Il cappello di Gaetano.. (Ricordi di Rimini 2008)

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Pensieroso e distante dalla realtà continuavo a fissare quella piscina. Il suo ricordo non accettava ad andarsene e non facevo niente per indicargli la porta d’uscita.

E in questi casi, esiste solo una tipologia di persone che possono aiutarti.

Una mano mi toccò leggermente la spalla invitandomi a voltarmi.

Era Mario insieme ad Enzo.

-Ecco dov’eri! Ti abbiamo cercato dappertutto!-

-Anche io cercavo voi! Dove siete finiti?-

-Eravamo in giro..-

-Si.. c’abbiamo provato con un paio di ragazze.. ma qui non ce la danno nemmeno se le paghiamo!-

-…e il barista ha finito il rum!-

-Allora andiamocene subito!-

 

E così alle 5 del mattino mi ritrovai a dormire in una Stilo blu. Sdraiato per il lungo sul sediolino posteriore. Enzo e Mario erano davanti e avevano inclinato leggermente gli schienali per dormire anche loro. La cosa buffa è che eravamo parcheggiati proprio davanti al nostro ostello. Avevamo risparmiato una sera dormendo in macchina. La macchina di Mario. Un po’ malconci e un po’ alticci, avevamo tutta la mattinata per riprendere le forze prima di entrare nell’ostello.

Il sole intanto continuava a salire e dal finestrino mi arrivava un raggio che mi colpiva sul volto. Misi la mano dietro, nel portabagagli, alla ricerca di qualcosa per coprirmi il viso. Trovai un cappello nero stile cow-boy. “proprio quello che ci vuole” pensai e me lo misi in testa abbassando la visiera fin sul naso.

-Mario..- dissi da sotto il cappello.

-Che c’è…-

-Di chi hai detto che era il cappello?..-

-Di Gaetano.. l’ha dimenticato quando abbiamo fatto il concerto.-

Piccola pausa di silenzio..

-Comunque digli a Gaetano che il cappello ora è diventato mio.-

Un passato non meno lontano…

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E mi risveglio ancora una volta da uno strano sogno. Un sogno inconfondibile. Con quel profumo familiare di passato. Il mio passato. Storie ormai andate che riaffiorano alla mente nel momento più fragile. Nei sogni. Pensavo ormai di aver tagliato un po’ di pellicola dal mio film. Di aver censurato ai miei occhi alcune scene indimenticabili. Alcuni ricordi ormai andati. Ma Mariella era ancora lì… e mi teneva la mano come il primo giorno. Come quella volta che aveva freddo su quella panchina. Ed io la strinsi scaldando non solo lei ma anche il suo cuore. Quella volta fu speciale. Anche se, tra noi, non c’era ancora niente. Perché per me il destino aveva la sua puntualità da rispettare. E lottavo. Lottavo con il mio cuore per non cadere ancora. Perché un’altra storia voleva dire per me ancora guai. Guai con gli altri ma soprattutto con me stesso. Perché ne ero uscito un po’ scoraggiato l’ultima volta. E il rumore del mio cuore che cadeva nel vuoto, ronzava ancora nella mia testa. In questi anni, ogni storia mi ha portato via qualcosa, e ogni volta mi ripetevo “non fai più male”. Ma quel male restava impresso in me come un marchio a fuoco sulla pelle. Incancellabile come un destino già scritto. Non volevo caderci ancora. Maledetto amore.
 
 
 
…Incominciando dalla fine…
 
 
 
Scorrevano tra le mie mani le dolci note di piccola stella senza cielo, condite da qualche nota in più o qualche tasto sbagliato. Era da un po’ che non prendevo in mano quella vecchia chitarra. Ormai mutilata a vita di due corde che Enzo non si sognava di cambiare. E a me poco importava, perché le poche corde che restavano bastavano a suonare la mia canzone. Enzo era in bagno e io m’intrattenevo così nella sua cameretta. Ogni cosa era nel suo disordinato posto. Esattamente come qualche anno fa. Quando presi quella chitarra in mano per la prima volta e suonai quelle note stonate che vagamente ricordavano una canzone. Le cose erano un po’ cambiate da allora. Avevamo le macchine al posto dei motorini. La sera facevamo tardi e nessuno ci rompeva le scatole al telefono. I bar diventarono pub e i luoghi isolati dove ci ritrovavamo diventarono piazzette. Ma la canzone che suonavo era rimasta la stessa. Le stesse dolci note che infastidivano Enzo quando lo svegliavo la mattina. Quanti ricordi erano impressi dentro quelle quattro note.
La serata doveva ancora iniziare. E di ricordi da scoprire ce n’erano tanti altri.
Enzo uscì dal bagno con i denti lavati e una faccia soddisfatta.
– Che facciamo… andiamo? –
– Ok… Ho la macchina parcheggiata al solito posto. Vicino alla chiesa. Sai com’è… non voglio beccare un’altra multa per aver parcheggiato davanti al tuo portone… perché “qualcuno” non si decideva a scendere! –
Scendemmo. Piovigginava leggermente. Il tempo adatto al morale che avevo. Un po’ giù di corda per quel sogno che avevo fatto ieri notte. E quel sogno, coincidenza delle coincidenze, coincideva con questa serata. Andammo da Mario. C’era il compleanno di una delle sorelle più piccole e gentilmente la madre aveva invitato anche noi. Gli amici che ormai erano diventati coinquilini di quell’appartamento. Ci aprì Mario. Gianni era appena arrivato e ci aspettava dietro di lui nell’ingresso. Un rapido saluto alla festeggiata e ci fiondammo al buffet.
Patatine e pizza a volontà. Il paradiso dei golosi era sopra un tavolo. Ma non appena misi la mano per afferrare uno di quei stuzzichini. Scorsi dietro un angolo lei. Stava parlando con un’amica mentre io la fissavo. A un certo punto l’amica mi indicò facendola voltare. Gioco di sguardi e di silenzi. Di frasi dette e stradette in un istante mentre il tempo si fermava perdendosi in quegli occhi. Stupendi. Un taglio intrigante e profondo come pochi. Nascosto dalla purezza dell’età appena sbocciata. Mariella continuava a fissarmi. Abbassai per primo lo sguardo come per nascondermi da qualcosa e continuai a servirmi da mangiare. Avevo perso la prima battaglia, ma lei non sapeva nemmeno di star giocando. Magari se ne fregava di me, chi poteva saperlo. Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevamo litigato. Sempre e solo attraverso quel maledetto messenger. Dove un tasto o una parola non riusciva mai a far comprendere l’intonazione che portava con se. E nascevano incomprensioni, malintesi, litigi per un nonnulla, spesso ricadendo nella realtà. Dove magari con una parola si risolveva tutto… con una frase detta nel modo giusto… o anche solo con uno sguardo come questo… tra due persone che avevano condiviso una storia. Una bella storia. Anche se breve.
Non ci vedevamo da un po’. Ma soprattutto non ci sentivamo. Non ricordo nemmeno perché avevamo litigato l’ultima volta. Sicuramente me ne sarò uscito con il mio solito orgoglio maschilista e avevo chiuso la conversazione in modo sbagliato. O forse volevo proprio così. Perché magari chiudere con il passato era la cosa migliore da fare. Ormai c’eravamo lasciati da un pezzo ed ognuno si era creato una nuova vita. E a me naturalmente dava fastidio la sua. Perché magari, in fondo in fondo, un pezzo di cuore era ancora in mano sua. E lo stava calpestando allegramente. O Forse no. Magari lo conservava da qualche parte, ben protetto dai pensieri indiscreti… ma raggiungibile con un semplice sguardo, dalla persona giusta ovviamente.
– Com’è la pizza Ciro? –
– Buona Mario. Son certe invitate che mi stanno andando di traverso. –
– Ho visto… Bè.. io te l’avevo detto che probabilmente sarebbe venuta. –
– Già… –
In un certo senso il gusto di rivederla mi attirava. Ma dovetti lottare con me stesso per convincermi ad essere lì quella sera. Forse un po’ speravo che non sarebbe venuta. Così da passare una serata tranquilla senza troppi pensieri. Ma lei era lì. Ed era a pochi metri da me. Mi rifugiai nella cucina che era adibita a sala bevande. La festa aveva preso una strana piega. Si erano formate due fazioni. Una con i miei amici in cui l’età media era 20 anni e l’altra comprendeva il gruppo di sedicenni tra cui c’era anche l’invitata. Io e lei eravamo separati da questa situazione. Un po’ come Romeo e Giulietta e le loro famiglie veronesi. Divisi da un qualcosa d’immaginario. Venivo trascinato dai ragazzi a destra e sinistra a raccontare un po’ di storie milanesi. Mentre lei, dall’altra parte del salotto, sembrava non annoiarsi e soprattutto non essere turbata dalla mia presenza. Parlava tranquillamente con le sue amiche. Come l’avevo sempre vista, allegra e spensierata. Con il sorriso sempre stampato sulle labbra e la solita gioia di vivere che la caratterizzava. Era quello che mi piaceva in lei. Che mi permise di amarla. Che fece stare bene il mio cuore un po’ malandato. Un po’ parcheggiato in una via isolata mentre la vita scorreva a 300 all’ora a fianco a me. Mi sentivo bene lì. Seduto in dispare, mentre la mente viaggiava su strade perdute. Perché credevo che non sarebbe mai risuccesso. Che non sarebbe mai riapparso quel dolore piacevole del battito profondo del cuore. Ma lei passava da quelle parti. Tra quel gruppo di amici troppo orgogliosi per azzardare in nuove conoscenze. Entrò di botto nella mia vita. Come un tuono che rompeva il silenzioso scroscio della pioggia…
– Ciao Ciro! – Era Giovanna che s’era affiancata a me vicino al buffet. Era una delle migliori amiche di Mariella. Certamente anche lei voleva sapere come stavo, dato che da tempo non ci vedevamo.
– Ciao… – Rimasi quasi indifferente a quel saluto continuando a scegliere il pezzo di pizza migliore.
– Come stai? –
– Bene. – risposi.
– Hai visto chi c’è?-
– No. Chi c’è? –
– Mariella! Dai non continuare a evitarla. –
– Io non la evito! È lei che evita me. –
– Si… certo… –
E mentre me ne stavo andando, si avvicinò Mariella. Quasi come per chiedere a Giovanna cosa le avessi detto. Era curiosa, lo era sempre stato. Moriva a volte, quando in passato non le dicevo qualcosa. Nel gruppo era sempre stata quella che sapeva tutto di tutti. E spesso anche odiata per questo. Le persone si confidavano con lei perché aveva la particolarità di non assorbire i problemi degli altri, ma lasciarli scorrere. Magari con qualche frase di conforto o qualche abbraccio su una panchina un po’ troppo isolata. Purtroppo a volte si ritrovava a sapere cose che non avrebbe dovuto sapere. E scoppiavano battibecchi, da cui lei ne usciva sempre indenne.
La vedevo parlare con Giovanna. Cercavo di capire cosa si stessero dicendo. In fondo anche io sono sempre stato curioso. Ma la mia curiosità non fu soddisfatta.
– Ciro! Ma quand’è che torni a Milano? – mi chiese uno dei miei amici.
– La settimana prossima… –
– Ah… allora c’è ancora tempo per prendersi una bella birra da Dante! –
– Certo! Ma solo se offri tu! –
Mi voltai. Non c’era più. Era tornata a sedersi a fianco alle sue amiche. Come se nulla fosse successo. Come se nulla fosse accaduto. Anche tra di noi. E questa cosa mi faceva impazzire. O meglio incazzare. Non ero nessuno io? Tutti i ricordi passati insieme dove erano finiti? Non chiedevo tanto, ma almeno un pizzico d’interessamento.
Voleva la guerra.
Allora andai diretto nel territorio nemico. Tra persone che non conoscevo. Presi una sedia e mi sedetti a fianco a Giovanna. Poco più in la c’era Mariella che parlava con un’altra amica. Mi notò.
– Ciro allora che mi racconti? – chiese Gio.
– Niente di che. –
– A Milano come va la vita? –
– Procede bene… –
Parlavo con lei ma ogni tanto osservavo le mosse di quella ragazza dai capelli nero corvino. Ogni tanto mi osservava anche lei, mentre ero distratto da altre cose. Forse non si trovava a suo agio. Lo intuivo da come parlava con gli altri, da come voltava lo sguardo, da come gesticolava con il cellulare. Era nervosa. Impaziente. Quasi frenetica, anzi no, questo, lo era sempre stata.
Intuii. Se ne stava andando. La festa non era di suo gradimento. O forse le persone. O forse io. Si alzò. Prese il giubbotto, salutò la festeggiata, scambiò qualche altra parola con le amiche e chiuse la porta alle sue spalle. Così in un attimo scomparse dai miei occhi lasciando nel mio cuore un pizzico d’amore bruciato.
 
 
 

Sono pronto per metà… e per metà starò a sentire…

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…E mi trovavo su quel treno a cercare un posto tranquillo tra le file dei passeggeri. Mi sedetti accanto a una signora. Mi guardò in modo altezzoso mentre spostava la borsa dall’altro lato. La signora di fronte iniziò a parlare con lei ed io, non curante minimamente di loro, cacciai il mio DS dalla borsa e iniziai a giocare. Dopotutto in qualche modo dovevo pur passare il tempo. Non avevo un finestrino a portata di sguardo e quindi era impossibile fantasticare sul paesaggio. Chi mi conosce lo sa… Quando prendo un mezzo di trasporto qualsiasi, macchina, treno, aereo, preferisco sempre prendere il posto vicino al finestrino. Mi piace osservare il mondo. Mi piace essere partecipe con lo sguardo di un pezzo di passaggio. E con gli occhi scattare piccole fotografie. Fotogrammi di posti sconosciuti che compongono un puzzle di ricordi. E guardando quel paesaggio ormai conosciuto, avevo imparato che dopo certe case, certe vie, eravamo quasi a metà strada. Sapevo già che dopo quella masseria c’era quella casa rossa… e che dopo quella casa rossa ci sarà quello strano albero che noto sempre. Fino ad arrivare alla meta… che segna la fine del mio album fotografico immaginario.
“Dannazione! Ho sbagliato di nuovo!” il mio Brain training mi stava dando del filo da torcere. Di solito svolgevo gli esercizi con facilità uno dopo l’altro ma questa volta, c’era qualcosa che mi distraeva…

Ero nella vettura di testa. Praticamente guidavo il treno. Il capotreno sembra aver lasciato apposta la porta aperta per farmi entrare. Si vedeva tutto. Si vedeva ciò che vede uno che guida un treno. Non avevo mai provato una simile sensazione. Perché è strano… Noi siamo abituati a vedere l’andatura del treno attraverso i finestrini e la prospettiva è diversa. Il paesaggio scorre con te. Invece quando sei in testa, sei tu ad andare in contro all’orizzonte. Le case, gli alberi, i ponti, si avvicinano pian piano… ti vengono in contro e poi spariscono, senza che tu possa rivederli. Davanti a te hai solo due binari che sembrano non finire mai. Vedevo il capotreno intento ad accelerare e rallentare a seconda delle occasioni. Tipo quando un treno viaggiava sull’altro binario… quando si arrivava a uno scambio… quando si passava per una stazione…  e lì lo sentivo anche suonare quell’odiato clacson ai passeggeri distratti che avevano oltrepassato la famosa “linea gialla”. Chi lo sa come ci si sente a fare questa vita dalla mattina alla sera. Esser costretto da due binari e non poter andare dove vuoi. Dover fermarsi quando si deve… e correre quando si è in ritardo. Dover restare calmo quando dei passeggeri inferociti per questo o quello ti assaltano. Magari bisogna prendere la vita un po’ meno sul serio… magari tutti avremo bisogno di un finestrino da cui guardare il nostro paesaggio…

Arrivai a Lodi.
Mi fermai davanti alla stazione. Guardai il cielo. “Sembra non promettere bene” pensai. “Speriamo che qualcuno mi abbia riportato il mio ombrello”. La chiamai. Era ancora a scuola. Tra poco sarebbe uscita e ci saremmo incontrati. M’incamminai nella direzione da cui sarebbe arrivata. Attraversai il sottopassaggio della stazione e il piccolo parchetto. La vidi…
Mi venne incontro e ci salutammo con il solito bacio. Era felice. Non solo perché io fossi lì con lei… ma anche per qualche altra cosa.
– Ho passato l’interrogazione! –
– Brava! –
– Solo brava?! Era importante! – mi disse con lo sguardo imbronciato.
– Bravissima! – le risposi ironicamente.
– Uffa… sei sempre il solito! Mai che mi facessi un complimento! Andiamo va! –

Ci stavamo dirigendo verso la piazza di Lodi. Quella che sovrastava il nostro parchetto. Mano nella mano, da lontano guardavamo la città. Una città diventata un po’ nostra. Un luogo d’incontro a metà strada tra nostre case. Un posto in cui abbiamo vissuto un bel po’ di storie. Tra taxi “costosi” e treni che arrivavano e partivano dal binario tre. Parchetti verdeggianti e panchine speciali.  Il luogo del nostro primo “ti amo”… ma questa… è tutta un’altra storia…

Giungemmo alla piazza per assistere ad un concerto di gruppi emergenti. Ragazzi e ragazze si stavano radunando nei pressi del palco. E noi, come persone casuali in una moltitudine, c’infiltravamo tra la gente.
Un gruppo aveva appena finito il suo giro di canzoni e il giovane presentatore annunciò il prossimo.
– Ecco a voi ragazzi… i “Libera uscita” –
Li osservai. Sul palco erano saliti quei cinque ragazzi dall’aria non troppo adolescenziale. Si disposero ai loro posti e iniziarono un rapido soundcheck. Erano una coverband di Ligabue e avevano preso in prestito il loro nome da una delle canzoni più belle. Una canzone che molti non conoscono. Una delle prime. Il loro nome mi scatenò un sorriso. Pensai a tutte quelle volte che l’avevo cantata. Pensai a quando scappavo da scuola… a quando correvo con la mia vespa contro vento… a quando  mi concedevo la mia “libera uscita”. Avevo i capelli lunghi allora… e il sangue mi ribolliva nelle vene.  Molti pensieri nemmeno esistevano e i ricordi tristi si contavano sulle dita. Ne sapevo ben poco della vita… Sapevo solo: “che di strada davanti a me… ce n’era ancora molta…”

Flashback:
Un pomeriggio dai capelli lunghi

“…e non ci prendono sul serio…
d’altronde non l’han fatto mai…
siam sempre stati il pesce d’aprile…
anche quando l’aspetti anche quando lo sai…
E non ci prendono comodamente…
nè con il loro dài e dài…
nè con il loro: “chi tace acconsente”…
noi non abbiamo taciuto mai..
e non ci beccano più…
e non ci provano più…
non se lo chiedono più…
cosa facciamo qui? nelle scarpe da corsa…
libera uscita…
in libero mondo…
libera scelta di dirlo io…
com’è che mi spendo…
com’è?… com’è?”

Mi  dondolavo sulla mia comoda poltroncina nera. Lo stereo era a palla e il cantante sempre lo stesso. Passai una mano tra i capelli guardando lo schermo del pc. C’era un messaggio: “tra poco siamo lì”.
Erano i miei amici che mi avvertivano che sarebbero passati a prendermi per combinare chissà cosa. Alzai ancora di più lo stereo e cantai a squarciagola fino a quando mia mamma non entrò in camera e abbassò di botto la manopola al minimo.
– Ciro! Ti sembra il modo?? –
– Mamma tra un po’ mi vengono a prendere Enzo e Mario ed usciamo. –
– Sei sempre in giro! Quando ti vedrò un po’ studiare?? –
E chiuse la porta dietro di se. Lo stereo riprese vita. Cercavo sulla scrivania la molletta nera che usavo per legare i capelli. Spostai la pallina rossa dal portamonete e l’appoggiai vicino alla tastiera. Lei rotolò lungo la scrivania per poi cadere per terra come una bambina dispettosa che voleva giocare. – Non ora! Non è il momento di fare dispetti! – La raccolsi e la rimisi al suo posto. La guardai per un attimo e sorrisi. La stavo trascurando un po’. Mi aveva accompagnato per un pezzo di vita ed ora era in un porta monete a prendere la polvere.  La ripresi e la feci volteggiare un po’ in aria per poi riprenderla velocemente.

Peeee Peeee Peee

Quello strano clacson inconfondibile mi faceva capire che gli amici erano arrivati. Posai la pallina delicatamente e presi il mio giubbotto di pelle nuovo di zecca. Scesi di corsa le scale per arrivare in cucina ed aprire il cancello. I miei amici erano lì che mi aspettavano sorridenti. Aprii il portone di casa. Da poco si erano abituati al mio aspetto. Capelli lunghi… giubbotto di pelle… anelli. Una piccola rivoluzione che mi aveva invaso dalla testa ai piedi. Non ero più il Ciro di prima. Perlomeno all’esterno. Perché all’interno, si sa, è difficile cambiare.
– Ciro! Forza dai! Sali in macchina! –
– Ragazzi… dove si va? –
Domanda inutile perché già conoscevo la risposta. Li conoscevo… e loro conoscevano me. Ci guardammo negli occhi e partimmo.

Nella solita direzione… verso il solito luogo… verso la nostra:

Libera uscita…

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