Si viene si va… di umana commedia (IV)

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10:12

Aprii gli occhi. Un soffitto bianco e insolito mi sovrastava. Voltai la testa da un lato e un paio di vertebre scroccarono, rivelando un gran torcicollo. Non era stata una grande idea usare un asciugamano come cuscino. Purtroppo, questo passava la modesta dimora di Enzo e dovevo accontentarmi. Spostai il plaid e mi misi seduto. Anche il mio stomaco si era svegliato, ribollendo gas e acidi vari. Sul tavolo del salotto c’era ancora la bottiglia vuota del Pampero. Il pensiero autodistruttivo di farmi un altro bicchierino mi attraversò la mente. Fortuna che non ne era rimasto nemmeno un goccio.
Tic… tac… tic… tac…
Sentivo un ticchettio volteggiare in quella stanza vuota. Mi alzai alla ricerca del trasgressore di quell’amato silenzio. Di primo acchito sperai che le mie orecchie fossero ancora buone dopo l’ingente lavoro in discoteca ieri notte. Andai verso la vecchia televisione a tubo catodico disposta malamente nell’angolo in fondo. Accostai l’orecchio… niente. Per terra, attaccato ad un lungo filo del telefono, c’era il modem wifi di Alice. Lo presi in mano… niente, non era lui.
Tic… tac…
Guardai il balcone sperando che il rumore venisse da fuori. Aprii l’anta e ne approfittai anche per inondare i polmoni di un po’ di aria fresca. Chiusi.
Tic… tac…
Il rumore persisteva. Andai verso una lunga cassettiera in legno scuro. Il rumore sembrava più forte. Aprii un cassetto. Dentro c’era un vecchio computer polveroso, di quelli vecchi e massicci. Lo presi e lo poggiai sul tavolo, cercando di sporcarmi le mani il meno possibile. Lo rivoltai sottosopra… di lato… niente, era più morto di un dipinto. Lo rimisi nel cassetto cercando di riposizionarlo nel modo giusto.
Tic… tac…
Il rumore continuava e la mia mente persisteva sulla strada della curiosità. Aprii il cassetto a fianco e finalmente scovai il colpevole. Trovai un grosso orologio da parete un po’ vecchiotto, con qualche grammo di polvere sul quadrante. Chiusi il cassetto e lo misi sulla cassettiera appoggiandolo al muro. Tornai a sedermi sul divano, sentendomi soddisfatto della missione appena compiuta. Dovevo pensare al prossimo passo… che ore erano? Guardai l’orologio…

10:16
Tic… tac… dannati orologi!

:17… Ero lì sul divano con la testa un po’ inclinata e lo sguardo fisso. Le palpebre si chiudevano a ritmi lenti e regolari. Fissavo quel maledetto quadrante…

:18… Mi sono sempre chiesto come facessero gli stessi numeri a trasformarsi da secondi, minuti in ore. A volte i numeri nemmeno compaiono, sostituiti da semplici linee o puntini.

:19… Ero ancora lì a guardare quell’aggeggio con lo stesso desiderio di un avvocato cinquantenne che fissa una spogliarellista in un night. Desiderio di cosa poi? Fermare il tempo? Forse sì…

:20… Il mio respiro si alternava al ticchettio come un grafico altalenante di una funzione trigonometrica.

:21… Dormivano ancora tutti. Era domenica. Mia mamma stava già preparando il pranzo e sicuramente mi stava aspettando.

:22… Non posso restare. Rispondo ad un immaginario Enzo comparso nella stanza. Se fosse stato reale invece, non avrei avuto il coraggio di dirgli di no.

:23… Ero in ritardo. Dovevo fare ottanta chilometri per tornare a casa. E gli autovelox? Erano…

:24… Triiiin… Triiiinn… suonò il mio cellulare. Distolsi lo sguardo dall’orologio. Ero libero. Ero fuori dal magico incanto del tempo. Respiravo a modo mio. Mi alzai e mi guardai intorno. Tutto taceva.

Devo scappare… Enzo, non posso aspettarti.
Mi venne in mente di lasciare un bigliettino. Strappai un pezzo di cartoncino e lo misi in piano su un angolo pulito del tavolo.
Mi serve una penna!
In una casa di studenti di solito le penne scorrono a fiumi. Purtroppo quella non era la solita casa di studenti e una penna che scrivesse sembrava essere l’oggetto più raro. Mi spostai in cucina, dato che il salotto l’avevo già perlustrato da cima a fondo. C’erano vari bigliettini appesi con dei magneti ad una specie di staffa metallica. Una penna? Niente… Guardai ovunque: tavolo, mensole, frigo… niente di niente.
Tornai in corridoio. A destra e sinistra erano disposte in successione le varie porte delle stanze da letto, in fondo c’era la porta d’uscita e dietro di me il bagno. Non volevo svegliare Enzo che forse stava dormendo con la sua ragazza. Nè tantomeno volevo disturbare la spagnola che storpiava il mio nome. Che fare?
C’era ancora un’altra stanza inesplorata. Apparteneva a un’altra coinquilina di Enzo. Mi aveva detto che non c’era in quei giorni. Aprii con lentezza la porta, preparandomi in mente una scusa nel caso avessi trovato qualcuno. La porta scricchiolava odiosamente. Nessuno, la stanza era vuota a parte il disordine. Mi colpì subito il grosso letto matrimoniale su cui avrei preferito dormire invece dello scomodo divano del salotto. Però avrei dovuto spostare un gran mucchio di stupidi peluche. Andai alla scrivania. Qui di penne ne trovai a iosa. Ne presi una e tornai in salotto. Mi sedetti e presi un minuto per pensare a cosa scrivere.
Allora En… Cavolo!
La penna si bloccò dopo la seconda lettera. Non le andava più di scrivere e dovetti tornare a prenderne un’altra. Ne presi una dalla forma a matita. Odiavo quel tipo di penna. Ma in mancanza d’altro…
En… En… En… E che cazzo!
Questa era proprio da buttare. Non scriveva nemmeno sotto minaccia. Volevo scaraventarla nel primo cestino e l’avrei fatto se fosse stata la mia. La rimisi al suo posto. Forse la coinquilina di Enzo era una collezionista di penne usate. Non si può mai sapere. Presi la terza e tornai in salotto… Questa finalmente scriveva…

         Enzo… Grazie del Pampero
            e del fantastico sabato sera!
                 e dì ad Eva e Carmen che….

..cuore.. (III)

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tum tum.. tum tum..

Veloce.. battito dopo battito il cuore faceva il suo corso. Il suo “sporco” lavoro andava fatto. A suo modo, al suo ritmo, non curante del dolore che mi provocava nel petto. Lui lo sa. Lui non sgarra come me. Forse è vero, forse sono io.. e qui potrei anche fare a meno dei forse.

Vivo in bilico.. sempre sul filo del rasoio. Sempre a guardare la vita da un’altra posizione. Distaccato dal mondo. Come un’anima di un altro corpo. Come un essere insensibile. Come un fantasma in una camera da letto che veglia affianco al mio cadavere. Guardandomi.. osservandomi.. dicendomi qualcosa che io certamente non starò a sentire.. I consigli.. Come dice il mio vecchio poeta, è meglio tenerseli ognuno per se. È meglio seguire i propri, giusti o sbagliati che siano. Perché la vita è così.. e nessuno può capirla..

Che strano a volte, vivere.

 

Una.. due.. tre.. quattro..

 Le gocce cadono in un bicchiere una dopo l’altra. Lente.. cadenti.. quasi infinite. Segnano il tempo. Troppo uguali tra loro.. eppure così diverse. Così perfette ai nostri occhi.  Noi non ce ne accorgiamo. Continuiamo a vivere comunque. Anche se il nostro cuore a volte non ce lo permette. Ci sentiamo importanti.. ci sentiamo forti e superiori.. ci sentiamo invincibili. Ma a certe cose dobbiamo per forza arrenderci tutti.

Il tempo.

Il tempo un giorno mi ucciderà. Un giorno conoscerà il mio punto debole. Saprà sorprendermi.. entrare silenziosamente e sconfiggermi. Abbattere la fortezza di ossa e polmoni che ho costruito per tutti questi anni. Il tempo lo sento addosso.

Sembra strano alla mia età. Sembra strano sentirsi come se il giorno dopo fosse l’ultimo. Ogni giorno. Ogni maledetto giorno.. ogni maledetta notte passata a contare i minuti. Guardando l’orologio e scommettendo sull’ora in cui mi sarei addormentato e quella che non arriva mai sta vincendo un po’ troppo spesso. Le notti sembrano troppo uguali.. proprio come le gocce nel bicchiere.

 

Cinque.. sei.. sette.. otto..

I secondi scorrono sulle lancette. Descrivono un cerchio immaginario.. lento e preciso. Semplice in un istante e complesso nel suo insieme. Numeri e tempo si mescolano tra gli ingranaggi di un aggeggio inventato dall’uomo. Sembra strano a pensarci. Il tempo in fondo l’abbiamo creato noi. Siamo stati noi a voler contare ciò che non possiamo nemmeno vedere o toccare. Siamo stati noi a immaginare questo essere sconosciuto. Questa forza sovrumana inarrestabile.

A pensarci.. quanto sarebbe bello fermare il tempo. Quanto sarebbe bello pensare al giorno dopo senza rimpiangere il giorno prima. Perché il giorno in se non esiste.

Vivere senza numeri sul calendario.. feste programmate e ricorrenze prestabilite. Insomma sopravvivere senza contare i ticchettii scanditi da un oggetto inutile…

Magari fermare una lancetta fermasse il tempo per davvero.

 

Nove.. dieci… undici.. dodici..

Parole scritte sulla tastiera. Uniche.. diverse.. decise e a volte dolorose. Utili a ricordare.. e spesso difficili da digerire. Sono armi che chiunque possiede. Chiunque può usare per fare del bene o del male. Soprattutto se ad accogliere quelle parole è un cuore malandato. Già martoriato da anni e anni di ferite sensibili. Ferite d’amore.  Ferite di storie ormai andate  che solo le parole possono ricordare.

Pensieri.. frasi.. ordini.. urla.. grida.. si susseguono in un crescendo di emozioni interiore. Ci sono certe frasi che descrivono sentieri di brividi sul cuore. Si diramano come le vene nel corpo e le senti dovunque. Le parole, anche quelle più semplici, come un “ciao” scambiato dopo anni di assenza, come un sms ricevuto in speciali circostanze con notizie dolorose, fanno male. Le parole fanno riflettere. Fanno pensare che forse qualcosa veramente può ucciderti. Qualcosa di cui non puoi farene a meno…

 

  

Tredici.. quattordici.. quindici… sedici…

Lacrime versate su una scogliera. Fino a farsi odiare dal mare. Fino desiderare il giorno che verrà. Urlando e detestando il cielo scuro. Pensando che in fondo la fortuna gira e rigira.. e prima o poi arriverà anche a chi ne ha molto bisogno. E le lacrime fanno da cornice all’impossibilità di donare un po’ di questa fortuna che possiedo. Donerei anche la mia vita se servisse a qualcosa. Strapperei anche il mio cuore per donarlo.. sempre sperando che in un altro corpo funzioni meglio. Ma non posso.. e me ne resto qui in questo “comodo” riparo con la mia Tennent’s quasi fuori dal mondo, lontano dalle luci e dai rumori artificiali. Coccolato dalle onde che s’infrangono e dal profumo di salsedine. Nell’altra mano il cellulare. Questo aggeggio tecnologico che dovrei eliminare come ho fatto per l’orologio. Così da rinviare i pensieri ad un’altra vita. E scoprire che in fondo la solitudine non fa così tanto male.

 

Diciassette… diciotto… diciannove… venti…

Righe su uno specchio pulito. In cui la mia faccia si riflette nel centro. A volte mi chiedo se sono davvero io quello li. Se davvero il ragazzo di sempre sa quello che sta facendo. Perché la consapevolezza degli errori a volte arriva un po’ troppo tardi e nell’istante del delirio i limiti sembrano scomparire.  

Il corpo sembra immune e immortale. La mente spazia nell’irrealtà. Il cuore sembra battere decentemente. Le mani tremano insicure. Le labbra insensibili e la voglia di correre all’infinito condiscono il tutto. Il viaggio non è importante. Luoghi e persone ci siano purché casuali. Ho tutto.. e penso che forse mi manca qualcosa. Forse un po’ di sana ragione che mi faccia rigare diritto..

..a messo che questa non sia una delle mie solite battute…

 

 

..tum tum..

..tum tum..

 

 

 

 

 

 

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