Pensieri random #21

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Come fa “bidet” ad essere una parola Francese?!?

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Il Quartiere Latino (la nouvelle de Paris IX)

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20:00

Il giro al Louvre era stato estenuante. Avevo i piedi in condizioni pietose. Mi buttai sul letto a peso morto. In casa, un vociare confuso di persone. I ragazzi discutevano, parlavano, raccontavano mescolando l’italiano con l’inglese affinché anche il nostro compagno brasiliano potesse capire. Chiusi gli occhi e cercai di recuperare le forze. I miei polpacci erano incandescenti, la schiena a pezzi e la mente in black-out.
Ad Aberto la stanchezza sembrava non toccare. Avevamo percorso chilometri ma lui era ancora fresco come una rosa sbocciata. Faceva progetti per la serata e cercava di coinvolgerci tutti. Antonio e Rafael lo stavano a sentire. Ciro aveva la testa sotto il cuscino a mo’ di struzzo e stava peggio di me. Sinceramente non mi andava di ballare anche quella sera. I piedi mi avrebbero dato buca.
Quando finalmente tutti fummo sistemati in un letto, piombò su di noi, come una leggera coperta, un sonno profondo.
Dormimmo in tutto un paio d’ore. Qualcuno si svegliò e ci svegliò tutti.
– Andiamo ragazzi! La notte è giovane! E soprattutto… siamo a Parigi! – urlò a gran voce Alberto.
Quel ragazzo, se ancora ragazzo si potesse chiamare a trent’anni, sembrava essere sempre pieno di energie e desideroso di assaporare ogni momento della vita, com’era desideroso di attaccarsi alle sottane di qualche giovane parigina. Anche se molto diversi, questo lato del carattere ci accomunava tanto. Anch’io voglio prendere la vita e farne brandelli di avventure. Anche a me piace viaggiare, osservare, raccontare… anch’io amo non fermarmi mai, anche se a volte, la ragione blocca la maggior parte delle pazzie.
Ci vestimmo tutti con indumenti già visti nelle serate precedenti. Non so come, ma Parigi mi faceva dimenticare che le mie bellissime scarpe nuove erano state devastate nella serata in discoteca. Rafael era sotto la doccia e cantava un motivetto portoghese. Vidi Ciro spruzzarsi un paio di gocce del suo Versace e me ne feci prestare un po’. Antonio girava per la stanza alla ricerca di una cintura per i suoi jeans. Infine Alberto, aveva sfoggiato il suo imbattibile pantalone rosa con cintura marrone, abbinato alla camicia bianca. Si avvicinò a noi e ci disse:
– Questo pantalone… quante ne ha acchiappate! –

Mezz’ora dopo uscimmo. Erano le undici in punto. Le strade parigine si colorarono di tenui luci arancioni che donavano a luogo un’intensa aura dorata. Ci dirigemmo verso il famoso Quartiere Latino. Un quartiere frequentato principalmente da studenti universitari e da turisti. Infatti, non molto distante c’è la Sorbona, la prestigiosa università di Parigi. Le sue vie pullulano di locali, dove mangiare, bere e fare bisboccia fino all’alba. Il quartiere costruito a posta per noi, in pratica.
Ci addentrammo per le sue vie, alcune molto strette da proibire il transito alle auto. Mi colpì subito il colore. Il colore delle cose, delle insegne, dei cibi, delle luci, di tutto! Dopo aver passato giorni e aver osservato palazzi e monumenti antichi così da abituare gli occhi alle tonalità settecentesche, ora, quel rosso, quel viola, quel blue, mi riportavano al futuro, ovvero il presente della nostra tipica società. Ciononostante, quella diversità del luogo, era perfettamente incastonata tra palazzi antichi e cattedrali gotiche da non rovinare l’ambiente cittadino.
C’erano insegne di ristoranti italiani, tedeschi, indiani, cinesi, giapponesi… C’era un vasto assortimento culinario. Noi, però, cercavamo qualcosa di tipico della zona ed entrammo in un ristorante francese.
Il maître ci indicò dove sederci e ci portò le liste. Ovviamente scritte in francese. I ragazzi pensarono subito al vino e ne fecero portare una bottiglia. Un Sauvignon blanc da 20 euro.
Non avevamo ancora ordinato che già la prima era andata. Ne ordinammo un’altra con immenso piacere del maître. Di quel menu non ci capivo un acca. Volevo scegliere qualcosa di commestibile e che si accostasse bene all’immensa quantità di vino che sicuramente avremmo bevuto. Lessi tutta la lista, poi sorrisi.
– Ecco cosa prenderò! Un’omelette! –

Mangiammo, bevemmo, chiacchierammo… Ognuno raccontava un pezzo di se. Li stavo ad ascoltare con piacere. Quella combriccola non era male. Il vino scorreva a fiumi e il cibo era ottimo. Il maître rimpiazzava le bottiglie vuote con quelle piene e ogni tanto si fermava a fare due chiacchiere sulle sue vacanze italiane. Eravamo entrati così in confidenza che fu quasi dispiaciuto nel mandarci via. L’ora era tarda e il ristorante doveva chiudere. Ci fermammo davanti all’entrata a bere l’ultimo bicchiere di vino e vedemmo uscire dal locale due ragazze. Alberto ovviamente partì all’attacco e attaccò bottone con una di loro. Si fermarono a fare quattro chiacchiere e a fumare una sigaretta. Parlavano inglese ma non erano inglesi, bensì di una delle sue ex- colonie: l’Australia.

E qui la memoria subisce un salto. Non ricordo il come e il perché finimmo in un altro locale. Mi ritrovai a parlare con una delle due, davanti a un bancone di un piccolo pub.
– Un Cuba Libre, and for you? – ordinai al barista.
– Un Mojito
Con la vista un po’ annebbiata mi accorsi che Alberto era lì vicino e tentava un approccio con l’amica. Del resto della compagnia non avevo notizie. Guardai negli occhi la mia giovane donzella. Si chiamava Kate e aveva all’incirca la mia età. Ancora non riesco a spiegarmi di come abbia fatto ad attraversare metà mondo per finire a bere un Mojito a Parigi. Mi disse che era il suo ultimo giorno in Francia e coincidenza lo era anche il mio. Il viaggio però non si sarebbe fermato lì, la sua prossima tappa sarebbe stata l’Italia e più precisamente Milano.
– Milano?! Really?! I came from Milano! – le dissi.
– Wow… I love Milano, fashion and shopping! –
La ragazza la sapeva lunga sulla vita mondana e stava per recarsi proprio nel suo cuore, nel centro di ogni attività modaiola e festaiola. Avevo già capito le sue intenzioni. Mi chiese di insegnarle qualche parola in italiano. Aveva fatto un corso di qualche mese in Australia e voleva far pratica nel Bel Paese. Per fortuna che la mia galanteria mi fece desistere dall’insegnarle le parolacce, anche se l’istinto voleva divertirsi un po’. Le corressi la pronuncia delle parole che conosceva già. Qualche volta sbagliava gli ausiliari; in alcune frasi ometteva il soggetto; e i plurali le erano sconosciuti. Nonostante tutto se la cavava egregiamente, e sempre meglio del mio abominevole inglese!
Parlammo a lungo. Non avevo idea di che ore erano e di dove fossimo. Però vedevo Alberto lì vicino e questo mi dava un po’ di sicurezza. Chissà se Alberto pensava lo stesso di me? Non era che entrambi contavamo sull’altro per tornare a casa? Per fortuna non fu così e vidi spuntare da dietro Antonio con una bionda. Non in carne e ossa, ma liquida e spumosa. Me la offrì e mi chiese come stesse andando.
– Tutto bene… – gli risposi.

Tornai a guardare la mia compagna di serata negli occhi. Aveva un qualcosa di nascosto. Qualcosa di segreto aleggiava in lei. Quel suo sorriso così semplice e al tempo stesso misterioso. Quel suo fare disinvolto, socievole, intrigante… ne facevano di lei una persona da scoprire, come una rosa chiusa in un bocciolo. A ogni mio passo lei non indietreggiava, mi fronteggiava, stava allo scherzo. Rideva, giocava, si avvicinava. Ogni tanto mi lanciava languide occhiate che io raccoglievo e rilanciavo.
Era un gioco per me. Un perfetto gioco di frasi fatte, battute ben affilate e parole intriganti.
Era un gioco… e chissà per quanto ancora… sarebbe durato…

 

 

Quatre-vingts! (la nouvelle de Paris VII)

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Quella mattina il sole entrò con una certa resistenza in quella casa parquettata sugli Champs-Élysées. S’insinuò tra le fessure laterali che la fitta tenda plastificata non riusciva a coprire. E una volta dentro, la scena che gli si presentò davanti aveva qualcosa di grottesco e innaturale che gli sembrava aver visto solo in Vietnam ai tempi della guerra. Quel sole rise di noi… delle nostre facce stanche e assonnate; delle posizioni strane in cui dormivamo; dei vestiti sparsi e dei resti di cibo ovunque; rise di noi, perché non c’era nessun altro in città di cui poter ridere. Rise di noi e poi, con la sua potente luce, ci svegliò.
Avevo la bocca impastata e lo stomaco più arido del Sahara d’estate. L’alcol aveva fatto il suo corso lasciando un gran mal di testa e una sete inappagabile.
Ci alzammo tutti e in un’ora fummo arzilli e ben svegli, pronti, per la prossima avventura parigina. Ci catapultammo in strada con lo stesso sole che ci aveva svegliato.
Facemmo colazione in un bar a caso. Con non poche difficoltà a ordinare una brioches e un cappuccino. Sedemmo a un tavolino all’interno e cercammo di radunare quanti più ricordi possibili della serata precedente. Cercai di capire cosa avevano fatto gli altri e scoprii che non era molto differente da ciò che avevamo fatto Rafael ed io: bere e provarci con le ragazze.
Concordammo tutti che cantare Con te partirò di Bocelli a Parigi, era una delle cose da fare per forza nella vita. Fu l’apoteosi della serata, e soprattutto, totalmente imprevista. Imprevista… come la chiamata che ricevette Alberto in quell’istante.
– Pronto! Hi Yann! How are you? –
Alberto parlò con questo tizio dal nome difficile per un paio di minuti. Gli dette appuntamento nel primo luogo che gli venne in mente: la Tour Eiffel.
“Un genio… decisamente una persona molto intelligente!” pensai.
Dare appuntamento a una persona, sotto uno dei monumenti più famosi del mondo, visitato da quasi 7 milioni di persone l’anno, di sabato, ci vuole coraggio.
Gli feci un grande elogio e c’incamminammo.

Percorremmo avenue George V osservando macchine di lusso e ristoranti eleganti. Attraversammo la Senna su Pont de L’Alma e qualcosa s’iniziò a vedere da lontano. La Torre. Restai fermo un istante a osservarla. Non perché fossi estasiato o meravigliato, al contrario, quella bizzarra piramide ferrosa, non mi diceva niente. Mi dava l’impressione di essere un grosso traliccio della corrente elettrica e niente più. Cercavo nel mio corpo qualche emozione da sprigionare. Ci riflettevo… osservavo ancora… pensavo… ricordavo… Niente! Per me, quella rinomata Tour Eiffel, era solo un ammasso di ferraglia ben costruito. Rendeva meglio nelle foto da cartolina.
Dopo aver passeggiato per rue de l’université, finalmente ci fummo sotto. Proprio al centro, circondati da migliaia di persone in fila per salire. C’erano due ascensori che partivano da due piloni opposti e all’interno degli altri c’erano le scale per permettere alle persone di scendere. Mi posizionai al centro e alzai lo sguardo osservando il grosso quadrato metallico. Il culo della torre in pratica. Non mi diceva niente neanche quello. Solo ferro! Ganci, bulloni, travi… innesti, giunture, fili… cose non molto diverse da un cantiere di un grattacielo. E osservando le facce delle persone incantate dal metallo, ero invidioso e curioso di sapere il perché. Anch’io volevo provare una bella emozione… sognare e liberare un wow dalla mia bocca. Ma non riuscivo a mentire…
– Yann! My friend! –
Un normalissimo ragazzo con una normalissima borsa venne incontro ad Alberto. Era francese senza alcun dubbio. Il suo viso già parlava di per sé. Era un Vincent Cassel con vent’anni di meno e un fisico asciutto.
Ci presentammo, ovviamente in inglese, e anche a lui spiegai che Ciro ed io avevamo lo stesso nome. Iniziammo a camminare. Non chiedetemi per dove né perché. Camminammo e basta. Alberto, che conosceva questo Yann, parlò con lui per un po’, poi lo lasciò libero e subito passai all’attacco. Quel volto, quei movimenti e quel fisico, erano pressappoco interessanti per la mia fervente curiosità. Dovevo sapere di più.
– Yenn… – dissi cercando di richiamare la sua attenzione. Non si voltò e dopo capii il perché. Il suo nome andava pronunciato in maniera corretta. Nemmeno io mi sarei girato se qualcuno avesse urlato “Cero” invece di Ciro. Chiesi l’aiuto del pubblico e mi suggerirono la corretta pronuncia.
– Yann! – si girò e mi sorrise.
Mi affiancai a lui mentre camminavamo. Mi raccontò un po’ di sé. Aveva ventun anni e studiava economia come il sottoscritto. Gli piaceva la borsa e gli investimenti e mi s’illuminarono gli occhi quando me lo rivelò. Gli domandai qualcosa sull’economia francese e mi lamentai con lui perché la borsa di Parigi aveva subito un black-out causando notevoli perdite agli investitori.
In quel momento, per me, questo Yann rappresentava la Francia e Parigi. Anche se non era della città ma di un paesino a 300 chilometri di distanza. Aveva preso un treno e ci aveva messo meno di un’ora ad arrivare. E mi prese in giro dicendo che in Italia, con una buona fortuna, ne avrebbe impiegate almeno 4. Per lui, io impersonificavo l’Italia. E il problema era che non potevo dargli torto pur volendo difendere a spada tratta il mio Paese.
E così si aprì una sfida non dichiarata. Dibattemmo a lungo, senza tregua. Gli dissi che i francesi erano così stupidi da mangiare le lumache! Lui mi rispose che gli italiani erano così stupidi da non riuscire a raccogliere l’immondizia!
Il ragazzo lì, mi toccò nel vivo. Non mollava e aveva la risposta pronta. Eccitante dibattere con lui.
Gli dissi che L’Arc de Triomphe, altro non era che una banalissima copia dell’Arco della Pace di Milano. Di rimando, mi fece notare che lo spumante era una banalissima copia dello champagne.
Eravamo testa a testa come due pugili al primo round. E con una mossa non molto regolare gli dissi che la Francia era un paese di checche. Mi rispose che il Gay Pride Europeo si era svolto a Roma. Colpito e affondato. Era come duellare contro un avversario di eguale potenza.
In un impeto di rassegnazione tirai fuori l’ultima chance: – Voi francesi non avete una parola sola per dire il numero ottanta! Dovete dire per forza quattro volte venti! –
Yann ci pensò un attimo. Roteò gli occhi titubante. Si morse il labbro pensieroso. Alla fine però… mi diede ragione!

Italia – Francia = uno a zero.

 

 

Un’isola italiana nel cuore di Parigi (la nouvelle de Paris III)

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(Ultimo giorno)

– Quelle est cette chose? –
– Je ne sais pas… –
Ero in un letto non mio… in un posto sconosciuto alla mia percezione. Cercavo di dormire ma dalla finestra entrava un filo di luce che mi colpiva il viso. Il vetro era aperto e sentivo delle voci provenire da fuori.
– …un bâton en plastique… –
– Comment est arrivé ici? –
C’erano due signori francesi che discutevano davanti all’ingresso di questo palazzo sconosciuto. Si stavano chiedendo chi avesse devastato il loro splendido atrio. Feci un sorriso malizioso e con un braccio tastai la spalla di mio cugino.
– O… che vuoi? –
– Mi sa che abbiamo fatto un gran bel casino ieri… –
– Speriamo che non chiamino la polizia! –
– Già… come faremo a spiegargli che non volevamo fare del male a nessuno? –
– Dormi che è meglio… –
Mi rimisi a dormire. Le voci erano scomparse. Tutto era scomparso… e soprattutto, tutto questo doveva ancora accadere. Era il futuro di una storia ancora tutta da scrivere. Una storia Parigina incredibile che cominciò qualche giorno prima… in una città, ancora inesplorata…


(Primo giorno)

Ero a Parigi!
Davvero! Ero a Parigi!
Ero nell’aeroporto di Orly. Avevo seguito il fiume di passeggeri fino al punto in cui si era dissolto diramandosi nelle varie direzioni. Ero al centro di una grande sala rettangolare. Imponenti lastroni di vetro ci dividevano dall’esterno, dove lo spettacolo era fantastico. Aerei provenienti da tutto il mondo atterravano e decollavano su chilometri sterminati di asfalto. Ero solo, ero ancora solo perché i miei amici dovevano ancora arrivare. Ero solo, e avevo un po’ di tempo per sognare…
Avevo superato quel confine. Ero riuscito a saltare nel vuoto. Il vuoto che per me era un bianco sterminato… e i luoghi erano solo storie di libri e un mucchio di geografia. Potevo vedere, sentire, toccare quel qualcosa che avevo ascoltato dalle spiegazioni dei professori liceali o visto in documentari e quadri d’arte. La mia percezione era obbligata a limitarsi al confine stretto tra inchiostro e fantasia. Il rumore delle pagine e il suo sfrigolio era l’unico suono che sentivo quando immaginavo. Li vedevo nella mia mente quei personaggi storici che avevano cambiato l’Europa. Vedevo Napoleone, alla testa del suo immenso esercito. Vedevo Luigi XIV, il re sole, immaginandolo con una lunga parrucca nera riccioluta. Vedevo la rivoluzione e quando la Senna si dipinse di rosso per tutto il sangue versato. Non potevo credere di essere nella città più importante del ‘700. Ero eccitato e impaziente. L’ansia del volo si era trasformata in ansia positiva… in ansia curiosa. Volevo vedere…

Brrrrr
Il mio stomaco brontolò come quando un bambino ti tira il pantalone perché vuole qualcosa. Scollai gli occhi dalla pista e cercai un posto dove rifocillarmi. Erano le 3 e non avevo ancora mangiato qualcosa. La mia ricerca terminò quasi subito quando vidi un’emme dorata in fondo alla sala.
Ringraziai il Dio delle multinazionali ed entrai. Era pieno di gente. Persone in fila e persone alla cassa, responsabili e inservienti… e io che mi guardavo intorno sentendomi per un attimo disorientato. Nemmeno una parola amica risuonava al mio orecchio. Mi sentivo strano… come qualcosa di esterno.
Che ci faccio qui? Mi domandai quasi dimenticandomi del mio stomaco.
Osservai il primo della fila che sciorinava un francese perfetto. Il cassiere non fece nemmeno una domanda e iniziò a preparare la sua ordinazione. La mia mente era così impegnata nella decisione della lingua da adottare che la fame era svanita. Fu il mio turno e one cheeseburger e one coke fu la scelta più adatta. Il cassiere capì e mi rispose con una domanda incomprensibile. Annuii col capo due volte e mi ritrovai con una salsetta inutilizzabile perché non avevo le patatine. Mi sedetti in un posto e mangiai il mio panino. Mi accorsi che vicino al tavolo c’era uno sportellino rotondo. Lo aprii perché le mie dita sono sempre state curiose.
Alla vista restai sbigottito. Era una presa elettrica francese. Formata da due buchi e un perno di ferro che fuoriusciva quasi al centro. Era completamente diversa da una normale presa.
“Cazzo! Calma Ciro… stai calmo… respira… Il tuo amico Antonio è italiano… casa sua sarà italiana… avrà delle prese italiane…”
Rigirai più volte il cellulare in mano con il pensiero fisso di chiamarlo e appiattire la mia paranoia. Se non fossi stato in grado di ricaricare il mio cellulare o il mio pc mi sarei impiccato con il cavo dell’alimentatore.
Mi alzai e buttai i rifiuti nel cestino. Una signora anziana mi si avvicinò e in un francese molto stretto mi chiese qualcosa…
– Excusez-moi, madame… Je suis italien! – le dissi.
“L’ho detta bene? Come sono andato? Dammi un voto da uno a dieci…” pensai mentre la fissavo.
La signora mi fece un mezzo sorriso e se ne andò. La guardai un po’ deluso come quando studi tutta la notte e il giorno dopo vai male all’interrogazione.
Fa niente… sarà per la prossima volta.
Tornai nella sala centrale e il grosso divano a forma di serpente o di S arancione, allettò la mia stanchezza. Appoggiai il mio trolley e mi distesi sopra. Avevo bisogno di dormire. Avevo passato la notte in bianco e non avevo ancora preso un maledetto caffè. Chiusi gli occhi… ma non entrambi, uno solo, l’altro restò vigile e in guardia. Come solo un ansioso paranoico riesce a fare.

Biiip…
Mi arrivò un messaggio. Era di mio cugino Ciro e diceva che erano arrivati ad un certo imbarco B ad Orly ouest. Scattai sugli attenti come un soldato di fanteria. Presi il mio trolley e scesi le scale. Inclinai il capo in alto. Centinaia di cartelli distraevano la mia attenzione.
“Orly ouest! Eccolo lì…”
Camminai in quella direzione. Camminavo e camminavo ma non raggiunsi nessun arrivo di voli. Arrivai ad un punto morto. Vidi un altro cartello…
“Orly ouest! Allora è dall’altra parte!”
Ritornai sui miei passi e raggiunsi l’altro lato dell’aeroporto. Niente. I miei amici non erano lì. Avevo perlustrato ogni dove. Chiamai Ciro.
– We! Dove cavolo siete? Vi sto cercando da un quarto d’ora! –
– Orly Ouest! Tu dove sei? –
– Beh… io sono a Or… –
Mi venne un dubbio. Possibile che i terminal potrebbero essere due? Cercai qualche cartello che me lo dicesse… e infatti…
“Orly sud!”
– Cazzo! Sono a Orly Sud! –
– Ve bene… non ti preoccupare… veniamo noi la… ciao! –
Attaccai il telefono e lo lasciai scivolare in tasca. Mi sovvenne un po’ di timore che non sarebbero riusciti a trovarmi. I miei amici, presi singolarmente, sono intelligenti e responsabili. Ma chissà perché quando si mettono insieme, tutto l’acume svanisce. In quel momento contavo su di loro. Sapevo che non mi avrebbero abbandonato.
Biiip messaggio:
Siamo fuori Orly sud, ci stiamo fumando una sigaretta.
Normale. Il lavoro di ricerca toccava ancora a me, ma almeno avevano fatto un passettino. Sorrisi. I miei amici non cambieranno mai… e del resto nemmeno io.
Percorrevo il corridoio interno osservando l’esterno dalle porte a vetri. Avanzavo svelto e ad un certo punto sentii picchiettare sul vetro.
Erano quei due che tranquillamente fumavano. Li salutai e cercai la porta più vicina. Ero felice. Mi fiondai all’esterno e li abbracciai.
– Come va Antonio? –
– Tutto a posto. –
– E tu Ciro? –
– Mha… il volo è stato un po’ traumatico. –
– Davvero? Vabbè… però siete qui sani e salvi! –
– Già! Ora andiamo a casa mia! – disse Antonio capeggiando la fila.
– Ah! Antonio scusa un attimo… ma le prese della corrente a casa tua come sono? –
Antonio fece un sorriso e guardò mio cugino… poi con una faccia come per dire “ma che domande sono” mi rispose:
– Italiane Ciro… sono italiane! –

Attacher vos ceintures de sécurité! (la nouvelle de Paris II)

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L’autista accese il motore dell’autobus e in parte calmò la mia impazienza. Ero salito sul 73 a San Babila diretto all’aeroporto di Linate. Era la prima volta che andavo lì. I miei voli erano sempre partiti da Malpensa prima di allora. Era una prima volta anche quella… Avrei visto il “piccolo” aeroporto di Milano. Avevo paura di perdermi come la prima volta a Malpensa… ma allora ero ancora un inesperto di voli.
L’autobus era semipieno. Scrutai le facce delle persone per capire se avessero la mia stessa meta da raggiungere. Osservai una famigliola in piedi davanti a me. Il padre cercava di calmare i due bambini irrequieti. La madre invece teneva d’occhio le valigie. Chissà per dove sarebbero partiti. Una ragazza seduta ascoltava musica dal suo Ipod. Aveva un piccolo trolley rosa con una maniglia viola. Sarebbe partita per Parigi anche lei? Probabilmente…
Guardai fuori. L’autobus stava passando per Corso di Porta Vittoria. Riconobbi quella strada perché ci passava il 23 che spesso mi portava a casa quando non avevo voglia di prendere la metro.
Il mio trolley da viaggio era a fianco a me. Sembrava così inerme e impotente che poteva benissimo mescolarsi a tutte le altre valigie presenti sull’autobus. Solo io, però, sapevo che era una bomba ad orologeria pronta ad esplodere e riversare in giro metri cubi di roba. L’avevo riempito fino all’ultimo centimetro possibile. Il giorno prima, in preda a un raptus di shopping sfrenato, comprai magliette e pantaloni da portare in viaggio. Tutto ciò che avevo nell’armadio non mi piaceva. Confesso che a volte mi comporto peggio di una donna in menopausa… e quasi piansi all’idea di poter portare solo un paio di scarpe. “No! A costo di legarmele con i lacci al collo, ma un altro paio lo devo portare!” pensai mentre riempivo la valigia. Alla fine, con qualche spinta e un po’ di pressione, riuscii a chiudere il mio sofferente trolley. Dubitai per un’oretta buona sulla tenuta delle cerniere, poi non ci pensai più, l’ansia del viaggio copriva ogni cosa.

Scesi dall’autobus insieme a tutti i futuri passeggeri di qualsivoglia volo in partenza. Mi sentivo così solo. Antonio e mio cugino Ciro, sarebbero partiti da Roma. Ci saremo incontrati in Francia. Suonava così strano dire “Ci becchiamo a Parigi!” con la stessa facilità di “Prendiamoci un caffè!”.
Entrai nell’aeroporto e cercai di orientarmi. Cercai tra i numerosi cartelli gli imbarchi e uno schermo che mi dicesse da dove sarebbe partito il mio volo.
A3
Con finta calma e ansia nascosta con nonchalance, mi diressi a passo svelto al metal detector. Ci passai sotto con il solito terrore che mi suonasse qualcosa. Non è mai accaduto ma se succedesse credo che la tensione mi farebbe urlare “Non sparate non sono un terrorista!”. Esiste una cura per la paranoia? Speriamo che la ricerca dia qualche frutto.
Mi sedetti su una poltroncina davanti all’imbarco. Per ammazzare il tempo aprii il mio netbook e cercai di scrivere qualcosa. Ma le mie dita non spiccicavano nemmeno una parola. Chiusi e lo rimisi in borsa. Di fianco a me c’era una signora né anziana né giovane. Aveva una folta chioma di capelli bianchi che contrastava il suo vestitino leggero e il suo fisico longilineo. Leggeva un libro di chissà quale autore. Sul suo trolley vi era attaccato un adesivo arancione con scritto easyjet. Ad osservar meglio ce l’avevano tutti i passeggeri tranne che me. Panico!
– Mi scusi signora… posso disturbarla un secondo? –
– Certo… –
– Perché ha quell’adesivo sul trolley? –
– Questo? Te lo danno al check-in… per il controllo valigie… –
– Ah… e dovrei andare anche io al check-in a prenderlo? –
– No… non è obbligatorio… io l’ho fatto mettere perché ho avuto delle brutte esperienze in passato. Ma il tuo trolley sembra nella norma. Te lo faranno passare senza problemi… –
– La ringrazio… – dissi sorridendo.

I passeggeri in possesso di speedy boarding verranno imbarcati per primi… poi…
Dopo aver sbrigato le formalità dell’imbarco e aver preso un pullman per percorrere 50 metri, mi sedetti al mio posto finestrino di questo volo per Parigi. Le hostess e gli steward sembravano tutti stranieri. Correvano sopra e sotto per cercare di sistemare le ultime valigie nelle cappelliere.
Quando tutto fu pronto decollammo.

Guardai fuori dal finestrino. Spettacolo. Milano dall’alto non l’avevo mai vista. L’aeroporto di Malpensa è troppo lontano dalla città. Il mio volo stava passando proprio sopra l’idroscalo. Vidi la stazione di Rogoredo con il palazzo della Bmw. Vidi il quartiere di Milano due, con i suoi bei palazzi signorili. Cercai di vedere il Duomo ma non ci riuscii… ormai eravamo già in alto, sopra le nuvole.
Pensai a cosa fare per passare il tempo. Frugai nelle tasche e trovai il manuale di conversazione francese che avevo comprato il giorno prima.
“Bene… studiamo un po’ questa lingua così raffinata!”
Il manuale era diviso in sezioni. Ognuna dedicata alle particolari esigenze. Tipo “prendere autobus”, “alimentazione”, “salute”, ecc… e in ogni sezione c’erano frasi e domande più comuni, con la relativa traduzione, pronte per essere usate. Aprii a caso.
Bonne Noël! – Buon Natale.
“No… credo che questa non mi servirà! Vediamo un po’…”
Puis-je vous offrir quelque chose à boire? – Posso invitarla a bere qualcosa?
“Bene… questa me la segno! Ma basta scherzare, ora consulto la sezione delle emergenze…”
Y a-t-il un chenil sur le bateau? – C’è un canile sul traghetto?
Rimasi di stucco. Non sapevo se ridere o preoccuparmi per un’eventuale emergenza in cui, invece di chiedere aiuto, avrei chiesto dove poter mettere il cane su una barca… a Parigi!
Chiusi il dizionario e rimpiansi i miei 7 euro peggior spesi.
Appoggiai la testa e cercai di dormire un po’ ma il suono delle cinture di sicurezza mi scosse.
Plin
“Possibile? Siamo già arrivati?”
Guardai fuori dal finestrino e sotto di me c’era una terra straniera. Una terra che non avevo mai visto. Fatta di immense campagne dalle più colorite tonalità di verde e giallo. Sembrava una scacchiera naturale un po’ deformata. C’erano campi e campi a perdita d’occhio intervallati da spicchi di bosco e lingue di strade. Questa Francia sembrava così verde! “Ma dove sono le persone?” mi domandai. Parigi è una delle città più popolose d’Europa! E qui vedo solo campagne…
Ma eccole arrivare…
Le case… il verde finì e comparvero filotti di piccole case a schiera. Diventarono sempre più numerose. Sempre di più, fino a coprire anche l’orizzonte. Case su case… Piccole case che poi si trasformarono in palazzi… e le strade diventarono ragnatele. Ora si che la Francia sembrava immensa. Ora si che mi sentivo al di fuori di quel confine immaginario. E la mia ansia stava crescendo all’inverosimile.
Atterrammo… e mettendo il primo piede a terra mi sentii come il primo uomo sulla Luna…
Ero a Parigi!

 

 

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