A Neverending Summer (IV)

A Neverending Summer 3

–       Acqua! –
–       Acqua! Gianni… Acqua! –

Aprii gli occhi. Ero nella mia macchina. Avevo la gola così secca da sembrare una terra arida. Il sedile passeggero era completamente steso. Mi toccai le gambe. Avevo i calzoni fradici. Sete! Ho una fottuta sete! Guardai alla mia sinistra. Gianni dormiva ancora. Tutto era sfocato. Gli occhi mi bruciavano come se avessi fatto un bagno lungo tutta la notte. Vari flash mi riportarono alla mente qualcosa della nottata precedente. La musica… le ragazze… la schiuma. Quella maledettissima schiuma mi ha ridotto così! Mi strofinai gli occhi più volte per vederci meglio. Mi sentii disorientato. La forte luce del sole mi abbagliò. Vidi il mare vicino, troppo vicino. Un molo, delle barche ormeggiate, gli scogli… Dove cavolo siamo?! La domanda successiva che mi feci fu chiedermi il come fossimo arrivati fin lì. Con una mano strattonai una spalla di Gianni.

–       We… –
–       Oh… –
–       Sei vivo? –
–       No… –
–       Ed Io? –
–       Nemmeno tu! Siamo morti insieme ieri sera! –
–       Ah… allora il paradiso assomiglia a un porto… chi l’avrebbe mai detto! –

Gianni tornò a dormire.
Preso dalla curiosità, aprii la portiera e scesi dalla macchina. Le gambe, per fortuna mi reggevano ancora. Mi guardai i piedi. Sono sicuro che ieri avessi delle scarpe…
Riguardai in macchina ed erano lì, sul tappetino. Le indossai.
L’aria fresca della mattina mi gonfiava i polmoni. Guardai il mare. La testa girava ancora ma riuscivo a camminare diritto… forse. Presi a camminare lungo il bordo del molo. Mi fermavo ogni tanto per non perdere l’equilibrio e finire sugli scogli sotto di me. Purtroppo la ghiandola del pericolo doveva essere ancora in macchina da qualche parte insieme al mio calzino destro.
Mi sedetti su una piccola sporgenza del molo. Chiusi gli occhi e mi arresi alla luce del sole che, con il suo caldo tepore, mi riscaldava il volto. Incrociai le gambe. Pensai…

Pensai alla libertà…
A quanto fosse cambiata la mia vita in soli 10 anni…
10 anni fa una cosa del genere sarebbe stata impensabile. Avrei avuto gli elicotteri della polizia sopra di me che mi cercavano, mandati dai miei ansiosissimi genitori.
Pensai ai ricordi… agli amici… ormai tutti maturi e oltre l’età per le avventure.
Tranne Gianni, quel poveretto che dormiva nel lato guidatore della mia Fiesta.
Chissà cosa l’ha spinto a seguirmi in quella che doveva restare solo una folle idea detta senza darci troppo peso.
Pensai…
Tra 10 anni dove sarò?
Ancora lì, su quel molo, a chiedermi se avessi allacciato bene le scarpe con il mio classico doppio nodo? Forse…
Forse metterò la testa a posto…
e soprattutto… crescerò.
…e non vorrei mai smettere di scrivere…

–       Ciro! Sali in macchina! Andiamo a farci una bella giornata di Mare! –

.

.

Fine………
.(forse)

A Neverending Summer (III)

Perché mi danno sempre del bravo ragazzo? E’ odioso…

Buio… luci intermittenti… persone.
Ragazzi e ragazze in ogni luogo ballavano, strusciandosi gli uni sugli altri. La procace deejay della serata, metteva su, pezzi ritmati dal gusto prettamente estivo.
Guardai tra le mie mani e ci trovai un cocktail.
Direi proprio che dovresti smetterla! Dissi alla mia mano. Purtroppo, non mi sentivo ancora sazio di alcol e continuavo a bere. Avevo quella strana e ossessiva sensazione che mi spingeva a continuare a prendere drinks. Chissà dove sono gli altri… pensai.
Una mano mi toccò la spalla. Era Gianni che mi sorrise. M’indicò un punto tra la folla che difficilmente misi a fuoco. C’era il piccoletto che avevamo portato con noi, che ballava con tre e ripeto 3, ragazze attorno a lui.
–       Ci sa fare il ragazzino! – dissi a Gianni.
–       Già! –
Il ragazzetto moro di certo non faceva complimenti. Elargiva toccate e contatti fisici a destra e manca. Le ragazze ridevano di tanta spontaneità. Vedendolo in quegli atteggiamenti, quasi lo invidiai pensando a tutti i ceffoni che mi sono preso per fare soltanto la metà delle cose che stava facendo lui. Afferrò una ragazza per il collo e cercò di baciarla. Lei rise e lo allontanò. Gianni ed Io decidemmo d’intervenire, per evitare future discussioni. Ci avvicinammo al gruppetto delle ragazze. Ci presentammo e subito ci scusammo per i comportamenti eccessivi del nostro compagno. Le ragazze però, non sembravano turbate, anzi, erano molto divertite per la strana serata. Scambiai due chiacchiere con tutte e mi meravigliai quando mi dissero che avevano passato tutte i trent’anni. Mi sentii stranamente piccolo nei miei 26, per la prima volta dopo molto tempo. Il ragazzetto intanto, si comportava peggio di una scimmia imbizzarrita. Ballava, toccava, strusciava. Non perdeva un colpo.
Poi… Arrivò la schiuma dal cielo e fu blackout.
Le luci si fecero più scure e l’aria diminuì in un colpo solo. In un attimo, la pista si riempì di corpi inzuppati che tentavano di danzare nel poco spazio disponibile.
Tra la schiuma, la forte musica e la poca aria, non so descrivere cosa mi reggesse in piedi. Smisi di ballare e cercai un varco verso l’uscita. Mi sedetti su un cubo per poi scoprire che era una cassa dalle forti vibrazioni che emanava al mio culo.
Mi guardai le gambe e i vestiti. Fradici. Tirai fuori dalla tasca il mio cellulare per controllarne lo stato. Zuppo anche lui. Nell’altra mano avevo stranamente un cocktail.
Ora tu dimmi come cavolo sei finito qui! Gli dissi.
Subito dopo il diverbio tra me e il mio cocktail, si sedette una ragazza di fianco a me.
La guardai… mi guardò.
–       Ciro… piacere… – le dissi.
–       Monica… – mi rispose.
–       Vuoi? – le chiesi porgendole il mio cocktail.
–       Sì, grazie! – mi sorrise.
Scambiamo due chiacchiere e mi disse che studiava Sociologia. Alche, inarcando un sopracciglio, le mostrai il mio volto interrogativo. Non ho mai saputo bene cosa studiasse un sociologo… quindi glielo domandai e lei gentilmente me lo spiegò. Anche se il luogo per certi discorsi era il meno adatto, fu una spiegazione impeccabile. Purtroppo però, colpa del troppo alcol di quella sera, continuerà a restare una facoltà misteriosa per me, fino a quando non incontrerò qualcun altro che studi sociologia…

Da sobrio!

Un pezzo di storia.. (la Punto)

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 28 dicembre 2010 ore 10:15

Dormivo. Dormivo in un sonno profondo, da cui niente sembrava poteva svegliarmi. Ero in una stanza, ma le pareti non avevano colore e la sua grandezza sembrava sconosciuta. Ero a Milano o a casa mia? Spesso mi succede di addormentarmi da una parte.. e svegliarmi convinto di essere da tutt’altra. È una sensazione che appena ti svegli ti disorienta e hai subito bisogno di cercare qualcosa di reale vicino a te. Ecco, nel mio dormiveglia ero in quello stato. Mi giravo intorno alla ricerca di quel punto di riferimento che mi rivelasse il posto in cui stavo dormendo. Ma niente… il mio sogno continuava in una camera spoglia con poca luce e io, seduto a gambe incrociate per terra, a chiedermi dov’ero.
Ma un suono tradì quell’immaginazione che si prendeva gioco di me.

Triiiin  Triiiiiinn  Triinnnn

Era il suono di un telefono di casa che veniva da lontano. Ecco la chiave: a Milano non ho il telefono fisso! Ero a casa.
Aprii gli occhi e vidi il soffitto bianco e le pareti verde acqua, il grande armadio a muro e il comò, ma soprattutto gli altri due letti dei miei fratelli.

Triiinnn Triinnnn

Eccomi Arrivo! Ti giuro che se è un’altra telepromozione io…
Scesi le scale in tutta fretta. Arrivai in cucina e presi il telefono.
– Pronto!-
– Ciro…-
– Si papà…-
– Vedi che tra una mezzoretta arriva il carroattrezzi per portarsi via la Punto… dai un occhio. Capito?-
– Si.. ok.. sono qua.-
Click

Afferrai un bicchiere d’aranciata e mi buttai sul divano. Dalla porta a vetri davanti a me si vedeva il giardino con la Punto parcheggiata nel mezzo.

Quella fu la mia prima macchina. Il primo mezzo che mi permise di scarrozzare un po’ più in là della Vespa. Finalmente potevo portare a spasso i miei amici e non pregare Enzo di riaccompagnarmi a casa… ma essere io ad accompagnarlo. Fu l’emblema della mia ribellione più di quanto lo fu la vespa.
Era la mia macchina..

Una sera di qualche giorno dopo aver preso la patente ero a cena con i miei. Capelli lunghi.. qualche borchia qua e là… vestiti strappati. Un Ciro ormai dimenticato ora.. ma vivo nei ricordi di quegli anni.
Papà guardava attentamente il telegiornale.. quasi fosse più importante sapere di un assassinio che alimentarsi. Mia mamma non aveva ancora finito di mettere le cose a tavola. Non riusciva a sedersi per due minuti.. ogni tanto si alzava per prendere qualcosa che chiedevano quei due scansafatiche dei miei fratelli.
Io rigiravo la forchetta nel piatto.. tagliavo la carne in pezzetti più piccoli cercando disperatamente il momento giusto per dire:
– Mamma.. stasera esco..-
– Ok.. con chi? Con Enzo?-
-… con la macchina..-
– Cheeeee? Ma ti sei ammattito? Non se ne parla proprio! Carmine diglielo anche tu!-
Mio padre distolse per un secondo lo sguardo dal telegiornale.
– È troppo presto.- fu la sua sentenza e il dibattito si riconcentrò su mia mamma..
– Dai mamma! So guidare bene!-
– Non conosci la strada!-
– Ma se l’ho fatta mille volte con la Vespa!-
– Si.. ma è notte!-
– La macchina ha i fari!-
– Non m’importa! È troppo presto! NO!-
Abbassai la testa.. e finii ciò che restava della mia cena..

Suonò il citofono.
Sarà il carroattrezzi..
Mi alzai per controllare e poi aprii il cancello. Un camion di media stazza fece capolino nel mio giardino, in retromarcia.
Uscii fuori mentre un signore brizzolato con un sigaro in bocca scendeva dal camion.
-Ho parlato con tuo padre.. devo prendere la punto..-
-Certo certo! Faccia pure..- gli dissi alzando la voce.
Il signore intanto, andò di fianco al camion dove c’era un pannello con parecchie leve. Ne tirò una e la parte posteriore del camion cominciò a inclinarsi per accogliere l’auto.
Una folata di vento mi colpì, gelandomi dalla testa ai piedi. Un dettaglio molto significativo era che mi trovavo ancora in ciabatte e pigiama. Il carrello finì d’inclinarsi, l’uomo lasciò andare la leva e ne tirò un’altra. Due lunghe passerelle parallele sbucarono dal fondo fino ad arrivare a terra. Tutto era pronto.  Ora l’uomo prese un gancio che sbucava da un verricello. Tirò il filo d’acciaio e lo fece arrivare fino alla macchina. Lo agganciò e la mia Punto, come un pesce che abbocca all’amo del pescatore, dovette abbandonarsi al suo destino.

All’epoca, invece, i destini mi piaceva sconvolgerli. Ciò che era detto.. imposto.. o scritto.. a me non piaceva. Mi urtava. Dovevo andar contro tutto ciò che mi si parava davanti. Ed era per questo che avevo abbassato la testa. Perché quella era l’ennesima cosa imposta ingiustamente. L’ennesimo blocco. L’ennesima guerra.
Dopo cena andai nella mia stanza. Mio padre dopo il telegiornale andò nel suo studio a controllare qualche conto che non quadrava. I miei fratelli scomparsi qua e là per la casa. Mamma entrava e usciva dalla cucina portando i piatti sporchi nel secondo cucinotto. Dopo poco smise e si adagiò sul divano. Ma qualcosa non le quadrava. Andò davanti alla porta a vetri della cucina. Spostò le tendine bianche e vide che qualcosa mancava nel giardino.
– Carmine!- urlò per farsi sentire nell’altra stanza
– Che c’è?-
– Hai messo la macchina in garage?-
– No!-
E in un attimo mia mamma capì che magari, in quel momento, non ero nella mia stanza a giocherellare con il pc.

Mentre il signore abbassò la leva che attivava il verricello, entrò nel giardino la Fiat Idea con a bordo mia mamma che scese, salutò il signore… e subito mi fulminò con lo sguardo.
– Entra subito dentro, che ti prendi un colpo di freddo! Muoviti!-
– Agli ordini mamma!-
Salii dentro.. chiusi la porta e mi girai. La vecchia Punto lentamente saliva sul camion. Dovevo dirle addio… Ho provato per lei tanto amore quanto odio. Ma quest’ultimo adesso non riesco a provarlo. Ora non può lasciarmi a piedi alle 3 di notte.. può solo sciogliere un po’ di malinconia conservata nei ricordi del passato. 

 

 

Nasci solo… e solo andrai… (Solitaryman)

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Vedere ciò che sarà di te in un film ti scombussola dentro. Ti apre in due e ti rivolta all’esterno, mostrando i tuoi punti vitali a chicchessia. Di solito nei film ho sempre visto il passato. Ho confrontato alcune scene di magnifici film con molte mie esperienze e loro spesso davano la soluzione ai miei casini. La soluzione a un qualcosa che era già passato. Quindi niente di utilizzabile, se non per generare qualche indelebile rimorso. Così sono fatti i film…
Sono storie a cui leghi il tuo passato… e il resto è solo pellicola e un gran baccano.
E questo che credevo… fino ad ora…

SolitaryMan

Un affascinante Michael Douglas all’alba dei suoi sessant’anni si gode la vita come se fosse un ventenne. Forse anche di più di un normale ventenne. A volte i ventenni si sanno fermare… bloccati dall’insicurezza… dalla paura… e dalle conseguenze. Codardi incoscienti, per fortuna. Se solo sapessero come giostrare bene e male a loro piacimento… questo mondo sarebbe già finito. Meglio lasciare la follia come vizio per i più vecchi, che hanno gli anni più contati dei nostri. E gli anni passano anche per Ben… le foglie cadono e gli inverni si susseguono. Il tempo non è eterno.
Noi non siamo eterni. Dobbiamo sottostare a queste assurde leggi del mondo.
Prima o poi… moriremo anche noi…
Me per primo…
Perché questo è il mio tormento.
Sapere che c’è una fine…
Sapere che non può durare qualsiasi cosa faccia.
Sapere che i miei anni sono contati e che il tempo scorre anche quando dormo.
Questo mi uccide…
A volte guardo il cielo, lo fisso per un istante, per imprimere l’immagine nei miei occhi. Poi li chiudo… assimilo tutto… fantastico… penso… mi convinco che niente può cambiare… che qualcosa può essere eterno.
Riapro gli occhi, Vedo che la posizione delle nuvole è cambiata e le mie speranze si distruggono.
E quando raccolgo i pezzi di un’illusione, mi sale la rabbia dentro. Cresce pian piano e vorrebbe fare a botte con il mondo.
È lì che sbaglio…
È lì che commetto il primo fatidico errore… che non fa altro che aprire il vaso di Pandora dell’autodistruzione…
E sbaglio… sbaglio… sbaglio…
Senza pensarci… senza valutare i pro e i contro… solo per il gusto di farlo. Solo perché la vita DEVE essere vissuta. E la mia vita la metto davanti a tutto… e a tutti…
Sempre! Gioco con le persone, creando illusioni diaboliche.
Ma il gioco continuerà per qualche anno. Poi cominceranno a cadere piano piano, una dopo l’altra, le persone a te care.
La tua ragazza… che si stancherà delle mille bugie. I tuoi amici… a cui hai detto troppi no infondati… ed infine la tua famiglia… che non sopporterà l’immagine maligna che hai costruito di te.
Perderai tutti…
Anche quelli più fidati. Quelli su cui conti. Quelli che dovrebbero tirarti fuori dalla merda quando ci sei dentro fino al collo.
Ferirai anche loro. In modo violento e inaspettato… quasi fossero estranei.
E sarai solo…
E finirai in una stanza… in una città lontana… a fissare il soffitto, sperando che ti crolli addosso. Morirai… Morirai dentro… lentamente… sempre di più. Affogherai nel tuo stesso respiro quando chiederai aiuto a persone che non ti ascoltano più… Lo sai già che è così…

Le mie palpebre erano immobili di fronte allo scorrere di quelle scene. E continuavo a ripetere “non farlo”, quando Ben si trovava di fronte a una “scelta”. Speravo che non scegliesse la strada più ovvia, ma sapevo già che non mi avrebbe ascoltato.
É più facile commettere un errore che comportarsi decentemente. E in questo mondo di “facilità” gli errori ci sguazzano come pesci in un acquario.
E non a caso il film si chiude con una scelta irrisolta, spaccando in quel momento con un’accetta la mia testa…
Potrei ricaderci? Di nuovo? Non lo so… ma so che una lezione questo film me l’ha insegnata…
Comunque vadano le cose…
Sbaglierò… e sarò sempre da solo…

– Lui è intelligente…
È dolce… divertente…
Un milione di altre cose che tu non sei… –
– Una volta lo ero anche io… ma non dura… –


Senza andata ne ritorno… (Malpensa, Terminal 2)

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– Pronto mamma… –
– Ciao amore… tutto bene? Sei partito?-
– No, sono ancora in aeroporto. Ci sono dei casini… mi sa che farò tardi. –
– Va bene ti aspetto a casa… –
– Mamma, farò davvero tardi. Per ora si parla di partire verso l’una… –
– Così tardi? –
– Sì, non mi aspettare… vai a dormire. Mi faccio sentire io. –
Click

Guardai l’orologio. Erano le sette e fuori era buio già da un pezzo. Il freddo non aveva risparmiato nessuno. La neve, caduta in mattinata, era ancora lì, sulle macchine parcheggiate nel parcheggio dell’aeroporto. Probabilmente la stessa neve era anche sugli aerei e non partivano per quello. Guardai di nuovo lo schermo delle partenze. Scorrevo la lista cercando il volo per Napoli. Il mio volo.
Se non ci fossero stati ritardi, sarei stato già sotto il metal detector a far squillare qualcosa. Oppure ancora in fila, a imprecare contro la solita signora che s’era portata con sé di tutto, anche ciò che non poteva e non voleva lasciare niente in aeroporto. Mi capita ogni volta che devo prendere un aereo. Guardai lo schermo.
Eccolo lì il mio volo. Continuava ad accumulare ritardo. Come se l’orario fosse diventato un cronometro invece di un timer, che più passava il tempo che aspettavo e più aumentava quello che dovevo aspettare. La cosa strana era che non ero per nulla infastidito. Mi stavo ambientando in quell’aeroporto.

Mi misi alla ricerca di un posto per sedermi e per fare ciò che mi piace di più: osservare.
Camminavo per il lungo corridoio. Alla mia sinistra scorrevano i banchi di check-in vuoti e dall’altra parte invece, lunghe file di panchine piene zeppe di persone. Di posti vuoti manco a parlarne. Mi sembrava di non essere il solo ad aver avuto problemi con il volo quella sera. Chi aspettava lì non si era ancora imbarcato… e se non si era ancora imbarcato qualche motivo doveva pur esserci. C’era gente di tutti i tipi. Dagli extracomunitari ai ricchi uomini d’affari; ragazzini ancora vergini di voli e ultra settantenni che avevano visto nascere e fallire intere compagnie aeree. Questo variegato impasto di persone mi ricordava quasi una piccola città. Mi sentivo come nella piazzetta di un piccolo paesino. Dove persone andavano e venivano… e magari qualcuna si fermava.
Accanto a una ragazza pressappoco sedicenne c’era un posto vuoto. Sopra il sedile era appoggiata una copia del sole24ore. Presupponevo che quel posto fosse occupato da qualcuno andato chissà dove. Una ragazza non avrebbe mai potuto aver comprato un giornale del genere. Provai lo stesso a chiedere. Perché se il giornale fosse stato suo, la cosa mi avrebbe incuriosito parecchio.
– Scusa è libero? –
– No, mi spiace… – disse la bocca della ragazza in coincidenza con l’espressione del volto. Stranamente sembrava dispiaciuta davvero. Forse ero l’ennesimo ragazzo che le faceva la stessa domanda.
Chissà chi era seduto lì?
Suo padre?
Il suo fidanzato?
Certamente qualcuno più grande di lei.

Continuai per la mia strada.
Una donna mora quasi mi urtò, camminando in modo spedito e nervoso. Appena mi passò avanti disse, con un tono minaccioso: “che compagnia di merda!” e si guardò a destra e sinistra quasi a cercare appoggio.
Anche io dovrei essere incazzato come lei, pensai.
Il ritardo del mio volo era ancora incalcolabile. Guardai uno dei monitor e vidi che uno dei voli era stato cancellato.
Ecco il motivo di tanta incazzatura.
La donna di prima, doveva essere una dei passeggeri di quel volo.
Spero solo di non fare la stessa fine
Ormai stavo perdendo le speranze di trovare un posto, quand’è che vidi un’altra area dietro i check-in principali. Lì qualche posto era ancora vuoto.
Mi sedetti.
Cacciai il mio solito libro dalla borsa, inforcai gli occhiali e cominciai a leggere. Affianco a me, sulla stessa panchina erano sedute due ragazze. Parlottavano fastidiosamente tra solo. Ogni tanto di sottecchi le guardavo. Una aveva i piedi appoggiati scompostamente sul trolley davanti a lei e l’altra aveva qualcosa che non andava. Fatto sta che non riuscivo a leggere tranquillamente. A ogni capitolo chiudevo il libro infastidito dalle loro risatine, commenti e ciarlanerie. Incominciai ad ascoltare i loro discorsi mentre guardavo distrattamente lo schermo lontano davanti a me. Parlavano di amici lontani, di università e di storie d’amore mancate. Una si chiamava Martina e l’altra non so, ma continuava a incuriosirmi. Un colpo di tosse mi diede la conferma. Questa qui… non sta bene.
Tornai a me. Il mio stomaco brontolava. Avevo fame e tutti i miei propositi di mangiare a casa con la mia famiglia erano svaniti. Dovevo cenare qui. Così mi alzai e mi diressi verso la piccola pizzeria del terminal che avevo notato prima, durante la mia “passeggiata”.
Camminando incrociai un ragazzo e una ragazza.
Guardai le scarpe di lei e le scarpe di lui. Le scarpe a volte dicono molte cose. Credo di poter descrivere il carattere di una persona solo dalle scarpe… e quando in un uomo, le scarpe s’intonano con il colore del foulard intorno al collo può voler dire solo una cosa:
Sicuramente quei due non sono fidanzati, perché lui è…
– Guarda questo ciuffo… continua ad andare a destra e sinistra! Mi sto irritando! – disse lui a lei.
Sorrisi.
Ecco la pizzeria. Si sentiva un odore misto di dolce e salato. Roba che all’olfatto sembrava piacevole ma al gusto sarebbe stato un abominio. Ordinai un pezzo di pizza e mi guardai intorno alla ricerca di un tavolino. Intravidi tra i tanti la ragazzetta di prima che mi aveva negato il posto. Mi guardò anche lei per un attimo. Mi fissò un po’ troppo per non avermi riconosciuto. Distolsi lo sguardo da lei e osservai lui, il ragazzo che cenava con lei. Aveva i suoi stessi occhi..
È suo fratello maggiore…
Sorrisi sotto i baffi e mi sedetti al mio tavolo. Mentre tagliavo la pizza, intravidi una signora di mezza età che girava con un carrello pieno di valigie. Ma più che valigie mi sembravano un ammasso di “perché”. Non so per quale strana ragione fisica il mio istinto si comporti così. Quando osservo una persona che desta la mia attenzione, il mio cervello comincia a farsi diecimila domande su ogni suo piccolo dettaglio. Cominciando dalle suole delle scarpe fino a qualche ciuffo di capelli fuori posto; e come un algoritmo ben progettato inizia a darmi automaticamente delle risposte. Quando però, qualcuna di queste domande resta incompleta, lì la mia curiosità schizza alle stelle.
Cos’ha che non va quella signora? Sembra un’anziana passeggera come tante…
Sotto sotto, c’era qualcosa.
Decisi però di lasciare in pace con lo sguardo la povera signora e mi concentrai sulla mia mediocre pizza margherita.
Appena finito mi alzai e mi ricomposi.

E ora un bel caffè…
Mentre camminavo verso il bar un bambino correndo mi urtò una gamba. La madre che lo seguiva subito dietro gli urlò qualcosa in non so quale lingua. Il bambino si girò un attimo e poi riprese a correre via.
Quel bambino mi darà dei problemi… pronosticai.
Detesto i bambini monelli. Certo, esistono cose che detesto di più. Ma quelli se si mettono d’impegno riescono a superare anche una folla di studenti rumorosi al corso di Matematica 2… o un passante indeciso se attraversare o meno la strada mentre sto guidando.
Arrivai al bar.
Un ragazzo di bel aspetto mi chiese cosa volessi.
– Un Caffè… grazie –
– 95 cent –
Gli diedi un euro e lui cercò in cassa un resto che non c’era. Prese uno di quei bussolotti di monete che si usano spesso nei supermercati. Lo spezzò a metà e saltò via una moneta da 5 cent che arrivò diritta nelle mie mani. Il barista con un sorriso mi disse: – Se volevo farlo a posta non ci riuscivo… –
Andai al bancone e aspettai il mio caffè. Casualmente affianco a me si posizionarono  le due ragazze di prima.
Martina e l’altra.
Martina prese un caffè e l’altra:
– Un tè grazie. Molto caldo… non mi sento bene. –
Il cameriere la guardò incuriosito, forse più di me.
– Che cos’hai? –
– Ho un po’ di febbre… –
– Anche tu! Se vuoi, di la ho la Tachipirina. Anche io oggi sto male… –
Risero tutti e tre.
Beati loro che ne ridono di certe malattie..
Volsi lo sguardo verso i monitor. Niente… qui si mette sempre peggio. Al mio aereo non andava di volare.
A un tratto si avvicinò la strana signora di prima. Il suo giubbottino viola stonava con tutto il suo abbigliamento. Si appoggiò con i gomiti sul bancone e cercò di avere l’attenzione del barista, non riuscendoci.
Sbirciai un attimo il suo carrello di valigie. Sembrava tutto normale ma mi chiesi: “Perchè non le ha ancora imbarcate tutte queste valigie, invece di farle vagabondare per tutto il terminal?” E mi sa che la parola giusta l’avevo appena pensata: vagabondare.
Quando la signora capì che il barista la stava ignorando, si rivolse a me.
– Scu-scusa… ma bi-bisogna fa-fare lo scontrino pri-prima? –
– Si certo… lì, guardi. – le risposi senza chiederle come abbia fatto a pronunciare la parola più difficile della frase senza balbettare.
La signora se ne andò appena dopo la mia risposta e non mi curai più di lei.
Dopo aver finito il mio caffè e aver salutato il gentile ragazzo, andai verso una panchina libera, poco distante. A quell’ora l’aeroporto si stava spopolando. A mano a mano le persone s’imbarcavano e partivano per le proprie destinazioni. Mi sedetti e aprii il mio libro.
Un paio di capitoli dopo arrivò, sempre correndo, il bambino pestifero di prima. Staccai gli occhi per guardarlo e all’improvviso si bloccò. Il suo viso si fece serio. Si chinò e un improvviso conato di vomito colpì il pavimento. Il bambino si guardò intorno con una faccia di chi ha capito di aver fatto qualcosa di sbagliato. Continuai a fissarlo esterrefatto e schifato. Raccolsi subito le mie cose e me ne andai via da quella zona.

Con una faccia disgustata e un passo nervoso mi allontanai. Vidi un piccolo schermo affisso al muro sulla mia destra. Cercai il mio volo. Un’altra mezz’ora di ritardo si era aggiunta all’estenuante attesa. Sospirai. Guardai l’orologio e calcolai la mia villeggiatura al terminal 2 di Milano Malpensa: 4 ore.
Dovrà partire prima o poi!
Appoggiai la mia valigetta sul sedile di un posto in una zona di passaggio del terminal. Sperai, per il mio stomaco, di cancellare al più presto la scena di poco prima. Di leggere non mi andava più, anche perché, il rumore della pulitrice elettrica guidata dall’inserviente poco più in là, era molto fastidioso. Presi le cuffie e misi su un po’ di musica.
Mi passò davanti la famosa signora di prima col suo ingombrante carrello di valigie. Cercai di convincermi che fosse un’insolita passeggera distratta e un po’ ritardata ma non ci riuscii. Per convincere il mio istinto ci voleva ben più di una conferma. La guardai sfilare via. Avanzava ondeggiando come se il carrello dinanzi a lei fosse un carrello della spesa. Si fermò e chiese qualcosa all’inserviente che stava passando con la sua fastidiosissima pulitrice, proprio in quel punto. Per gioia delle mie orecchie e di non so chi altro che prima aveva esclamato “chist c’ha rutt u cazz”, l’inserviente fermò il suo rumoroso attrezzo e si mise a parlottare con la strana signora.
Da lì non riuscivo a sentire cosa si stessero dicendo e continuai a chiedermi il perché non avesse ancora imbarcato i bagagli. Intuii qualche parola.
Parlavano di orari, di persone, di bar che chiudevano e di lui che doveva pulire nonostante ci fossero ancora tante persone in aeroporto.
– Di solito a quest’ora non c’è più nessuno… – le disse.
La signora gli fece un’altra domanda, ovviamente balbettando.
– No, no, al terminal 1 non chiudono, lì restano aperti tutta la notte, perché arrivano i voli intercontinentali… –
L’inserviente rimise in moto il suo stressante trabiccolo mentre la signora sembrava cercasse altre domande da fare per non interrompere quella conversazione…
Voleva chiaramente perder tempo. Lo stesso tempo che io stavo faticosamente aspettando. Sembrava irrispettoso da parte sua, soprattutto quando il malcontento per il ritardo stava aumentando.

Poco lontano da me c’era il tipico luogo comune napoletano. La solita famigliola numerosa e piena di difetti. La madre, ovviamente in sovrappeso come due dei tre figli e il marito, tipico operaio emigrato al nord in cerca di lavoro. Ogni volta che osservavo certe persone, era come se vedessi un pezzo della mia tanto odiata città. Piena di difetti e obesa anche lei… non di lipidi ma di problemi e persone.

Quella famigliola, però, di problemi sembrava non averne. La loro simpatia e spensieratezza, anche nel disagio, copriva ogni cosa. È questo che rende speciali i napoletani. Ridono anche quando soffrono… e il tipico detto “addà passà a nuttat” valeva non solo per quella notte ma per la vita in generale.

Ormai la mezzanotte era passata da un pezzo e il mio cellulare segnava già gli impegni per il giorno dopo.
Iniziai ad annoiarmi e non mi andava di leggere ne di ascoltare la musica. Volevo partire.

Una giovane coppia, poco distante, sembrava combattere la noia meglio di me. Erano visibilmente brilli e accesi in volto. Con un bicchiere a testa, ancora mezzo pieno di una bionda, parlottavano tra loro in qualche lingua nordica. Sorridevano ad ogni frase, forse incoscienti che quello fosse il posto meno adatto per ubriacarsi. Lui guardò lo schermo cercando di leggere gli avvisi degli aerei scritti in italiano.
– Ann… Anulato… –
– Annullato! – lo corresse la compagna.
Risero. Forse non conoscendo il significato di quella parola.
Li guardai invidioso.
Invidioso di tanta felicità e spensieratezza. Invidioso di tanta complicità di coppia. Invidioso degli sguardi e del loro amore che mostravano aiutandosi l’un l’altro. Anche io avrei voluto essere così. Solo che di bionde ne avrei dovuto bere almeno il doppio per scalfire il mio fegato veterano e scollegare i fili della mente.
Non si risolve tutto con l’alcol… disse la mia coscienza imitando qualche amico.
Le persone riescono ad essere felici anche normalmente. Basta una buona compagnia e qualche frase giusta mescolata ad una giusta scenografia.
Non serve rovinarsi… non ser…

I miei pensieri s’interruppero…

La porta scorrevole d’ingresso si aprì producendo uno strano cigolio e una ventata d’aria fresca che colpì tutti i presenti. Ad aprirla era stato il carrello pieno zeppo di valigie della signora con il giubbottino viola.

Se ne sta andando!
Avevo ragione. Non doveva partire! 
Quella signora era una vagabonda abilmente “travestita” da passeggera.
Tutto quadrava: le valigie, il barista, gli orari di chiusura. Non era affatto una passeggera e il mio istinto, ancora una volta, aveva ragione…

La sua figura ormai non si vedeva più. Era andata via… chissà per quale altro posto affollato, chissà per quale altro luogo cittadino ancora aperto… chissà dove avrebbe passato la notte… lei… il suo carrello… e il suo invisibile alone di malinconia.

E fu lì che decisi di tirar fuori il mio portatile e di scrivere 
tutta questa storia. Fu un ottimo passatempo fino all'imbarco sul mio volo... che alla fine partì. Un po' tardi, ma arrivai a casa sano e salvo chiudendo quella nottata movimentata al terminal 2 di Milano Malpensa.


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