A volte le magie accadono… (parte 3)

Luciano prese posto tra le file della platea. Si sedette nel posto centrale con a fianco Maioli e gli altri.
Non gli staccai gli occhi di dosso nemmeno per un istante. Ligabue era lì, in uno dei posti del cinema. Inciampavo ogni gradino mentre risalivo la scala. Dovevo raggiungere il mio posto. Il film sarebbe cominciato a breve. Ma quale film avrei visto se lui non se ne fosse andato? Ero distratto e assorto come un bambino che pensa al regalo di Natale in un negozio di giocattoli. Un bambino, mi sentii proprio un bambino. Scalai i miei ventiquattro anni in un colpo. Tornai all’inizio. Quando la mia corazza era ancora bella forte e niente riusciva a scalfirla. Quando la vita era Giorno per Giorno e non avevo pesanti ricordi in bagagliaio. Poi entrò lui, senza nemmeno bussare. Si mascherò con una semplice canzone; allettò il mio udito con la musica e penetrò il mio cuore con le parole. C’è stato un periodo che l’odiai per questo. Perché ogni canzone che ascoltavo… ogni strofa che sentivo, mi lasciava inerme, debole, pensieroso.
Alcune canzoni decisi di non ascoltarle mai più. Ma il tempo corresse gli errori e finii per cedere, come le mie lacrime.
Anni su anni. Vita su vita.
Storie, ragazze, amici.
Vizzi che non puoi smettere.
Pelle anima e ossa.
Cielo.
Sentivo dentro ogni cosa, e ogni cosa mi stava pulsando nelle vene.
Le luci del cinema si abbassarono e lo schermo scintillò. Francesca mi disse di sedermi e lentamente lo feci. Tornai per un attimo alla realtà. Ero lì, nel posto 7 della fila 13, con in mano un paio di occhialini 3D.
Avevo giubbotto e sciarpa ancora addosso. Non avevo fatto caso al caldo che faceva. Strinsi la mano di Francesca. Mi guardò. Cercava di capire la mia agitazione. Ero a pochi metri di distanza dal mio idolo.
Ci separavano solo pochi posti. Era nella mia stessa fila. Mi sporsi in avanti con il busto. Lo vedevo e per farlo dovevo distogliere lo sguardo dallo schermo. Il film stava iniziando.
Ero teso. Sullo schermo passavano le scene di migliaia di ragazzi che si preparavano a vedere il concerto. Volti sconosciuti. Semplici persone arrivate da tutta Italia per godere di un sogno. M’immedesimai in loro. Ricordai vaghe scene del passato. Ricordai le emozioni, ricordai i miei freschi diciott’anni. Ricordai gli amici, a quel tempo, più stretti che mai. Tutti i miei ricordi erano concentrati in canzoni. Le canzoni che aveva scritto quell’uomo seduto a qualche metro da me.
Partì Questa è la mia vita, una di quelle che amavo di più. Indossai gli occhialini per guardare qualche fotogramma, ma dopo un minuto li toglievo per tornare a osservare lui. Ligabue era immobile. Tutta la sala cantava e si sbracciava come se fossimo a un concerto. Lui invece era fermo a guardare. Sorrideva osservando gli spettatori estasiati. Il suo film stava dando l’effetto sperato. Stava generando emozioni.
Era quello il suo lavoro, e lo stava facendo bene.

Incrociai le dita. Pregai. Volevo quel qualcosa che prima mi era sfuggito. Volevo lui. Non mi bastava averlo sfiorato. Volevo di più, e quella era l’occasione giusta. Forse l’unica per me. Guardavo il film ma stranamente ero impaziente che finisse. In quel momento non m’importava. Il film poteva aspettare. Pensavo a come avvicinarlo, e pensavo, con dispiacere, alla probabilità che non ci fossi riuscito.
Il solito pessimista.
Sperai, sperai, sperai. E le luci si accesero. Il film era finito.
Mi guardai intorno. Infilai alla svelta il giubbotto di pelle. Francesca mi guardò e capì. Sgomitai tra la folla. M’infilai in ogni buco. Passai avanti a tutti. Lo vedevo. Ero vicino. Sentii il cuore battere forte. Le braccia mi tremavano. Ligabue stava uscendo dalla fila nella mia direzione. Nella direzione di molti. Si faceva sempre più vicino. Le mani dei ragazzi non volevano lasciarlo andare. Si appigliavano ai vestiti, al collo, alle braccia. Li capivo. Anche loro volevano toccarlo. Luciano era a un palmo da me. La sua mano destra era stretta da un altro ragazzo. Tesi il mio braccio allo spasmo.
Gridai “Ligaaa”. Lo guardai negli occhi per un istante. Quell’attimo fu immenso. Ligabue lasciò la mano del ragazzo e con un rapido movimento gliel’afferrai. Senza pensarci, senza permessi, senza chiedere. Un contatto. Avevo la sua mano nella mia. Nella testa mi scoppiò una supernova. Non guardavo più la sua faccia ma la mia mano, insieme alla sua.
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Furono i secondi che passarono. Poi lentamente lo lasciai andare. Le sue dita scivolarono via dalle mie e incontrarono quelle di un’altra persona. Il cuore mi batteva come un tamburo e le gambe sembravano fatte di pan di spagna. Ero fermo. La folla lo seguiva nella sua dipartita. Tutti si allontanavano da me. E quando non ci fu più nessuno, scorsi Francesca dall’altra parte della sala.
Le sorrisi… e lo fece anche lei.

A volte le magie accadono… (parte 2)

– … per andare a vederlo da un’altra parte! –

Melzo è una piccola cittadina nella sconfinata periferia di Milano. Ha una manciata di abitanti in un gruppo di case, una ferrovia che la spacca in due e una vecchia storia medioevale.
Faceva freddo anche lì e il sole lentamente se ne stava andando, oscurando tutto. Il pullman ci lasciò in strada. Apparentemente quel posto aveva qualcosa di familiare, ma tralasciai i miei pensieri.
– Siamo arrivati! – disse lei.
Eravamo di fronte un modesto palazzetto. Aveva la forma di una cupola o quasi. Su un lato, una grossa insegna multicolore: Arcadia.
Era un cinema. Un posto così semplice dove tenere coppiette vanno a passare qualche ora spensierata. Non avrei mai pensato che quello fosse stato il luogo dove si sarebbe avverato un mio desiderio.
Ci avvicinammo. La mia curiosità cresceva allo stesso ritmo della mia impazienza. Mi fermai un attimo davanti alla vetrina che racchiudeva un poster. “Ligabue – Campovolo – il Film 3d”
Quel giorno, non avevo programmato di vedere quel film, ma lei mi ci trascinò con tutte le sue forze.
E’ delizioso avere qualcuno che riesce a penetrare la tua corazza, guardarti dentro, e scavare nei tuoi desideri più intimi. Oltretutto Francesca non ammirava Ligabue come me. Non aveva motivo di essere lì, se non per me. Eppure aveva fatto di tutto per portamici, per recuperare due biglietti introvabili, per permettermi di vederlo e regalarmi un sogno.
Ancora non credevo a quello che stava per succedere.
Eravamo in un corridoio. Il cinema si stava riempendo pian piano. In mano avevo i nostri due biglietti. Posti 7 e 8. C’erano capitati i nostri numeri fortunati. Che bizzarra coincidenza.
Adoro le coincidenze ma al loro succedersi il mio istinto va in allarme… e non riesco mai a capire se in bene o in male.
– Che hai? – mi chiese, osservando il mio volto che appariva triste.
– Niente… sono agitato… teso… emozionato… incredulo… non so che dire… –
Sorrise e mi strinse la mano. Cercò di comprendere il mio silenzio. Avevo un mondo all’interno che si stava scontrando con un altro. Due forze contrastanti, una fatta di ricordi, e una di presente. Sentivo gli stessi sentimenti di dieci anni fa. Quando ascoltai per la prima volta una canzone di Ligabue sul mio pc. Era Certe notti. Me ne innamorai subito. E da lì, la rapida ascesa: il primo cd… la prima maglietta… il primo concerto. Fu proprio Campovolo nel 2005. Il 10 settembre del 2005. Lo amavo talmente tanto che mi ci fiondai senza se e senza ma, col mio giubbotto di pelle e la mia monospalla, qualche amico fidato, una botta di vita e un viaggio di 10 ore.

Aspettavo seduto in quel corridoio. Sentivo l’ansia crescere, quella violenta che ti scava dentro, quella che prende il respiro, quella che aspetta la gioia, che forse arriverà. Guardai di nuovo i miei biglietti e con loro le mie gambe in un pantalone grigio.
– Sto sognando? – le chiesi.
– No… scemo… andiamo… mettiamoci in fila che tra poco si entra in sala! –

Sala Energia

Dall’esterno non sembrava che questo palazzetto potesse contenere una sala così grande. La platea da sola era uno spettacolo. Una specie di anfiteatro con poltroncine blu, rivolte tutte verso lo tesso punto.
Al centro di un’enorme parete, un immenso schermo. Il più grande che abbiamo mai visto in vita mia. Spettacolare. Rimasi affascinato a guardare quella scena, per gustarmi i dettagli, mentre la sala si riempiva. Francesca prendeva i posti e poggiava le cose.
– Se vuoi ci mettiamo lì, in piedi in fondo alla scala. Saremo più vicini. –
Alla parola “vicino” il mio cuore ebbe un sussulto. Mi ero quasi dimenticato che non era un sogno, era tutto vero quello che stava per succedere. Scesi lentamente ogni gradino. Mi appiattii alla parete. Altri ragazzi ebbero la stessa idea e per una volta nella vita, invidiai quelli che erano seduti in prima fila. Fissavo il centro del palco. Illuminato da un’unica luce. Quasi come se Dio stesse per scendere in scena.
La sala era piena. Un vociare scomposto di sottofondo fatto di anime che si scambiavano esperienze e opinioni, contrastava col mio silenzio. L’ansia si fece più forte. La mente non aspettava altro. Il cuore pompava ritmi sconosciuti. Gli occhi non sapevano più dove guardare.
Improvvisamente, le porte si aprirono. Dal fondo comparve un gruppetto di uomini capitanati da Claudio Maioli, il manager e amico stretto di Ligabue. Scesero lungo la scala. La stessa scala al cui termine c’ero io. I ragazzi si scansarono educatamente. Maioli guardava i gradini per non inciampare nella penombra. Una ragazza gli toccò un piede e si scusò.
– Niente… non si vede un cazzo qui! – Rispose Maioli.
Sorrisi mentre mi passò accanto. Il suo solito caratteraccio. Pensai.
Si disposero al centro sotto la luce. Dietro di loro, il maxischermo ancora bianco.
Con le orecchie li sentivo parlare, ma il mio cervello non memorizzò niente delle loro parole. La mia mente era impegnata a capire da dove sarebbe entrato Lui… da dove sarebbe sceso… e se fosse passato davanti a me.
Grida confuse. Maioli dice al microfono “Entra Luciano!” e dopo qualche secondo Luciano entrò. Alzai la testa, sgranai gli occhi ma non riuscivo a vederlo. Una massa di ragazzi e ragazze gli fu addosso. Era lontano da me. Stava scendendo lentamente dalla scala a destra. I fans non lo lasciavano andare. La maschera intervenne e calmò la folla. Lo vidi. Era a 10 metri da me. Lo spazio di una strada in pratica. Come se Ligabue fosse dall’altro lato del marciapiede… ed io volevo tanto attraversarla quella strada.
Era sotto la luce. I suoi capelli si tinsero di chiaro.
– Ben arrivati! – disse, e la folla esplose.
– … ho voluto presentare il mio film qui, all’Arcadia di Melzo, nella sala Energia. Perché qui c’è uno dei più grandi schemi 3d italiani e spero che il film si veda bene! –
Ligabue parlava al microfono. Presentava il film. Lo fissavo così intontito e la mente era un guazzabuglio di parole, di sue parole. A ogni sillaba che pronunciava, cercavo di avvicinarmi lentamente insieme ad altri colleghi.
I piedi mi tremavano e la Maschera già ci guardava in malo modo. Gettai la mia educazione in qualche angolo recondito del corpo e feci finta di non vedere i rimproveri velati.
Luciano ringraziò il pubblico e lasciò il microfono. Tutti i ragazzi, come girasoli attirati dalla luce, gli furono vicino. Crearono uno scudo tra lui e l’aria. Non lo vedevo più e la mia coscienza strinò la mia esitazione.
“Che fai lì, corri! Vai da Lui!”
In un attimo gli fui vicino. A meno di un metro. Vedevo la sua faccia grazie alla mia altezza, ma lo scudo di persone non mi permetteva di avvicinarmi. Stava risalendo le scale centrali. Si allontanava. Tesi un braccio. Ero a dieci centimetri. Il mio indice cercava di sfiorarlo. Non ci riuscivo. La folla era troppa. Pregai di avere le braccia più lunghe in quel momento. Salii sulle punte dei piedi. I muscoli erano tesi allo spasmo. Chiusi gli occhi. Dovevo riuscirci, dovevo riuscire a toccarlo almeno per un istante. Volevo un briciolo di sogno. Volevo sentire sotto le mie dita un pizzico di quel cantante. Non potevo lasciarlo andare. Me ne sarei pentito per una vita intera. Era lì… a un palmo da me.
Saltai sulle mie punte…
Gli sfiorai la spalla…
Se ne andò…
Incredulo e pensoso, restai imbambolato per alcuni minuti al centro del palco. Sotto la stessa luce che lo aveva inondato, ora illuminava me.
Trattenevo le lacrime mentre mi allontanavo. Cercavo di avere un aspetto normale. Di lì a poco sarebbe iniziato il film e lì ancora altre emozioni. A bordo scala lo guardai andar via lentamente. Quel cantate che mi aveva cresciuto. Stranamente non vidi le porte aprirsi. Ligabue stava temporeggiando a circa metà della sala. Parlava con Maioli. Cercai di capire cosa stesse facendo e quando mi fu chiaro, restai a bocca aperta dall’incredibile sorpresa.

“No… non posso crederci… non puoi far questo!”

Delirio irreale di una mente distorta…

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Macchie di sangue sul freddo pavimento disegnano piccoli ruscelli rossi. Una mano insanguinata pende da un lato del divano malconcio. Dalla mano, cadono una alla volta le gocce rosse che finiscono sulle mattonelle bianche.
Uno spreco…
Così tanta vita che se ne va inutilmente. C’è chi pagherebbe oro per avere quel sangue buttato lì sul pavimento. C’è chi invece pagherebbe per altre cose.. come una dose o una bottiglia di rum.
Chi paga per la vita e chi paga per la morte.
E’ questo il mondo…
È uno strano modo per affrontare le cose. Chissà la mente di cosa ha bisogno per ragionare in modo corretto. Per fare scelte accurate… per non cadere in tentazione. Per morire nel modo migliore possibile. Si può scegliere di morire a questo mondo? Senza sentire il rumore di quel battito di ali che ti urla nella testa e ti dice “vivi”… “sopravvivi”…

Ma torniamo al nostro corpo sopra al divano che gocciola sangue. Lentamente sposto la visuale e scopro piccoli particolari ad ogni movimento. Un tavolino in vetro… quattro bottiglie di birra riverse tra pezzi di carta e sporcizia. C’è del vomito per terra vicino al divano. Ha il colore giallo e una puzza nauseabonda. Forse regalo di quel corpo ancora caldo. E’ notte fonda… e nessuno passerà di lì. Un lampione in strada alterna il suo fascio di luce. Lo si nota da una saracinesca verde quasi tutta abbassata. E’ giusto che le cose finiscano così? E’ giusto che non ci sia una via d’uscita? Un piccolo varco tra la folla che ti porti di nuovo al punto di partenza… Cosa c’è in fondo di così difficile nello stare in vita…

Questa macchina così perfetta chiamata corpo umano vacilla sotto i colpi di una semplice lama. Ed eccola lì l’arma in questione… tutta insanguinata. Non c’è bisogno di fare domande… di cercare i colpevoli… di chiedere confessioni o alibi. Una fotografia basta e avanza per capire lo svolgimento dei fatti. Una fotografia di quel corpo silenzioso adagiato per il lungo sul divano. Con le gambe ritte e i piedi che sbucano dal bracciolo. Ai piedi le sue solite Nike tutte impolverate segno di una lunga corsa in motorino. La tentazione di girarmi e guardare il suo viso è troppo forte ma riesco a mantenermi…
È ancora troppo presto per sapere il suo volto. E’ ancora troppo presto per sapere chi sia. Non voglio ancora voltarmi… Ho paura di ciò che vedrò.
Faccio un giro… Torno dietro e mi siedo per terra, a fianco al vomito, con la mano insanguinata che mi penzola a pochi centimetri dalla faccia. Piccola ed esile… con le dita affusolate. Sul pollice ha un anello e lungo l’indice un rivolo di sangue che rovina nel vuoto.

Tac… tac… tac…

Conto le gocce una ad una. Sembrano tutte uguali… e sembrano non finire mai. Con un dito sfioro il suo indice e raccolgo un po’ di sangue interrompendo la lunga catena. Lo porto alla bocca e l’assaggio sperando che sia solo ketchup frutto di un banale scherzo infantile. Ma le speranze sono illuse quando sento il sapore metallico e la lingua pizzicarmi. E ora l’aria è cambiata… un brivido mi percorre la schiena… sento freddo… forse più di lui… forse più del freddo stesso. E lo stomaco si chiude… non solo per il vomito… e non per il suo sangue ma per il mio che pompa nelle vene a ritmi incredibili.
Il cuore batte. Segue la scena da una posizione nascosta. Sarà solo il mio a battere in questa stanza? Mi chiedo. E attendo una risposta da questo tizio sconosciuto. Fosse solo un segno… fosse solo un attimo… fosse anche un movimento involontario. Lo attendo paziente seduto con le gambe incrociate. Fermo, con gli occhi fissi ed attenti su quella mano immobile. Quella mano aperta come a chiedere pietà. Pietà di una vita dal sapore troppo amaro… con schizzi di follia e botte di felicità. E’ troppo facile scivolare così in basso. Il difficile è restare a galla… magari con l’acqua alla gola e il respiro affannato. Non è sempre facile lo so… sono gli errori che la fanno da padrone in questo mondo. Non c’è una soluzione… e se c’è, di certo non è questa.
Una lacrima mi scorre lungo la guancia. Quella lacrima sembra chiedere perché? E cadendo si unisce alle gocce di sangue sul pavimento.
Non lo so… in questo momento non riesco a spiegarmelo.
Qui con la vita non si può mai dire..
arrivi quando sembri andata via..
Chi sei?
E perché io sono qui?
Ad ascoltare il tuo sangue. Non voglio sapere… Non ho il coraggio di alzarmi. Distolgo lo sguardo ma non fermo le lacrime. Quelle non riesco a reggerle.
Con gli occhi arrossati e la vista annebbiata, le lacrime fanno da lente d’ingrandimento ai sentimenti.
Improvvisamente sobbalzo all’indietro. Spaventato da un movimento istantaneo della mano penzolante. Ho il cuore a mille che cerca di calmarsi.
Era solo un tic nervoso. Solo una scarica di nervi sulla carne e i muscoli hanno fatto il loro dovere.
È La vita… la semplice vita che si muove.
Mi rialzo.
Il volto è coperto da un bracciolo. Non lo vedo. Vedo il suo corpo… le sue gambe.. e il braccio con la mano che termina sul bordo del divano. Faccio un passo ed urto una bottiglia che rotolando finisce conto il muro producendo un rumore infernale in quest’ora tarda. Mi giro e controllo le spalle con la paura che qualcuno mi stia dietro… fosse solo un alito di vento entrato da chissà dove.
Faccio un altro passo, questa volta con più attenzione. Oltrepasso il coltello sul pavimento insanguinato. Lo guardo con ammirazione. Mi sembra di conoscerlo. Ma sarà solo un dettaglio. Un po’ tutto qui mi è familiare e non riesco a capire il perché. E mentre le domande si affollano, percorro lentamente la linea del divano. Fino a voltare l’angolo…
E’ giunto il momento…
Voglio sapere chi sei!
Questa è la fine di questa strana storia.
Respiro profondo…
Mi giro…
Spalanco gli occhi…
Un grido soffocato mi muore in gola e con la mano mi tappo la bocca come per evitare di dire qualcosa. L’altra mano si stringe in un pugno quasi a farsi male. Quasi a conficcare le unghie nella pelle. Spero con tutto me stesso che quello adagiato sul divano sia solo uno specchio che riflette il mio volto. Ma non è così… Perché quel corpo ha le mie stesse sembianze. Ha i miei capelli… i miei occhi… la mia pelle. E quello per terra credo che sia il mio sangue. Non posso crederci… non riesco a concepirlo. Che ci faccio lì?
E perché sono quasi in fin di vita?
Sono allibito… Ma la forza piano piano si riprende i miei muscoli, al momento invasi dalla paura. E subentra la rabbia…
Salto sul divano…
Prendo le spalle di questo corpo e cerco di rianimarlo scuotendolo.
“Svegliati cavolo! Svegliati!”
“Dimmi perché??”
Non risponde. Ha gli occhi bianchi. Le pupille sembrano sparite. E non fa nessun cenno di resistenza. L’anima sembra aver abbandonato questo corpo. Il mio corpo.
“Svegliatiii!!”

Boomm boomm boomm

Sento bussare fortemente alla saracinesca. Mi volto di scatto… e…

E mi sveglio all’improvviso…
Apro gli occhi e guardo il mio solito soffitto bianco. La mia tenda che scende da un lato… e i miei poster appesi alle pareti. Respiro forte… Ho la fronte sudata e il mio corpo è tutto un tremore.
Sono nel mio letto. E soprattutto…

Sono ancora vivo…

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