Erano anni che non sciavo…
Erano anni che non sciavo…
Calma. Relax.
Disteso sul letto pensavo al mio piccolo gruzzoletto da poco guadagnato in borsa.
“Non devo spenderlo in vestiti e puttanate tecnologiche” pensavo, mentre guardavo la mia mini-tastiera Bluetooth che soggiornava inutilizzata sul mio tavolino. Avevo un leggero mal di testa che da qualche giorno mi tormentava. Non voleva proprio lasciarmi in pace. Avevo bisogno di riposare. Dovevo recuperare tutte le ore perse nelle nottate passate davanti al pc. Chiusi gli occhi e cercai di dormire. Erano le otto di sera. Un orario molto insolito per dormire ma dovevo riuscirci. Cercai di non pensare a niente. Certi pensieri, a volte, mi tormentano fino all’alba. Abbracciai il cuscino e mi girai su un lato.
“Voglio starmene un po’ in pace… voglio dormire per tre giorni consecutivi… voglio…”
Biiiip…
“No… perché non spengo mai il pc?!”
Sporsi una mano dal letto cercando per terra il netbook nero. Lo afferrai e lo misi di fianco a me. Lo schermo s’illuminò e mi mostrò una finestra di chat.
Parigi… vuoi venire? Diceva il messaggio.
Presi gli occhiali per leggere meglio. Magari era uno scherzo. No, c’era scritto davvero Parigi sullo schermo.
Ed io dovevo rispondere…
Ho quasi 24 anni…
Ho quasi ventiquattro anni e non sono mai stato al di fuori dall’Italia. Sembra strano, sembra insolito, pensatela come volete, e non saprei nemmeno spiegarvi il perché.
A sentire tutti questi ragazzini che hanno già volato in ogni dove, quasi mi vergogno a dirlo. Alcuni di loro conoscono a stento il proprio indirizzo di casa e sono stati a Londra, Dublino, Barcellona… hanno viaggiato insomma. Viaggiato… senza nemmeno conoscere il loro punto di partenza.
A volte l’invidio quando raccontano le loro storie… e le mie storie (italiane) sembrano quasi briciole in confronto alle loro. Mi sento così piccolo… mi sento come un bambino che non è mai uscito di casa. Ed in parte è vero… perché porto addosso le stesse paure e gli stessi timori di quell’innocente ignoranza.
Ho paura…
Mi tormenta la paura dell’ignoto. Il timore di trovarmi in un posto sconosciuto… di perdermi e non ritrovarmi mai più. Mi spaventa il pensiero di essere “straniero”, di non riuscire a comunicare e magari infrangere qualche regola che non conosco. Per me il mondo finisce oltre l’orizzonte del mare che ho impresso nella mente sulle spiagge della Calabria… o sulle dolomiti del Trentino dove la fredda neve mi bruciava il viso. Non sono mai andato oltre. Ho visto tutto quello che c’era da vedere in questo pezzo di casa… o quasi… mi manca qualche isola e qualche regione, ma l’Italia la conosco bene. È come se conoscessi ogni stanza di una casa… una bella casa. Ho ammirato i quadri appesi e i lunghi corridoi… ho mangiato nelle diverse cucine e dormito nei diversi letti… ho conosciuto le persone che l’abitano e comunicato con i diversi accenti… ma un giorno mi sono affacciato al balcone di questa casa immaginaria e, guardando il mondo, ho capito che c’erano altre case da vedere, altre stanze da esplorare e altri sapori e profumi da gustare… non c’è un confine come la mia mente immaginava… è un tutt’uno… il mondo è un tutt’uno. Ma in passato, questo mi spaventava… come quella volta che…
Estate ‘06
Eravamo davanti al liceo nei giardinetti antistanti. Passavamo interi pomeriggi su quelle panchine di pietra nelle giornate d’estate. Faceva caldo, ma si stava bene all’ombra della grande magnolia al centro della piazza.
– Dai Ciro! Vieni anche tu! –
– No ragazzi! Ho detto di no! – Risposi a Mario per l’ennesima volta. Andava avanti così da almeno un paio d’ore. I miei amici si alternavano nel farmi la stessa identica richiesta: andare con loro in giro per l’Europa.
– Eddai… guarda che sei ancora in tempo a fare il biglietto… andiamo di corsa alla stazione e… –
– Ho detto di NO! Basta! – risposi con stizza ad Enzo seduto di fianco a me.
Luca stava fumando una sigaretta appoggiato al palo del gazebo in pietra. Guardava la scena divertito.
– Lasciatelo sta’! Se non vuole venire sono cazzi suoi! Chi se ne frega! –
Lo guardai con odio. Lui si divertiva a stuzzicarmi ma quella volta non gli diedi corda. Pensavo ad altro. La mia ostinazione cresceva ad ogni continua domanda e, se avessi ceduto, il mio orgoglio ne avrebbe risentito. A quei tempi avevo la testa più dura della roccia. Se prendevo una decisione, anche sbagliata, persistevo su quella strada fino alla morte. Niente poteva farmi cambiare idea. Niente…
– Va bene… ragazzi, che si fa? Andiamo? Fra poco dobbiamo partire… – disse Mario agli altri due.
– Si andiamo! Ciro, ci accompagni tu alla stazione? –
– Certo, salite in macchina. –
Cinque minuti dopo arrivammo alla stazione. I ragazzi presero gli zaini da campeggio dal bagagliaio e l’indossarono. Erano pronti. Iniziai a salutare Enzo con una stretta di mano e una botta sulla spalla.
– Divertiti… – gli dissi.
Salutai Luca stringendogli la mano e guardandolo negli occhi quasi volessi sfidarlo. Lui face un grosso sorriso seguito da una grossa boccata di fumo.
– Ritorna tutto intero… – gli raccomandai. Era uno stronzo, ma gli volevo infinitamente bene.
Mi girai verso Mario e lo guardai negli occhi.
– Ciro… – disse con aria delusa e mi abbracciò. – Vieni con noi… –
Sorrisi…
In quel preciso istante un pezzo di me crollò. La mia barriera cedette… avrei voluto urlare un si secco e conciso, senza pensarci. Volevo andare con loro… volevo partire… in quel momento gli avrei risposto di si. Qualcosa si stava muovendo nel mio stomaco e il mio cuore cambiò rotta. Solo la bocca doveva intervenire.
Mario mi guardò negli occhi:
– Ok… scusa se continuo ad insistere… c’ho provato… – Si girò e raggiunse gli altri che stavano entrando in stazione. Li guardai allontanarsi. In quel momento sentii un vuoto dentro. Un vuoto incolmabile, un vuoto che dovevo riempire al più presto… Un vuoto che forse non avrei mai compensato… Avevo perso quella opportunità per sempre… perché non avrei mai più avuto diciott’anni…
Tornai a casa con l’anima in panne e il cuore infelice.
Scrissi su un foglio: Non ripeterò mai più quest’errore…
Il portatile era sul letto. Passeggiavo per la stanza con la mia pallina rossa in mano. La conversazione era ancora aperta e un’icona lampeggiava. Dovevo scrivere qualcosa…
Andare a Parigi? In Francia… non riuscivo nemmeno ad immaginarlo. Non sapevo cosa rispondere. Stringevo la pallina nella mano. Misuravo la stanza con i miei passi. Su e giù, su e giù… balcone, porta… scrivania, letto. Andare o non andare? Partire o non partire? Mi sedetti su un cuscino per terra. Guardai la mensola davanti a me. C’era una foto appesa con un magnete. Mi ritraeva sotto una neve pesante. Me l’aveva fatta mio padre con una vecchia Pentax a pellicola. Allora non esistevano ancora le macchinette digitali. Mi piaceva tanto quella foto… perché mi ricordava quella volta che…
Inverno ‘99
Nevicava. Il freddo cercava di penetrare la mia pesante tuta da sci. Ero sulla seggiovia, solo. I miei genitori e i miei cugini mi stavano aspettando in cima. Come al solito, nella confusione della fila, mi ero perso. Salivo lentamente. Il cigolio del cavo d’acciaio a cui ero appeso mi rilassava, mi faceva dimenticare che sotto di me c’erano almeno cento metri di vuoto. Non ho mai avuto paura dell’altezza. Anzi… ho sempre voluto sfidarla. Tutto ciò di cui potrei aver paura mi piace sfidarlo. Ero quasi arrivato. Misi la maschera sugli occhi e abbassai il cappello. Impugnai i bastoncini. La seggiovia arrivò al capolinea. Scesi cercando di non cadere. Non volevo sembrare un dilettante. Ero in vetta a circa 3000 metri di quota. La neve era fantastica. Tirava un vento fortissimo. Se non avessi avuto la maschera non sarei riuscito ad aprire gli occhi. Mi spinsi avanti con i bastoncini. Arrivai ad uno spiazzo con un bivio di piste. Nevicava e non riuscivo a vedere bene le persone intorno a me. Cercavo i miei parenti ma riuscivo a vedere solo facce di gente sconosciuta. Sciai un po’ più avanti e mi trovai di fronte ad un cartello.
C’era una bandiera rossa con una croce bianca al centro e la scritta Svizzera sotto. Una freccia indicava la direzione. Davanti a me c’era il bordo d’inizio pista. Ero praticamente davanti a un confine. Se fossi sceso per quella pista sarei arrivato in Svizzera. Puntai i bastoncini nella neve come una sorta di ancora per le navi. Cercai di scrutare l’orizzonte. Tutto infinitamente bianco. Così indistintamente bianco che pensai che la Svizzera fosse tutta bianca. Dove giravano mandrie di mucche viola Milka e un’immensa fabbrica di cioccolato Novi. Ero curioso di vederla. Volevo vedere com’era fatto questo Paese tanto rinomato. Feci un altro passo in avanti. La pista stava per iniziare. Le punte dei miei sci erano staccate da terra per via della pendenza della pista. Volevo buttarmi… volevo sciare in un posto inesplorato. Volevo andare dove mi andava… volevo vedere e sentire… e anche io volevo raccontare di esser stato al di fuori dell’Italia.
Staccai i bastoncini dalla neve. Feci un gran respiro profondo e…
Una mano mi fermò la spalla…
– Dove cavolo vorresti andare?! – disse mio padre dietro di me.
– Da questa parte! –
– Di là si va in Svizzera… –
– Quindi? –
– Quindi una volta sceso, non saresti più potuto risalire con la seggiovia! Saresti rimasto lì… ed io ti avrei lasciato lì! Perché non mi stai mai a sentire quando parlo! –
Guardai di nuovo quel vuoto mentre mio padre mi faceva la ramanzina. Mi risuonarono in testa quelle parole: “non saresti più potuto tornare indietro!”
Ebbi paura e ritirai i miei sci. Dissi addio alla Milka e al cioccolato pensando che, in fondo, il cioccolato e il formaggio italiano non erano male. Dissi addio a quel bianco infinito. Restai con la curiosità insoddisfatta di sapere com’era il mondo al di fuori di questo confine…
Mi sedetti sul letto con la foto tra le mani.
“Quanto ero piccolo e ingenuo… Quanti problemi che mi facevo… e quanti guai che ho combinato! Quanti rimorsi…”
Guardai il pc sul letto.
Bip
Allora?
Feci un respiro profondo. Presi il portatile e lo misi sulle gambe.
– Allora… quand’è che si parte? – risposi senza battere ciglio.
Piano piano aprii un occhio… poi anche l’altro. La luce del sole mi batteva sul viso. Mi dava un po’ fastidio, appena sveglio. La notte prima io e Ciro ci eravamo dimenticati di chiudere la tenda rossa. Mi voltai verso di lui. Dormiva ancora. Era tutto scomposto. Una gamba spuntava fuori dal piumone e aveva la faccia affondata nel cuscino. Sicuramente la luce dava fastidio anche a lui.
Non sapevo che ore fossero, ma visto che iniziavo a sentire le voci dei miei genitori e del padre di Luca, era ancora troppo presto. Affondai anche io la faccia nel cuscino cercando disperatamente di riprendere sonno. Ma sapevo già che non ci sarei riuscito. Quando mi sveglio… non mi riaddormento più.
Pensai alla notte prima. Cercavo di ricongiungere tutti i pezzi di puzzle che restavano confusi nel mio mal di testa. Mi mancava un pezzo di storia…
Cosa avevamo fatto ieri notte?
Poco dopo entrò mio padre… che appena ci vide disse ad alta voce:
– Sveglia, sciatori… gli altri sciano e voi siete ancora qui a dormire!- e se ne andò…
Ciro voltò la testa nella mia direzione senza staccarsi dal cuscino. Cercò di aprire faticosamente gli occhi… mi vide sveglio e mi chiese… – È già passato zio Umberto? –
– No… –
– Allora passerà fra poco… –
E, puntuale come un orologio svizzero, entrò nella nostra camera anche il padre di Luca. Anche lui con lo stesso intento di mio padre: svegliarci.
– Neh… ragazzi… ma ieri sera a che ora vi siete ritirati? –
Sentendo che Ciro non rispondeva, lo feci io:
– Non ricordo zio… l’una… le due… –
– Nell’altra stanza Luca dice che vuole dormire e che scende più tardi… –
Se ne andò anche lui e tornò il silenzio. Feci un respiro profondo. Guardai alla finestra il paesaggio all’esterno. Il bianco della neve regnava ovunque. Aspettava solo noi…
Un paio d’ore dopo sentivo i piedi che mi facevano un po’ male. Gli scarponi da sci erano leggermente stretti, così li allentai. La cabinovia ci stava portando lentamente fin su in cima. Con me c’erano i soliti tre scapestrati. Presi dalla tasca un Twix e mentre lo mangiavo buttai l’occhio nel vuoto. Si vedeva tutto il paese da lassù. Le abitazioni sembravano miniature di un plastico ben architettato. Le vie erano piccoli sentieri neri che uscivano dal folto gruppo di case in ogni direzione. Sullo sfondo, le cime delle montagne, tutte imbiancate, dominavano la vista. La neve aveva cancellato le loro forme originali per ammorbidirle con il suo soffice strato. Mi chiedevo se prima o poi tutta quella neve sarebbe caduta a valle. Era veramente tanta. Certe montagne erano così bianche da sembrare fatte solo di neve. Avrei voluto dare un morso a quelle ipotetiche torte piene di zucchero a velo.
La cabina arrivò in cima. Si fermò lentamente e scendemmo tutti.
Clack…
Clack…
Gli sci calzavano precisi sotto i miei scarponi. Sembravano un prolungamento delle mie gambe in orizzontale.
– Giriamo a destra… non ho voglia di salire ancora… voglio sciare! –
I ragazzi mi seguirono mentre sciavo in piano, a colpi di racchette. Non so… ma quegli affari ai piedi mi facevano venire una voglia matta di usarli. Ero arrivato all’inizio della pista. Le punte degli sci erano fuori e non toccavano la neve.
Respiro profondo… chiusi gli occhi un istante… e via… giù per il rapido pendio.
Destra… sinistra… destra… sinistra…
L’adrenalina si accumulava nel mio corpo mentre la velocità man mano aumentava. Il cuore batteva furiosamente di più ogni volta che accadeva un piccolo imprevisto, come una persona che ti tagliava la strada o un piccolo cumulo di neve in mezzo alla pista. I riflessi sempre pronti servivano a questo. La discesa continuava, era una lunga pista. I miei polpacci erano diventati d’acciaio. Non sapevo per quanto ancora sarei riuscito a tenere le curve. Mi dovevo fermare, ma la velocità era troppo alta. Feci un paio di piccole curve a destra e sinistra per diminuirla ma niente. Ero ancora troppo veloce. I miei amici si erano già fermati davanti all’impianto di risalita. Restai concentrato sugli sci. Le mie gambe stavano per cedere. La fine della pista era vicina. Sfrecciai davanti al cartello piantato nella neve su cui campeggiava la scritta rallentare. Dovevo fermarmi. Subito.
Girai a destra facendo perno sulla gamba più “forte”… cercai di piantare il più possibile le lame degli sci nella neve. Cercai di frenare ma continuavo a correre veloce anche in diagonale. Osservavo i volti delle persone che mi guardavano poco più giù, tra cui anche quelli dei miei amici. Frenai ancora… frenai troppo… uno sci cedette girando la punta a valle mentre l’altro era ancora trasversale…
E Paaamm!
Sbattei violentemente la spalla sinistra sulla neve che sembrava più dura del cemento. Feci due o tre giri mentre uno sci si staccò e volò chissà dove. Le racchette, neanche a pensarci. Sentii la neve ovunque fino a quando non mi fermai di schiena. Aprii gli occhi… Respiravo forte… guardai il cielo e pensai…
“Beh… una bella caduta oggi ci voleva proprio!”
Appena varcata la soglia del Miky’s pub, sembrava quasi d’entrare in un altro mondo. Fuori tutto tranquillo e regolare. Il silenzio regnava ed era rotto solo dal rumore dei nostri passi. Dentro invece si sentiva la musica, le persone che parlavano, il tintinnio di bicchieri e bottiglie. Sembrava proprio di aver oltrepassato lo stargate ed essere entrati in una nuova dimensione.
All’ingresso c’era una giovane ragazza addetta al guardaroba, cosa che non avevo mai visto in un pub old style. Mi bloccai…
– E questo a che cazzo serve?! –
Poco di fianco alla ragazza c’era uno scivolo in legno che portava al piano di sotto, da dove proveniva la musica. Rimasi per un po’ ad osservarlo fantasticando sulle mille cose che avrei potuto farci. Di fianco al bizzarro scivolo c’erano le scale. Le scendemmo e venimmo inondati da musica dance ad alto volume. Guardai tutta la sala e pensai che finalmente avevano inventato ciò che volevo: una discoteca… in un pub.
Perché sì… entrambi i locali hanno i loro pregi ma anche i loro piccoli difetti.
In discoteca, se entri… devi per forza ballare. Non c’è mai un fottuto posto dove sedersi e godersi il proprio drink. Drink che deve essere per forza un cocktail, perché se prendi una birra ti guardano storto e pensano che tu sia un ubriacone. Nonostante ciò, mi piace ballare… sentire la musica dance o house che ti pompa nelle orecchie solleticandoti la mente e dandoti piccole scariche di adrenalina.
Nel pub, invece… ti siedi con davanti la tua bella birra doppio malto e gli amici intorno. Scheggi un po’ il tavolo col coltellino, racconti un po’ di stronzate a chi vuol sentire. Ma la musica che c’è non è mai quella giusta… o non sempre. Una volta sono entrato in un pub dove la canzone migliore era di Laura Pausini. Il pub che prendo sempre come riferimento è lo Sloppy’s Joe di Dante. E’ uno dei migliori, a mio avviso. Forse solo perché ci ho passato i migliori anni della mia vita. Ed anche lui ha la pecca di tutti i pub. La musica e soprattutto, sono almeno 5 anni che sui suoi schermi gira ancora a ripetizione senza voce quel cavolo di film di Sin City e non c’è bisogno di dirvi che lo conosco a memoria.
Il Miky’s pub, quindi… era un po’ tutt’e due. Sulla destra c’era il lungo bancone in legno dove il barista serviva i cocktails. Quasi in fondo alla sala c’era una postazione deejay rialzata con annesso ragazzo con cuffia e capelli strani. Sulla sinistra invece c’erano i tavolini, di quelli alti con gli sgabelli sempre in legno. Qui un po’ tutto era in legno… e io amo il legno. Al centro del locale c’era uno spazio non molto grande, dove la gente ballava.
Ci sedemmo in fondo. Enzo, Ciro, Luca ed io.
Tutti intorno allo stesso tavolo, a guardare la sala piena di gente.
– Non è male questo posto… –
– Già… ordiniamo qualcosa… –
– Una bella bottiglia di vino bianco… e quattro bicchieri… – proposi io.
– Chi inizia? …Ok ok… ho capito… vado io… – dissi.
Andai al bancone. Feci segno al barista di venire da me.
– Che vini bianchi hai? – Gli urlai.
Lui ne elencò alcuni, ma io non capii niente a causa della musica troppo alta e gli dissi:
– Fai tu! –
Poco dopo tornai al tavolo con la bottiglia stappata e quattro bicchieri a calice alto.
Poco dopo ancora… la bottiglia era vuota.
– Guarda quelle tre sedute lì…-
Mi voltai nella direzione indicata da Ciro e vidi tre ragazze sedute a un tavolino. Una mora, una castana e una bionda. Mancava la rossa e il quadro era completo… pensai sorridendo.
– Vanno a vino anche loro… – disse Luca, osservando i loro bicchieri.
– Quella con i capelli corti è la più bella… –
– Naa… meglio quella con gli shorts… –
– Perché la bionda la vogliamo buttare via? –
– Perché non vai da loro e chiedi se vogliono sedersi qua con noi? La prossima bottiglia la offro io… –
– Tu comincia a offrire… al resto ci penso io… – risposi
Naturalmente, essendo quello più vicino al bancone in linea d’aria, dovetti alzarmi io. Il barista mi vide e gli chiesi di stapparmi una nuova bottiglia. Lui al volo la prese, stappò con classe e me la diede.
Dopo mezzanotte la musica cambiò. Si fece più aggressiva e ballabile. Guardavo la sala un po’ annebbiato dall’alcol. I ragazzi erano andati nella sala fumatori e rimasi solo a fare la guardia alla bottiglia vuota di vino bianco.
A un certo punto il deejay cambiò canzone. Una di quelle belle che mi piacciono molto… ma che adesso… proprio non ricordo.
Questa devo proprio ballarla, pensai
E mi buttai in pista tra la gente che si dimenava al ritmo di musica. Iniziai a muovermi cercando di ballare decentemente in quello spazio ridotto. Intorno a me c’erano ragazzi e ragazze di ogni tipo. Dai volti si riconoscevano tedeschi… polacchi… svizzeri. C’erano anche le tre ragazze sedute a quel tavolo. Ballavano vicino a me. E ogni tanto mi adocchiavano. Mentre ballavo, mi voltai in direzione del mio tavolo. Vidi i miei tre amici tutti li seduti che mi osservavano. Sentivo i loro occhi addosso e sapevo già cosa stavano dicendo su di me.
So cosa ci vuole.. pensai.
Mi appoggiai al bancone con un gomito. Il barista mi vide e iniziò già a prendere una bottiglia di vino. Praticamente non gli dissi niente. Lui già sapeva.
– Thanks… – gli risposi e tornai al tavolo.
Purtroppo quella bottiglia fu l’inizio della fine. Un attimo dopo averla vuotata, il mio cervello praticamente galleggiava nell’alcol. E subito dopo, una scena incontrollabile si prestava agli occhi di tutti i presenti nella sala. Io su una specie di palchetto che facevo volteggiare la mia maglietta al ritmo di musica. Il barista corse da me e cercò di farmi scendere, urlandomi di rimettere la maglietta. Per fortuna non si incazzò.
Tornai al tavolo e mi detti una calmata.
Vidi Enzo e Luca che parlottavano con una ragazza inglese. Quest’ultima sorrideva mentre mi guardava. Enzo le aveva detto qualcosa. Lei mi disse – Ok, ok… – e mi fece un gesto di approvazione con la mano. Non capii niente. Ero un po’ stanco, ma l’alcol mi teneva sveglio. Entrai nel gruppetto che si era formato con l’inglese. Cercavo di biascicare qualche parola che lei, con mio stupore, comprese. Enzo era quello che se la cavava meglio. Forse anche perché era più sobrio di me. Dopo un po’ mi limitai a osservare, cercando di calmare un po’ i battiti del mio cuore. Avevo un bicchiere vuoto in mano e ci giocavo.
Dopotutto, questa serata non è andata poi così male, pensai mentre guardavo
lo strano scivolo dall’altra parte della sala…
Nuvole di fumo volteggiavano nell’aria. La luce sul soffitto evidenziava il tutto. Aprii la finestra quel tanto che bastava per respirare un po’, cercando di non far entrare troppo freddo. A volte il fumo mi dà fastidio, a volte invece me lo vado a cercare. I ragazzi stavano buttati sui due letti accostati della camera. Luca e Ciro stavano giocando a Street fighter con il mio pc, mentre Enzo li osservava seduto da un lato. Me ne stavo in piedi con le spalle volte alla finestra e il culo sul calorifero.
Pensavo…
Pensavo che quella era una scena che avevo visto già altre volte. Come quando eravamo a Rimini e dormivamo tra bottiglie di alcol e tabacco. Oppure quando avevamo ancora il nostro circolo e accostavamo i divani per dormire quando era troppo tardi per tornare a casa. Erano tutti nelle stesse, identiche posizioni… sembrava proprio che gli anni non fossero mai passati.
– Dai che ti batto! Sei mio! Vieni qua! –
– No, cazzo! Ciro, come si fa la super mossa? –
– Ragazzi… davvero volete passare la serata ad abboffarvi di mazzate virtuali? – chiesi, pur conoscendo già la risposta.
– Si! –
– Dai ragazzi… ho voglia di uscire! –
– Ma fuori fa un freddo cane! –
I ragazzi non erano molto intenzionati ad uscire quindi chiusi il pc davanti ai loro occhi.
– Nooo… –
– Usciamo, punto. –
Fuori si respirava un freddo gelido. Un freddo secco e buono che ci gelava i polmoni.
E nella notte 4 ragazzi si muovevano nel vuoto. Facendo il loro dovuto porco casino. Il paese sembrava deserto. Forse tutte le brave persone erano a dormire. Il giorno dopo si sciava e il corpo doveva essere riposato e sereno, quasi come se fosse una giornata di lavoro. Così la pensavano alcuni… tra cui i nostri genitori.
– Chi lo sa come fa la gente a vivere qui? –
– C’è abituata. –
– Abituata a ‘sta madonna di freddo? –
– Sì… avranno i loro metodi… le loro abitudini… –
– Ah… tipo quella di non uscire la sera alle 10 come noi? –
– Beh… forse non usciranno tanto spesso… –
Un brivido mi scosse tutto. Forse il mio giubbotto imbottito non era abbastanza. Quel freddo pungente mi era penetrato dentro. Un po’ mi piaceva. Quel freddo scuoteva il mio corpo e non mi faceva pensare ad altro. Mi distraeva con il suo temperamento irruente e invisibile. Camminavamo alla ricerca di questo ipotetico pub dove divertirci un po’. Eravamo già un po’ brilli. Nostro zio aveva stappato la bottiglia di grappa a tavola, oltre alle bottiglie di vino che avevano già contornato la cena. Quest’anno l’aveva comprata al miele. Tutti gli anni che siamo stati in settimana bianca se n’è sempre uscito con un gusto nuovo. Mi ricordo che un anno la comprò alla rucola. Quest’anno con il miele non è che sia stata una gran cosa… ma l’abbiamo bevuta lo stesso. Dopotutto non è che il gusto della grappa si senta molto. Più che altro, si sentono tutti i suoi tosti 40 gradi.
Eravamo arrivati quasi ai confini della cittadina. Ogni tanto passava qualche macchina. I ragazzi volevano tornare indietro, ma li convinsi a continuare. A un certo punto, sulla destra.. c’era una baita in legno di discrete dimensioni. Su una facciata risplendeva alla luce della luna la scritta dorata dell’insegna.
– Ragazzi… Perché non ci fermiamo qui? –
E fu così che varcammo la soglia… del Miky’s pub…
Ero fermo a questa fermata del bus di questa sconosciuta cittadina montana. Il freddo cominciava davvero a sentirsi. Dopotutto, ero a quasi 2000 metri d’altezza. Mi abbottonai meglio il giubbotto e presi dalla tasca il mio cellulare.
Prima che potessi chiamare, mi chiamò Luca.
– We Ciro! Sei arrivato o no? –
– Certo che sono arrivato! Venite a prendermi! –
– Ok… dicci dove sei! –
– Non lo so… –
– Daiii, dimmi cosa vedi intorno a te… –
– Beh… una strada… neve… altra neve… –
– Non fare lo scemo! Dimmi il nome di una via… di un bar… di qualcosa… –
– Non so, Luca… qua non vedo nessun nome… ah ecco, sono di fronte al negozio di Ralph Lauren… –
Dopo un po’ un furgoncino grigio sbucò da una strada laterale. Alla guida notai mio padre, a fianco mia madre e mio zio. Finalmente mi ricongiungevo con il gruppo dopo questo viaggio in solitaria. Il furgoncino si fermò. Luca mi aprì il grande portellone laterale. Salii velocemente a bordo mentre tutti mi salutavano. I miei fratelli mi fecero spazio dietro. Mia madre si girò per vedermi.
– Che hai fatto? – esclamò vedendo il mio aspetto.
– Niente, mamma… mi sono tagliato i capelli con la macchinetta. –
– Ma guarda questo. – disse, rassegnata.
Mio padre cercava, con qualche sforzo, di manovrare quel gigante trabiccolo, imprecando quando non entrava qualche marcia.
Luca ed Enzo si voltarono verso di me.
– Tutto a posto Ci? –
– Sì sì… alla grande… –
– Ehhh, beato te… noi ci siamo fatti una notte insonne su ‘sto coso. –
All’appello mancava mio cugino Ciro. Mi girai intorno. Allungai il collo per vedere nei posti davanti e lo vidi tutto aggrovigliato tra coperte e cuscini che cercava di riposare. Doveva esser stato duro, questo viaggio di 10 ore.
Dopo poco arrivammo a “casa”. I ragazzi si sgranchirono le gambe mentre mio padre apriva il portellone posteriore per prendere i bagagli. A mano a mano salimmo tutte le valigie su in camera.
La casa era carina. Aveva un lungo corridoio centrale con ai due estremi una cucina e un bagno. Nel mezzo c’erano le porte che davano alle varie camere da letto.
Entrai nella prima camera e dissi:
– Mia! –
Ciro mi guardò ed entrò anche lui. Gli altri si sistemarono nelle camere restanti. Non mi dispiaceva dividere la stanza con mio cugino. Luca ed Enzo li conoscevo bene ormai. Abbiamo fatto tante di quelle cazzate insieme che ormai potremmo definirci anche fratelli. Invece Ciro, pur essendo mio cugino carnale e non “derivato” come Enzo e Luca, lo conoscevo ben poco. Lui aveva un’altra compagnia di amici e rare volte ci eravamo incrociati in quel di Montesarchio. Quando eravamo piccoli e mio nonno era ancora in vita ci vedevamo più spesso. La domenica sera si cenava tutti a casa mia. Il vecchio nonno Ciro era sempre a capotavola. Era grazie a lui che io e Ciro portavamo lo stesso nome.
– Ciro… tu dove ti vuoi mettere? –
– È uguale. Ma che sono ‘ste coperte? –
– Boh… dove sono le lenzuola?.. –
– Che mostro! Sono piumoni foderati. Praticamente non servono le lenzuola. Qua stanno proprio avanti… –
Ciro andò di là a divulgare l’eclatante scoperta che aveva fatto. Rimasi solo nella camera, tra le valigie sparse distrattamente. Mi avvicinai alla finestra. Il freddo vetro si appannava sotto i colpi del mio respiro. Fuori il paesaggio era incantevole. Sembrava finto. Come se fosse stampato su una di quelle cartoline da 30 centesimi. Sembrava così irreale… così magico. Non volevo lasciare tutto ciò. Ero appena arrivato e già pensavo a quando me ne sarei andato. Era come se la mia mente avesse già vissuto tutto. Come se avesse già visto quella soffice neve. E in un attimo ero già avanti… come se la valigia chiusa sul pavimento indicasse una partenza e non un arrivo. Lo so… dovevo ancora vivere quella vacanza e già pensavo alla sua fine. Solo perché… non avrei mai voluto andar via di lì…
Dannata malinconia…
Dalla porta irruppero Ciro, Luca ed Enzo ciarlando di qualche cazzata incomprensibile.
Ciro si buttò sul letto e infilò la testa sotto il cuscino dalla stanchezza. Luca mi scostò dalla finestra e la aprì. Tirò fuori dalla tasca il pacchetto di Camel Light.
– Ce la fumiamo? –
E da li in poi…
… la mia stanza diventò la sala fumatori dell’appartamento livignese.
Ti ti ti ti ti ti.. ti ti ti ti..
La sveglia del mio cellulare suonò. Ero nel letto e mi rigiravo, mentre il sole che penetrava dalla finestra appannata mi batteva sugli occhi. Erano le otto ed ero a chilometri da casa. Erano le otto ed ero da solo.
Mi sentivo come nel film Mamma ho perso l’aereo. Avete presente la scena in cui il bambino si sveglia in casa e non trova nessuno? Beh, quello ero io…
In quella casa regnava il silenzio. In quella settimana la parola silenzio non l’avevo mai sentita nominare. Tra mia madre che preparava la colazione, papà che sbraitava perché c’eravamo alzati troppo tardi e i miei fratelli che litigavano per chi doveva andare prima in bagno, la mattinata era sempre un po’ movimentata.
Forse quel silenzio mi avrebbe fatto bene, era rilassante. Ma a chi volevo darla a bere… adoravo quell’irritante casino.
Mi sgranchii un po’… Sentivo i muscoli ancora indolenziti e il polso mi faceva ancora un po’ male. Mi alzai e preparai la valigia. Sembrava ieri di averla riempita per la prima volta ed ora mi trovavo qui.. a sistemare pantaloni e magliette come se un’altra vacanza stesse per iniziare. Purtroppo prima o poi si deve ritornare a casa.
Feci un giro per le stanze vuote. Tutta la combriccola era già partita col furgone verso il Sud. A me invece toccava tornare a Milano tra i libri.
Arrivai nella cucina dove c’era il divano rosso e le sedie gialle. Dove cenavamo tutti insieme. Dove giocavamo a carte e dove la sera cominciavano discorsi di politica e di attualità per finire fino a tardi. Tornai indietro nel corridoio e passai in rassegna tutte le camere da letto.
La camera di Luca… La camera di Enzo… La camera dei miei genitori… La camera dei miei fratelli…
E poi veniva la mia camera…
Mi soffermai sulla porta…
Vorrei dormire qui ancora una volta…
Vorrei stare qui e fregarmene di tutto…
Vorrei patire il freddo di questo luogo piuttosto dei problemi di altre “calde” città…
Vorrei star fermo per un momento e non pensare a niente…
Vorrei…
Freddo… Faceva tanto freddo quella mattina…
Il mio trolley traballava sui ciottoli di quella piccola città. Livigno.
Nevicava leggermente e qualche fiocco mi finì in faccia. Sentivo il freddo sulla mia pelle che penetrava fino al cuore. Ero solo in quel momento… Fui l’ultimo a dover lasciare quel posto. Solo qualche giorno prima avevo percorso quella stessa strada con i miei cugini. E allora il peso del freddo non lo sentivo affatto. Chissà dove erano ora. Passai davanti al Miky’s pub e sorrisi. Pensai a tutto quello che gli avevamo fatto passare, a quel povero locale. Magari il barista era lì alla finestra e mi stava fissando. Forse sarebbe voluto uscire a rimproverami ancora per l’altra sera. Sorrisi. Un po’ di malinconia scivolò via. In fondo in fondo non volevo andarmene da lì… Quei giorni erano volati in un baleno ed ora dovevo tornare alla mia Milano.
Arrivai alla fermata. Lì vicino c’era un bar.
– Un cappuccino per piacere… –
La ragazza piccoletta dietro il bancone mi osservò un istante e subito si mise all’opera. Sentii un piacevole odore di brioches che si espandeva nell’aria.
– Scusa… mi sapresti dare un’informazione? – Chiesi alla barista.
– Certo. –
– Mi sapresti dire a che ora è il prossimo pullman per Tirano?-
– Alle 9.45… –
– Grazie… Intanto mi posso accomodare?-
– Ma certo… –
Entrai nella sala e mi sedetti al primo tavolino che trovai. Guardai l’orologio… mancava un’ora. La nordica morettina mi portò il cappuccino al tavolo. Le sorrisi per ringraziarla. Mentre mescolavo lo zucchero, mi guardai intorno. C’era un gruppetto di tedeschi seduto al tavolo a fianco che chiacchierava allegramente. Non capivo una parola…
Tirai fuori dalla borsa il mio portatile bianco e lo accesi…
Avevo giusto il tempo per far ciò che amavo di più…
Mentre dalla vetrina si vedeva l’insegna blu del negozio
di Ralph Lauren…