono intelligenti e responsabili. Ma chissà perché quando si mettono insieme, tutto l’acume svanisce. In quel momento contavo su di loro. Sapevo che non mi avrebbero abbandonato.
Biiip messaggio:
Siamo fuori Orly sud, ci stiamo fumando una sigaretta.
Normale. Il lavoro di ricerca toccava ancora a me, ma almeno avevano fatto un passettino. Sorrisi. I miei amici non cambieranno mai… e del resto nemmeno io.
Percorrevo il corridoio interno osservando l’esterno dalle porte a vetri. Avanzavo svelto e ad un certo punto sentii picchiettare sul vetro.
Erano quei due che tranquillamente fumavano. Li salutai e cercai la porta più vicina. Ero felice. Mi fiondai all’esterno e li abbracciai.
– Come va Antonio? –
– Tutto a posto. –
– E tu Ciro? –
– Mha… il volo è stato un po’ traumatico. –
– Davvero? Vabbè… però siete qui sani e salvi! –
– Già! Ora andiamo a casa mia! – disse Antonio capeggiando la fila.
– Ah! Antonio scusa un attimo… ma le prese della corrente a casa tua come sono? –
Antonio fece un sorriso e guardò mio cugino… poi con una faccia come per dire “ma che domande sono” mi rispose:
– Italiane Ciro… sono italiane! –

Stuck in a station…

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Non conosco il cielo… non so quando piange… quando ride… quando ha voglia di fermarsi a pensare. Non so quando è arrabbiato… quando ha voglia di farsi coccolare… quando è fermo e incapace della realtà. Quando si guarda il cielo ogni convinzione svanisce… e si sogna. Soprattutto ora che questo tramonto sovrasta la città. Ero seduto su una sedia sul mio balcone. Al quinto piano si godeva di una bellissima vista. Le nuvole e il cielo sembravano più vicini da qui. E questa sera faceva al caso mio… un tramonto così chi poteva perderselo? Il mio stomaco cominciò a brontolare proprio quando il sole scomparve tra le case. Con svogliatezza guardavo la porta del balcone… come se il mio sguardo volesse entrare ed arrivare alla cucina per vedere cosa ci fosse nel frigo. “Sarà vuoto” pensai. Ma anche se fosse stato pieno, la voglia di cucinare era pari a zero. Incrociai le mani dietro la testa e mi misi comodo dondolandomi sulla sedia. Le luci della città si accesero una dopo l’altra. I fari delle macchine divennero più visibili e l’oscurità iniziava a farsi sentire. Mi appoggiai alla ringhiera. Guardai giù sfidando quel vuoto sotto di me. Le macchine erano piccoline da qui su. Sembravano tanti piccoli giocattoli con cui un bambino si sarebbe divertito a giocare. Per non parlare delle motociclette… quelle si che erano carine. Le persone invece si facevano più rare e quei pochi che rimanevano in giro, si affrettavano a tornare a casa… chissà perché poi… chissà per cosa.. chissà per quale vita. Forse magari andavano a cenare. “Eccolo lì”, il mio stomaco tuonò di nuovo. “Ok, va bene… troviamo qualcosa da mettere sotto i denti!”. Mi alzai dalla sedia e tornai dentro. Spensi lo stereo e cercai le scarpe.
“Una è qui… e l’altra?”
Sembrava impossibile. Quando cercavo le scarpe ne trovavo sempre una sola. Non le perdevo mai insieme! Chissà per quale regola statistica o per quale caso sfortunato. Sempre e solo una.
“Eccola!”
M’infilai le scarpe cercando con lo sguardo la mia sveglia digitale. I numeri rossi segnavano le otto e mezza. Faceva un po’ freschetto quindi presi dall’appendiabiti il mio giubbotto di pelle. Nel staccarlo dal gancio cadde da una tasca l’ombrello portatile. Lo presi in mano… “Non penso mi servirà…” e lo poggiai su un ripiano della libreria.
Portafoglio… cellulare… anello… “Credo di aver preso tutto” Andai verso la porta e: “le chiavi!! Dannate chiavi!” Tornai indietro e le afferrai per il portachiavi di Ligabue che avevo comprato al concerto al forum di Assago. Due mandate e giù con l’ascensore al piano terra.
Ero fuori. M’incamminai per la strada che facevo tutte le mattine per raggiungere la stazione e da lì prendere il treno che mi avrebbe portato in università. Questa volta però, dovevo solo raggiungere il piazzale. Guardai il cielo. Era ricoperto di nuvole grigie che da un lato si dipingevano di un colore rossastro.
Raggiunsi la piazza ed era notte. Alcune persone aspettavano il 93 alla fermata mentre altre uscivano frettolosamente dalla metro. Un passante distratto mi urtò la spalla. Continuò a correre e girandosi mi chiese scusa. Gli feci un cenno con la mano e lo osservai andarsene con non troppo rancore. Il lampione accanto a me, m’inondava con la sua luce attirando schiere di moscerini. Mi guardai intorno decidendo dove andare a mangiare. Le opzioni sono due: Pizza Mundial alla mia sinistra o il messicano con il suo camioncino ambulante fermo dall’altra parte della piazza. Scelsi il panino del messicano e lo raggiunsi. Mentre camminavo, guardavo la stazione. Il grande orologio digitale era perennemente rotto. Segnava numeri a casaccio come a fregarsene del tempo. Lo adoravo. Sotto c’era la grande scritta “Milano Lambrate” e poi l’ingresso principale. Il messicano era parcheggiato poco dopo la fermata dell’autobus 54. Un’anziana signora con una busta di plastica mi osservò mentre le passai davanti. “Forse assomiglierò a qualche suo nipote”… tirai diritto e arrivai al camioncino.
– Ciao! – mi disse una ragazza dai tratti somatici dell’America latina.
– Ciao… mi fai un panino con la salsiccia? –
S’infilò i guanti in lattice e passò una salamella all’uomo che stava alla piastra. Il messicano stava preparando un altro panino per un ragazzo che aspettava con me.
– Cosa ci metto dentro? – mi chiese con un accento leggermente spagnolo.
– Formaggio e peperoni. – dissi, cercando di non pensare alla salute del mio povero fegato.
– Ci vuoi anche la cipolla? –
– No… grazie. –
Il messicano aveva finito le sue domande di routine e si era messo all’opera sulla mia salsiccia con la spatola di ferro. Gira, rigira e la mise nel panino con il suo contorno di peperoni e formaggio. E il messicano in fondo in fondo, mi voleva bene perché ci aggiunse anche la cipolla. Non dissi niente… perché, del resto, la cipolla mi è sempre piaciuta. Però, chissà come faceva a saperlo?
– Ecco a te. –
Presi in mano quel panino bollente e sborsai i miei tre euro.
– Vuoi qualcosa da bere? – mi chiese la ragazza.
Pensai se prendere o no la mia solita Fanta. Dissi di no… e mi girai dando un morso al mio panino.
Una goccia cadde dal cielo e grande e grossa si schiantò sul marciapiede. Non gli diedi troppo peso e soffiai sul mio panino cercando di fargli raggiungere una temperatura più bassa. Ma a quella goccia ne seguirono altre due… e poi tre… e poi altre ancora. Pioveva.
E pioveva forte. Non una di quelle pioggerelline leggere primaverili. No… un bel temporale estivo. Di quelli che di acqua ne mandava. E il cielo sembrava non voler smettere.
Ero al riparo sotto la piccola tettoia del camioncino. Continuai a mordere il panino. Le persone correvano qua e là. Passò un motorino poco distante. Andava piano perché il ragazzo stava prendendo un bel po’ d’acqua ed ogni tanto frenava perché le pozzanghere si stavano riempiendo ad un ritmo impressionante.  Diedi l’ultimo morso al panino e piano piano mi stava salendo la sete. Pensai alla Fanta a cui prima avevo rinunciato. Mi volsi indietro a guardarla da dentro il piccolo frigorifero sul camioncino.
“Na… chissà quanto me la farà pagare.” E me ne andai passando sotto la piccola tettoia fino ad arrivare alle scale dell’ingresso laterale della stazione. Era buio anche qui e il sottopassaggio era deserto. Si udiva solo il rumore dei miei passi che s’infrangeva contro le pareti creando un eco spettrale. Nessuno saliva o scendeva le scale dei binari. Nessuno correva… aspettava… leggeva… Un vuoto inimmaginabile. Dal binario 12 percorsi tutto il sottopassaggio fino al binario 1 dove c’era la biglietteria e il bar. Qui ogni mattina, se mi svegliavo con un po’ d’anticipo, venivo a prendere il caffè. Un caffè di merda… ma pur sempre meglio delle macchinette automatiche. Arrivai davanti alla porta a vetri del bar. Le luci erano ancora accese ma la porta non si smuoveva. Un ragazzo all’interno poggiò una sedia sul tavolino e mi fece segno che era chiuso. “Addio Fanta”. Mi toccava andarla a prendere ai distributori lungo i binari. Riscesi nel sottopassaggio.
“Vediamo… il binario 1 non ce l’ha… il 2 non mi piace… binario 3!”
Salii le scale e andai diretto al distributore, alla disperata ricerca della Fanta perduta. Cercai nella tasca qualche moneta ma mi accorsi che l’affare per inserirle era bloccato. “Eccheccavolo” pensai, per non scrivere qualcosa di più volgare. Tornai indietro e vidi che sulla panchina stava dormendo un barbone. Chissà come avevo fatto a non notarlo.
Binario 4… “Speriamo che almeno qui non mi vada male.” La sete aumentava come le gocce che cadevano sulla tettoia in lamiera che proteggeva la banchina. Il rumore che provocavano era assordante. Sembrava una mitraglietta che sparava sulla mia testa.

La mia lattina scese giù di colpo. La presi e l’aprii placando la mia sete con un sorso. Mi sedetti sulla panchina. Su questa non c’era nessun barbone. La pioggia si stava facendo più violenta e alcune gocce riuscivano a colpirmi nonostante la tettoia. Alcune persone sull’altro binario attendevano un treno. Bergamo… lessi sul tabellone. Infreddolite e spaesate… chi guardava l’orologio e chi leggeva il city di stamattina. Scesi di nuovo nel sottopassaggio. Questa volta in quello principale, dove c’era luce e qualche persona che si riparava dalla pioggia. Raggiunsi l’altro lato della stazione. Quello da cui ero venuto e mi fermai sedendomi sulle scale dell’ingresso principale…
Pioveva forte…
Neanche il mio giubbotto di pelle avrebbe potuto ripararmi. Davanti al marciapiede c’era una pozzanghera di dimensioni bibliche che i passanti non riuscivano a oltrepassare senza bagnarsi i piedi.

Pioveva… sulle case… sui negozi… sulle vetrine… sul messicano ed anche su Pizza Mundial. Pioveva… pioveva sui passanti con gli ombrelli e quelli che si riparavano sotto le fermate. Pioveva sul punto Snai perennemente aperto, con le persone che guardavano gli schermi e facevano scommesse impensabili. Pioveva e non smetteva… perché Dio voleva bloccarmi qui in stazione. Ad osservare la città dal basso di un gradino. A fermarmi per un minuto a scattare una foto di quella vita che conducevo di corsa… a quei treni che prendevo al volo… a quegli odiati ritardi che si riversavano in una pagina di un libro. Seduto qui, su questo gradino che non toccavo nemmeno, quando ero di corsa saltando direttamente sull’altro. Ero un passante… un semplice passante di questo mondo che viaggiava veloce… che prendeva treni, evitava controllori… e si affacciava dal finestrino quando non avrebbe dovuto. Mi sentivo come l’ignoto spettatore di Seduto in riva al fosso… a guardare l’acqua che va… che ha il biglietto ma la corsa la lasciava fare agli altri. Agli altri spettatori distratti che mi passavano davanti… che, forse in fondo, quella pioggia non la meritavano. L’unico a meritarla ero io…

  Perché Dio ha voluto che mi fermassi in stazione…
ad osservare la vita…

Dolce… e un bicchiere di Thè alla pesca…

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Il treno scorreva talmente veloce che le luci dei lampioni sembravano percorrere un’unica scia. All’improvviso una leggera frenata, forse una piccola distrazione del macchinista che magari adocchiava l’ultimo inserto di Repubblica. In prima classe vi era un forte odore di ammoniaca mista a chissà quale altra soluzione pulente. Eppure non sembrava poi così pulito. Erano ancora presenti tracce di polvere e piccole cartacce sparse un po’ in giro. Del resto, non potevo lamentarmi. Avevo viaggiato su treni peggiori che spesso l’ammoniaca non l’avevano mai sentita nominare.
Il forte odore andava via via attenuandosi man mano che l’olfatto s’abituava a quell’ambiente. Pian piano cominciavano a ricomparire tutti gli odori “normali”: l’inchiostro di un giornale spiegazzato, il profumo di una donna che attraversava la carrozza, l’odore di un panino appena scartato, la puzza di un lucido da scarpe di un signore distinto… e così via in questa giostra d’odori dalle mille intensità.
Uno scossone mi destò dalla lettura del mio Sole24ore. Pensai che il treno avesse attraversato uno scambio e mi rimmersi nell’attenta lettura di titoli azionari, fusioni d’aziende e tasse di vario genere. Beh… per uno che studia economia, questo dovrebbe essere il “pane quotidiano”, ossia la fonte primaria da cui attingere la propria cultura generale economica, in modo da trovare un riscontro pratico delle nozioni che spesso s’imparano a memoria tra i banchi dell’università.
Indici, grafici a barre, aerogrammi, sono le uniche figure di questo giornale un po’ troppo scomodo da leggere. Non so perché abbiano scelto questo colore arancio-rosa, posso solo ipotizzare ironicamente che la bozza della prima copia in assoluto sia caduta in un secchio di diluente rosso o che è stampato su carta talmente riciclata che gli alberi ormai sono tagliati solo per gli stuzzicadenti. Fatto sta che questo colore particolare lo rende riconoscibile tra gli altri giornali e prontamente individuabile, soprattutto quando hai un treno che sta partendo e niente da fare per le prossime 6 ore e mezza. Meno male che in tutte le stazioni metropolitane c’è almeno un’edicola. Per non parlare degli extracomunitari che ti vendono i giornaletti che danno gratis al mattino! Mi chiedo spesso, chi sia talmente stupido da comprarsi il “City” o il “Leggo” o il “Metro” da uno che non sa nemmeno leggere l’italiano. Beh… ce n’è in giro di gente strana. Come il signore seduto poco distante da me. Aveva in mano l’ultima copia di “Dylan dog” e la sfogliava attentamente gustandosi le figure dei fumetti. A prima vista sembrava un uomo dall’aspetto serio. Magari un professore universitario di quelli tosti. Ma a vederlo sorridere mentre leggeva alcune vignette, mi faceva pensare che nella vita ognuno aveva i propri vizzi, e quando si vuole, ognuno da sfogo ai propri piccoli piaceri.
Invece la signora che mi stava seduta di fronte dormiva. Si sarà stancata dalla lunga camminata sui tacchi fatta dal binario 3 al 15. Le donne… Le donne odiano camminare… e ogni volta che possono, si spostano in macchina incasinando il traffico delle maggiori città. Ok ok… lasciamo perdere la mia vena maschilista almeno su questo treno. Dopotutto, quando dormono sono innocue come tutte le specie viventi. (o così sembra). Vabbè, umorismo a parte, la prima tappa di questo diretto per Napoli era stata da poco abbandonata con commozione di tutti i passeggeri comunisti di questo treno che non credo siano molti in prima classe, anche se le poltrone rosse si addicano di più al loro schieramento. Comunque Bologna era andata e ne restavano solo altre due prima del capolinea.

Una ragazza mora con una camicetta bianca, un gilet verde ed una spilletta FS all’occhiello, si faceva strada attraverso le poltroncine con il suo carrellino carico di roba, ripetendo le stesse frasi ad ogni persona.
– Buona sera… gradisce uno snack? –
– Si… –
– Dolce o Salato? –
– Dolce… –
– Qualcosa da bere? –
– Si… un bicchiere di Thè alla pesca… –
– Ecco a lei… buon viaggio… –
Così la signorina lasciò sul tavolino lo snack e il bicchiere di Thè insieme alla salvietta rinfrescante e al tovagliolino di carta rosso. Se ne andò e ripetette lo stesso copione al passeggero successivo. Purtroppo questo era il suo lavoro e sperai che non la pagassero anche per sorridere ogni volta, ma che lo facesse di sua spontanea volontà.
Il capotreno intanto annunciava che nella carrozza ristorante si stava servendo la cena ed invitava tutti i pendolari con prenotazione ad avviarsi verso il centro del treno. Sarei andato anche io se solo quel misero pasto non costasse quasi quanto il mio biglietto. Un ulteriore motivo era che non avevo molta fiducia nel mangiare qualcosa cucinato su un treno. Già i ristoranti chissà cosa ti rifilano di surgelato. Qui avrei l’imbarazzo della scelta su cosa vomitare per prima!
Un po’ di fame però, mi stava salendo. Così mi alzai lasciando il mio giornale sul seggiolino, un po’ come fanno i ragazzi alla mensa per occupare il proprio posto nell’attesa di andare a prendere qualcosa da mangiare. Mi diressi verso la vettura bar incrociando la signorina del carrellino che risaliva la carrozza pronta per andare in scena alla prossima stazione. Il passaggio fu difficoltoso e mi sorrise per il piccolo disturbo che mi aveva procurato. Ricambiai il sorriso e ripresi la strada per il bar. Nel mio tragitto passai davanti all’ufficio del capotreno. Era vuoto e volli sperare che almeno lui non stesse sfogliando l’ultimo inserto di Repubblica, ma che fosse solo andato in bagno temporaneamente (e non con l’inserto!). Passai oltre la Business class, con i suoi manager in giacca e cravatta seduti comodamente nelle poltrone in pelle nera. Finalmente arrivai al bar constatando che statisticamente una persona su due aveva un pc portatile mentre l’altra probabilmente ce l’aveva in borsa, come me. Il bar stranamente non era strapieno di gente. Chissà, forse la fame era venuta solo a me e a queste tre o quattro persone. Oppure la cassiera era molto brava a non fare inceppare lo scontrino nel registratore così da non creare code stancanti.
– Un panino… – dissi.
– Come lo vuoi? –
– Opzioni di scelta? –
– Speck, Prosciutto e mozzarella, Crudo e formaggio… – e bla bla bla… continuava nella sua lunga lista di gusti mentre io fissavo quell’invitante panino “crudo e formaggio” nell’attesa che finisse di parlare.
– …Allora? –
– …mmm… Crudo e formaggio… grazie… –
– Riscaldo? –
“Mi sembra il minimo” – Si… –
Pagai e ritornai al mio posto con il mio panino fumante di freschezza. Lo mangiai in tutta tranquillità mentre un “Dlin Dlon” destò l’attenzione di tutti i viaggiatori.
Firenze. Il treno era arrivato perfettamente in orario. Ora però si ripartiva nell’altro senso poiché la stazione di Santa Maria Novella è chiusa da un lato. Da seconda carrozza del treno passai a penultima e sperai che a Roma cambiasse di nuovo rotta perché non volevo farmi tutto il binario della stazione di Napoli per uscire. Beh… anche io certe volte metto i “tacchi”. Comunque, stazione dopo stazione, si ripetevano le stesse e solite cose: il capotreno che annunciava che questo treno era diretto a Napoli con le relative fermate intermedie, il controllore che ripassava e controlla i biglietti e la solita signorina mora con il suo simpatico carrellino…
– Gradisce qualcosa? –
– Si… un bicchiere di Thè alla pesca ed uno snack dolce… –
– Ecco a lei… –
– Grazie. –
Avevo snellito un bel po’ il suo copione sapendo già cosa mi avrebbe chiesto. Così lei riprese il suo cammino e io scartai il mio piccolo snack. Intanto guardavo fuori dal finestrino quel poco di paesaggio che riuscivo a intravedere alle 8 di sera. Si riuscivano a distinguere bene solo le luci delle case, o i fari delle fabbriche o magari qualche piccola auto con gli abbaglianti accesi.
Pensavo…
Pensavo a quante volte avevo preso questo benedetto treno nell’ultimo giro di mesi.
Pensavo alla prima volta che avevo preso la prima classe con il mio portafogli che mi urlava “pietà”. E coincidenza assoluta, era proprio questo giorno, questo mese… di un anno fa. Il 31 ottobre 2005 solo che allora viaggiavo in direzione opposta ma alla stessa identica ora e con le stesse identiche fermate…
Allora viaggiavo verso una storia che aveva solo un inizio…
Questa volta era diverso…
Questa volta non dovevo scappare via da nulla. Questa volta, la prima classe l’avevo comprata apposta e non perché era finita la seconda. Questa volta avevo una casa dove tornare se volevo. Questa volta…
E’ strana la vita…
Se magari tutto questo fosse accaduto prima, forse le cose ora sarebbero diverse. Decisamente diverse. E dire che bastava solo un anno. Un misero ciclo di mesi e il futuro poteva essere diverso. Sicuramente ora non starei qui a pensare invece di finire di leggere il mio giornale…
L’amore a volte non sa aspettare…
E’ strana la vita…
E non finirò mai di dirlo…

– Gradisce qualcosa? Dolce o salato? –
– …Dolce… e un bicchiere di Thè alla pesca… –

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