..cuore.. (III)

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tum tum.. tum tum..

Veloce.. battito dopo battito il cuore faceva il suo corso. Il suo “sporco” lavoro andava fatto. A suo modo, al suo ritmo, non curante del dolore che mi provocava nel petto. Lui lo sa. Lui non sgarra come me. Forse è vero, forse sono io.. e qui potrei anche fare a meno dei forse.

Vivo in bilico.. sempre sul filo del rasoio. Sempre a guardare la vita da un’altra posizione. Distaccato dal mondo. Come un’anima di un altro corpo. Come un essere insensibile. Come un fantasma in una camera da letto che veglia affianco al mio cadavere. Guardandomi.. osservandomi.. dicendomi qualcosa che io certamente non starò a sentire.. I consigli.. Come dice il mio vecchio poeta, è meglio tenerseli ognuno per se. È meglio seguire i propri, giusti o sbagliati che siano. Perché la vita è così.. e nessuno può capirla..

Che strano a volte, vivere.

 

Una.. due.. tre.. quattro..

 Le gocce cadono in un bicchiere una dopo l’altra. Lente.. cadenti.. quasi infinite. Segnano il tempo. Troppo uguali tra loro.. eppure così diverse. Così perfette ai nostri occhi.  Noi non ce ne accorgiamo. Continuiamo a vivere comunque. Anche se il nostro cuore a volte non ce lo permette. Ci sentiamo importanti.. ci sentiamo forti e superiori.. ci sentiamo invincibili. Ma a certe cose dobbiamo per forza arrenderci tutti.

Il tempo.

Il tempo un giorno mi ucciderà. Un giorno conoscerà il mio punto debole. Saprà sorprendermi.. entrare silenziosamente e sconfiggermi. Abbattere la fortezza di ossa e polmoni che ho costruito per tutti questi anni. Il tempo lo sento addosso.

Sembra strano alla mia età. Sembra strano sentirsi come se il giorno dopo fosse l’ultimo. Ogni giorno. Ogni maledetto giorno.. ogni maledetta notte passata a contare i minuti. Guardando l’orologio e scommettendo sull’ora in cui mi sarei addormentato e quella che non arriva mai sta vincendo un po’ troppo spesso. Le notti sembrano troppo uguali.. proprio come le gocce nel bicchiere.

 

Cinque.. sei.. sette.. otto..

I secondi scorrono sulle lancette. Descrivono un cerchio immaginario.. lento e preciso. Semplice in un istante e complesso nel suo insieme. Numeri e tempo si mescolano tra gli ingranaggi di un aggeggio inventato dall’uomo. Sembra strano a pensarci. Il tempo in fondo l’abbiamo creato noi. Siamo stati noi a voler contare ciò che non possiamo nemmeno vedere o toccare. Siamo stati noi a immaginare questo essere sconosciuto. Questa forza sovrumana inarrestabile.

A pensarci.. quanto sarebbe bello fermare il tempo. Quanto sarebbe bello pensare al giorno dopo senza rimpiangere il giorno prima. Perché il giorno in se non esiste.

Vivere senza numeri sul calendario.. feste programmate e ricorrenze prestabilite. Insomma sopravvivere senza contare i ticchettii scanditi da un oggetto inutile…

Magari fermare una lancetta fermasse il tempo per davvero.

 

Nove.. dieci… undici.. dodici..

Parole scritte sulla tastiera. Uniche.. diverse.. decise e a volte dolorose. Utili a ricordare.. e spesso difficili da digerire. Sono armi che chiunque possiede. Chiunque può usare per fare del bene o del male. Soprattutto se ad accogliere quelle parole è un cuore malandato. Già martoriato da anni e anni di ferite sensibili. Ferite d’amore.  Ferite di storie ormai andate  che solo le parole possono ricordare.

Pensieri.. frasi.. ordini.. urla.. grida.. si susseguono in un crescendo di emozioni interiore. Ci sono certe frasi che descrivono sentieri di brividi sul cuore. Si diramano come le vene nel corpo e le senti dovunque. Le parole, anche quelle più semplici, come un “ciao” scambiato dopo anni di assenza, come un sms ricevuto in speciali circostanze con notizie dolorose, fanno male. Le parole fanno riflettere. Fanno pensare che forse qualcosa veramente può ucciderti. Qualcosa di cui non puoi farene a meno…

 

  

Tredici.. quattordici.. quindici… sedici…

Lacrime versate su una scogliera. Fino a farsi odiare dal mare. Fino desiderare il giorno che verrà. Urlando e detestando il cielo scuro. Pensando che in fondo la fortuna gira e rigira.. e prima o poi arriverà anche a chi ne ha molto bisogno. E le lacrime fanno da cornice all’impossibilità di donare un po’ di questa fortuna che possiedo. Donerei anche la mia vita se servisse a qualcosa. Strapperei anche il mio cuore per donarlo.. sempre sperando che in un altro corpo funzioni meglio. Ma non posso.. e me ne resto qui in questo “comodo” riparo con la mia Tennent’s quasi fuori dal mondo, lontano dalle luci e dai rumori artificiali. Coccolato dalle onde che s’infrangono e dal profumo di salsedine. Nell’altra mano il cellulare. Questo aggeggio tecnologico che dovrei eliminare come ho fatto per l’orologio. Così da rinviare i pensieri ad un’altra vita. E scoprire che in fondo la solitudine non fa così tanto male.

 

Diciassette… diciotto… diciannove… venti…

Righe su uno specchio pulito. In cui la mia faccia si riflette nel centro. A volte mi chiedo se sono davvero io quello li. Se davvero il ragazzo di sempre sa quello che sta facendo. Perché la consapevolezza degli errori a volte arriva un po’ troppo tardi e nell’istante del delirio i limiti sembrano scomparire.  

Il corpo sembra immune e immortale. La mente spazia nell’irrealtà. Il cuore sembra battere decentemente. Le mani tremano insicure. Le labbra insensibili e la voglia di correre all’infinito condiscono il tutto. Il viaggio non è importante. Luoghi e persone ci siano purché casuali. Ho tutto.. e penso che forse mi manca qualcosa. Forse un po’ di sana ragione che mi faccia rigare diritto..

..a messo che questa non sia una delle mie solite battute…

 

 

..tum tum..

..tum tum..

 

 

 

 

 

 

Delirio irreale di una mente distorta…

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Macchie di sangue sul freddo pavimento disegnano piccoli ruscelli rossi. Una mano insanguinata pende da un lato del divano malconcio. Dalla mano, cadono una alla volta le gocce rosse che finiscono sulle mattonelle bianche.
Uno spreco…
Così tanta vita che se ne va inutilmente. C’è chi pagherebbe oro per avere quel sangue buttato lì sul pavimento. C’è chi invece pagherebbe per altre cose.. come una dose o una bottiglia di rum.
Chi paga per la vita e chi paga per la morte.
E’ questo il mondo…
È uno strano modo per affrontare le cose. Chissà la mente di cosa ha bisogno per ragionare in modo corretto. Per fare scelte accurate… per non cadere in tentazione. Per morire nel modo migliore possibile. Si può scegliere di morire a questo mondo? Senza sentire il rumore di quel battito di ali che ti urla nella testa e ti dice “vivi”… “sopravvivi”…

Ma torniamo al nostro corpo sopra al divano che gocciola sangue. Lentamente sposto la visuale e scopro piccoli particolari ad ogni movimento. Un tavolino in vetro… quattro bottiglie di birra riverse tra pezzi di carta e sporcizia. C’è del vomito per terra vicino al divano. Ha il colore giallo e una puzza nauseabonda. Forse regalo di quel corpo ancora caldo. E’ notte fonda… e nessuno passerà di lì. Un lampione in strada alterna il suo fascio di luce. Lo si nota da una saracinesca verde quasi tutta abbassata. E’ giusto che le cose finiscano così? E’ giusto che non ci sia una via d’uscita? Un piccolo varco tra la folla che ti porti di nuovo al punto di partenza… Cosa c’è in fondo di così difficile nello stare in vita…

Questa macchina così perfetta chiamata corpo umano vacilla sotto i colpi di una semplice lama. Ed eccola lì l’arma in questione… tutta insanguinata. Non c’è bisogno di fare domande… di cercare i colpevoli… di chiedere confessioni o alibi. Una fotografia basta e avanza per capire lo svolgimento dei fatti. Una fotografia di quel corpo silenzioso adagiato per il lungo sul divano. Con le gambe ritte e i piedi che sbucano dal bracciolo. Ai piedi le sue solite Nike tutte impolverate segno di una lunga corsa in motorino. La tentazione di girarmi e guardare il suo viso è troppo forte ma riesco a mantenermi…
È ancora troppo presto per sapere il suo volto. E’ ancora troppo presto per sapere chi sia. Non voglio ancora voltarmi… Ho paura di ciò che vedrò.
Faccio un giro… Torno dietro e mi siedo per terra, a fianco al vomito, con la mano insanguinata che mi penzola a pochi centimetri dalla faccia. Piccola ed esile… con le dita affusolate. Sul pollice ha un anello e lungo l’indice un rivolo di sangue che rovina nel vuoto.

Tac… tac… tac…

Conto le gocce una ad una. Sembrano tutte uguali… e sembrano non finire mai. Con un dito sfioro il suo indice e raccolgo un po’ di sangue interrompendo la lunga catena. Lo porto alla bocca e l’assaggio sperando che sia solo ketchup frutto di un banale scherzo infantile. Ma le speranze sono illuse quando sento il sapore metallico e la lingua pizzicarmi. E ora l’aria è cambiata… un brivido mi percorre la schiena… sento freddo… forse più di lui… forse più del freddo stesso. E lo stomaco si chiude… non solo per il vomito… e non per il suo sangue ma per il mio che pompa nelle vene a ritmi incredibili.
Il cuore batte. Segue la scena da una posizione nascosta. Sarà solo il mio a battere in questa stanza? Mi chiedo. E attendo una risposta da questo tizio sconosciuto. Fosse solo un segno… fosse solo un attimo… fosse anche un movimento involontario. Lo attendo paziente seduto con le gambe incrociate. Fermo, con gli occhi fissi ed attenti su quella mano immobile. Quella mano aperta come a chiedere pietà. Pietà di una vita dal sapore troppo amaro… con schizzi di follia e botte di felicità. E’ troppo facile scivolare così in basso. Il difficile è restare a galla… magari con l’acqua alla gola e il respiro affannato. Non è sempre facile lo so… sono gli errori che la fanno da padrone in questo mondo. Non c’è una soluzione… e se c’è, di certo non è questa.
Una lacrima mi scorre lungo la guancia. Quella lacrima sembra chiedere perché? E cadendo si unisce alle gocce di sangue sul pavimento.
Non lo so… in questo momento non riesco a spiegarmelo.
Qui con la vita non si può mai dire..
arrivi quando sembri andata via..
Chi sei?
E perché io sono qui?
Ad ascoltare il tuo sangue. Non voglio sapere… Non ho il coraggio di alzarmi. Distolgo lo sguardo ma non fermo le lacrime. Quelle non riesco a reggerle.
Con gli occhi arrossati e la vista annebbiata, le lacrime fanno da lente d’ingrandimento ai sentimenti.
Improvvisamente sobbalzo all’indietro. Spaventato da un movimento istantaneo della mano penzolante. Ho il cuore a mille che cerca di calmarsi.
Era solo un tic nervoso. Solo una scarica di nervi sulla carne e i muscoli hanno fatto il loro dovere.
È La vita… la semplice vita che si muove.
Mi rialzo.
Il volto è coperto da un bracciolo. Non lo vedo. Vedo il suo corpo… le sue gambe.. e il braccio con la mano che termina sul bordo del divano. Faccio un passo ed urto una bottiglia che rotolando finisce conto il muro producendo un rumore infernale in quest’ora tarda. Mi giro e controllo le spalle con la paura che qualcuno mi stia dietro… fosse solo un alito di vento entrato da chissà dove.
Faccio un altro passo, questa volta con più attenzione. Oltrepasso il coltello sul pavimento insanguinato. Lo guardo con ammirazione. Mi sembra di conoscerlo. Ma sarà solo un dettaglio. Un po’ tutto qui mi è familiare e non riesco a capire il perché. E mentre le domande si affollano, percorro lentamente la linea del divano. Fino a voltare l’angolo…
E’ giunto il momento…
Voglio sapere chi sei!
Questa è la fine di questa strana storia.
Respiro profondo…
Mi giro…
Spalanco gli occhi…
Un grido soffocato mi muore in gola e con la mano mi tappo la bocca come per evitare di dire qualcosa. L’altra mano si stringe in un pugno quasi a farsi male. Quasi a conficcare le unghie nella pelle. Spero con tutto me stesso che quello adagiato sul divano sia solo uno specchio che riflette il mio volto. Ma non è così… Perché quel corpo ha le mie stesse sembianze. Ha i miei capelli… i miei occhi… la mia pelle. E quello per terra credo che sia il mio sangue. Non posso crederci… non riesco a concepirlo. Che ci faccio lì?
E perché sono quasi in fin di vita?
Sono allibito… Ma la forza piano piano si riprende i miei muscoli, al momento invasi dalla paura. E subentra la rabbia…
Salto sul divano…
Prendo le spalle di questo corpo e cerco di rianimarlo scuotendolo.
“Svegliati cavolo! Svegliati!”
“Dimmi perché??”
Non risponde. Ha gli occhi bianchi. Le pupille sembrano sparite. E non fa nessun cenno di resistenza. L’anima sembra aver abbandonato questo corpo. Il mio corpo.
“Svegliatiii!!”

Boomm boomm boomm

Sento bussare fortemente alla saracinesca. Mi volto di scatto… e…

E mi sveglio all’improvviso…
Apro gli occhi e guardo il mio solito soffitto bianco. La mia tenda che scende da un lato… e i miei poster appesi alle pareti. Respiro forte… Ho la fronte sudata e il mio corpo è tutto un tremore.
Sono nel mio letto. E soprattutto…

Sono ancora vivo…

Piove… (Sara II)

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…E le gocce di pioggia continuavano a battere sul vetro di questo mio posto finestrino. Continuavo a guardare fuori nonostante avessi terminato il mio hamburger e come si era solito in questi posti, bisognava sloggiare. Ma restavo ancora lì che giocherellavo con la cannuccia della Coca Cola. Già… la Coca Cola. Chi mi conosce almeno un po’ si sarebbe già chiesto perché mai avessi preso la Coca Cola? E secondo me dovrebbe chiedersi mille altre cose. Ma a ora non sono in vena di divagazioni esistenziali.
Ero lì, seduto al mio posto, con il cartone dell’hamburger ancora caldo e qualche patatina sparsa qua e là nel vassoio rosso. La pioggia continuava a cadere… seppur incerta. I rigagnoli d’acqua sul vetro sembravano piccoli fiumiciattoli che si congiungevano alla base. L’acqua ha intrinseco odore di fantastico. Lascia immaginare la purezza e l’unicità di un elemento che è alla base della vita. In quel momento mi chiedevo come facesse la pioggia a sapere dove andare. Mi spiego meglio. Quando una goccia d’acqua scorre lentamente sul vetro, sembra già sapere la strada da percorrere. Sembra avere un destino già scritto che nessuno può interrompere. Anche se piazzassi un dito in mezzo, la goccia ci scorrerebbe attorno e continuerebbe giù fino alla sua meta. Niente potrebbe fermarla… ne lei, ne le milioni di sorelle gemelle che s’infrangevano su quel vetro. C’è chi ci vedrebbe milioni di lacrime cadute da un volto immaginario. Un volto pieno di dolore e amarezza… sconcertato dal tempo nebbioso della propria vita. E un po’ di nebbia l’avevo dentro anche io. Il mio cuore non andava… si fermava… correva… giocava a mosca cieca… e mi faceva passare le notti insonni. Volevo ricominciare dal presente.
Mi alzai e mi sistemai. Infilai il mio anello al pollice e presi il mio giubbotto di pelle dalla sedia. Svuotai il mio vassoio nel cestino stando attento a non fare troppo casino. Trattenevo in mano la mia Coca Cola ancora piena per metà. La portai via con me. Appena fuori, chiusi la porta a vetri e diedi una lunga sorsata alla cannuccia.
La strada era disseminata di pozzanghere che riflettevano le varie luci della città. Iniziai a camminare addentrandomi nella notte di questo mondo fantastico…
 
 
 
Continua…
 
 
 
– Dai ora smettila… – le dissi con dolcezza sfiorandole il viso. Lei si voltò come per non farsi vedere da me in quello stato. I suoi capelli si mossero con lei e qualche lacrima svanì luccicosa nell’aria. Lo sapevo… era di nuovo colpa mia. L’avevo scossa con i miei soliti pensieri. La mia solita vita difficile anche da raccontare. I miei guai, i miei casini, le avventure in cui mi cacciavo sempre. “Non so se ne riuscirò a venir fuori” le avevo detto. E questa non era una menzogna. Non sapevo proprio da che parte cominciare ed in mente mi girava l’idea di come finire. “Promettimi che non farai stronzate…” m’intimò lei con gli occhi arrossati. “Te lo prometto… ti prometto che qualsiasi cosa accada ne uscirò vivo”. Ed in parte mantenni quella promessa.
 
Volsi lo sguardo al cielo. Il freddo si faceva più pungente e le gocce di pioggia cadevano con più coraggio. La guardai… Aveva indosso il mio giubbotto di pelle. La superficie lasciava scivolare via le gocce d’acqua senza trattenerle. Io invece, sentivo l’acqua penetrarmi la felpa ed arrivarmi alla pelle. Amavo la pioggia… e amavo anche sentirla addosso. Ovviamente non uscivo in strada tutte le volte che pioveva! Ma quelle volte in cui, costretto dagli eventi, ero rimasto sotto la pioggia mi piacque parecchio. Si creava una strana atmosfera… difficile anche da descrivere. In quel momento ti senti solo… isolato. Le altre persone corrono con i loro ombrelli in cerca di un riparo. E la pioggia è lì… che crea una sorta di scudo immaginario tra te e il mondo. Senti l’acqua bagnarti il viso… il capelli… le mani… Senti le pozzanghere formarsi piano piano lungo il tuo percorso. Senti il rumore dell’acqua che cade. Una giostra… un’armonia… una poesia vissuta. E lì… chiudi gli occhi lasciandoti trasportare dalle emozioni.
Ma un brivido ti riporta alla realtà. Alla vita quotidiana… alla consapevolezza che la pioggia in fondo è solo pioggia e devi andartene al più presto. 
– Dai.. facciamoci un giro… – dissi.
La vita è come una melodia musicale. A volte suona note cupe e basse… contorcendoti il cuore in spasmi dolorosi. Poi, dopo un po’, si passa gradualmente ad arpeggi più alti e melodiosi. È un saliscendi di emozioni. Una volta si è giù… e poi di nuovo su. Questo era il teorema di quel periodo di vita. Quel pezzo di strada dissestato su cui mi accingevo a camminare. Un po’ come questo scomodo viottolo ciottoloso.
Un colpo di vento ci riportò il sorriso. La pioggia ci batteva violentemente sul volto. Eravamo in mezzo al corso principale e cercavamo un riparo da qualche parte. Lei sorrideva divertita dalle continue corse a destra e sinistra per ripararci sotto i balconi e le pensiline.
Le tristi parole sembravano scomparse dai suoi occhi. Non pensava più a me… o almeno non lo dava a vedere. Non so se è cosa comune alle donne interessarsi alle storie malinconiche e incasinate. Può darsi che sia la tanto nominata curiosità femminile. Non saprei. Magari Sara in quel momento mi voleva bene davvero. Quelle cose che le avevo detto e rivelato solo a lei, magari le sentiva, le capiva, le scendevano in fondo al cuore e s’immaginava nella mia situazione. Come avrebbe affrontato i miei problemi? Sarebbe scappata come me? Li avrebbe affrontati? Oppure cosa?
“Cosa?”… era la domanda chiave a quel tempo.
Oggi mi sarei dato una risposta empirica… ossia quantificare il problema e pensare ad una strategia. Analizzare gli elementi, studiare i fondamentali, formulare ipotesi. Ma qui niente matematica… niente economia… niente formule ne grafici. Solo parole… fatti… e storia.
A ripensaci ora… a distanza di cinque… sei anni… magari ci rido anche su. Però, ripensare agli stati d’animo, mi faceva capire quando davvero fossero stati pesanti quei giorni. Quando le forze mi abbandonavano e quando mi richiudevo nella mia camera seduto per terra a guardare il soffitto. Inerme… Le giornate sembravano interminabili a volte. Era come guardare un fiume in piena dall’alto di un ponte che portava via quel che restava della tua vita. Un fiume proprio uguale a quello che vedevo. Su quella strada che affacciava sull’acqua. …è c’è qualcun’altra qui con me… direbbe qualcuno. Un’amica a cui ho confidato tutto. A cui ho detto che lei era stata qui, insieme a me a vedere lo stesso fiume. E ne ridevamo… di un giorno passato insieme.
E il mio cuore urlava a gran voce la sua presenza. I suoi occhi… il suo volto… i suoi morbidi capelli… E so che sbagliavo ad attaccarmi a quelle illusioni. So che non potrà più essere così. Il passato è già stato scritto… e può solo essere ricordato.
 
Mi appoggiai con le braccia al parapetto. Il mio sguardo fissava l’orizzonte. Sotto di me, come ho detto, c’era il fiume. E la pioggia continuava a battere.
– Dai… ora non pensarci più… – disse Sara avvicinandosi.
– La vita continua… e il presente è fatto di mille realtà… –
 
– Hai ragione… ma quando c’è troppa realtà…
non resta altro che attaccarsi alle illusioni. –
 
 
 

Forse ci sentono lassù…

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E un biglietto giaceva sotto il mio cuscino…
 
L’avevo da poco accompagnata al piano terra del mio palazzo… e da lì se ne sarebbe andata a casa.
– Mi dispiace ogni volta andarmene… – fu la sua frase di chiusura. Perché non voleva mai tornare a casa. Non voleva mai tornare da se stessa. “Purtroppo… si viene e si va… in questa commedia… che c’è chi la spiega… e c’è chi vive e va…” Un ultimo bacio… prima della notte che ci avrebbe fatto rincontrare nei sogni. E la macchina andava… lontano da me… lontano da noi… Lontano da questa sera… Lontano da ciò che avevamo sognato… Lontano da luci e suoni di questa notte, di questa vita…
 
Sogni di rock ‘n roll
 
– I biglietti li hai presi? –
– Certo… sono qui! –
– Ok… andiamo! –
 
Quella sera era una serata speciale. E lo si capiva dalla luce che brillava nei miei occhi. Ero emozionato. Era da un bel po’ che non capitava… e per un dolce destino dal sapore di fragola, quel momento doveva ripetersi, perché certi momenti ritornano, con un po’ di ritardo, ma son lì. Dovevo rivederlo, anche se io non avevo fatto niente per farlo… Anche se io ero rimasto lì a guardare…  
– Grazie per i biglietti bambolina… – le dissi mentre la guardavo negli occhi.
Lei continuava a camminare. Mi sorrise e mi strinse più forte la mano. Prendemmo la metro. Direzione San Siro. Di lì a poco, si sarebbe esibito quel cantante che avevo impresso nell’anima. Quel cantate che vestiva la mia pelle come un vestito su misura. Quel cantate di cui mi fido, che non mi tradirà mai… che raccontava la mia vita attraverso la sua… regalandomi un sogno da custodire ogni volta che ne avevo bisogno.
Ci sedemmo.
La metro non era molto affollata. C’era un po’ di gente sparsa in giro, ed intravidi negli occhi di qualcuno la mia stessa meta. Perché quell’odore era inconfondibile… quella passione si sentiva a pelo. Quelle canzoni le potevi vedere solo negli occhi di sa… di chi sa capire… di chi sa intendere… di chi sa ascoltare.
“Chissà cosa lo rende speciale?”  pensai, e subito dopo sorrisi. Perché a quella domanda  potevo dare molte risposte. Perché quegli occhi neri, i capelli mossi e quella voce roca messi insieme alle sue parole, davano un qualcosa di unico. Un qualcosa che solo certe persone potevano capire. Che una canzone non è solo musica e testo… ma è vita… la tua vita o di qualcun altro, ma pur sempre vita. Feci respiro profondo e guardai la fermata a cui eravamo arrivati. C’eravamo quasi. Di fianco a me la mia dolce compagna. Chissà se attendeva anche lei con impazienza.  I suoi occhi erano vaghi, ogni tanto incrociavano i miei. Le passai una mano intorno al collo e l’avvicinai a me. Come per farle sentire il battito del mio cuore. Quel piccolo organo che non smetteva mai di funzionare. Anche se a volte sembrava un po’ arrugginito e faticava ad amare. Per fortuna che avevo lei accanto che mi capiva… e capiva il mio cuore un po’ malandato, che aveva troppa paura di crescere.
Arrivammo…
Iniziava il cammino fino allo stadio. Non sapevo molto bene dove si trovasse. Ma la solita regola dei concerti valeva anche lì. “Seguire la folla”, perché la folla in fondo, sa sempre dove andare.
E c’incamminammo seguendo quella lunga scia di persone che mi ricordava vagamente il Campo volo… ma lì era un’altra storia. Li sapevo dove andare e non lo feci perché aspettavo sotto uno stand l’arrivo di qualcuno… mentre guardavo la folla… mentre scrivevo un’altra storia, mentre guardavo il Campo Volo da lontano…
 
Ora da lontano guardavo il San Siro. Era stupendo… era grandioso come colui che ci avrebbe cantato all’interno bussando con forza alle nostre menti per farci capire che, oltre a noi, c’era anche lui…
Cercammo il nostro ingresso. Camminavamo tra bottiglie di birra e cartacce. Si vedeva che da lì, di gente ne era passata prima di noi. Faceva caldissimo. Cercai in cielo qualche nuvola ma non ne trovai. Mi rassegnai. Per fortuna che tra un po’ sarebbe scesa la notte e con lei, tutti i problemi sarebbero spariti.
– Vieni… è di qua! –
Entrammo attraverso il nostro varco. Dopo qualche minuto per trovare i posti, ci sedemmo comodamente tra le persone già presenti. Lo stadio si stava riempiendo  piano piano ed era già a buon punto. Guardai il palco e qualcosa non mi tornava. Ai due lati c’erano delle pale eoliche e in basso dei finti pannelli solari. Mentre dietro s’intravedevano delle fittizie centrali per il biogas.
Alchè pensai: – È?-
Ligabue ne trovava sempre qualcuna in più per stupire. Oppure per mandare un suo messaggio, un messaggio che condivideva a pieno. Aveva molto a cuore questo pianeta… e sapeva che nel nostro piccolo, ognuno di noi, qualcosa la poteva cambiare. Perché tanti piccoli tasselli formano un grande puzzle… Ma se manca qualcuno, la figura può risultare sbiadita come il nostro mondo che ogni tanto fa i capricci. E noi, pur sapendolo, non facciamo niente. Restiamo nella nostra piccola indifferenza mentre le cose vanno come non devono andare. Doveva essere questo il motivo di quella scenografia, o forse no. Sicuramente, Ligabue, voleva che ognuno di noi capisse l’importanza del mondo in cui viviamo.
E partì il concerto. Così, con quella canzone con cui ogni notte tornavo a casa. Che mi “viziava” lo stereo in fase “ripetizione”. Che mi cullava prima di andare a dormire. Perché quelle notti… quelle Certe notti, avevano il loro sapore unico. Il sapore di una macchina, di un pieno di diesel e di libertà.
E si passò al Centro del mondo. Mi sarei aspettato, come un bel po’ di persone, che avesse iniziato con quella canzone. Ma invece non l’ha fatto…  perché ad essere scontati non ci si diverte. Come quelle parole: un viaggio potente nel cuore del tempo… andata e ritorno… Guardai la mia bambolina e l’abbracciai, perché quella canzone era diventata un po’ nostra. Quelle parole piano piano c’erano entrate dentro ed avevano smosso un bel po’ di cose.
E canzone dopo canzone mi salirono i brividi a fior di pelle. E per poco, a stento trattenni le lacrime. Perché dentro avevo un miscuglio di carne ed ossa che stava ribollendo. E guardavo la folla, perché anche quella m’affascinava. Vedere tutte quelle persone lì, che si muovevano, che saltavano insieme a me, che indicavano il cielo ogni volta che ce n’era bisogno… e che ascoltavano, silenziosi come solo uno stadio può esserlo, le parole di quel piccolo uomo visto da quassù. E la sua chitarra viaggiava.
– Voglio salutare un mio grande amico… – disse Ligabue
Subito dopo partirono quelle parole che aveva preso in prestito da “Guccini”.
 
 
“Ho ancora la forza…
di stare a raccontare…”
 
 
E ricordai…
Quando quelle parole furono “mie”. Quando quella canzone l’ascoltavo mentre faticavo a tornare al mondo sempre vivo. E nonostante tutto, ero sempre riuscito a scamparla… con qualche ossa rotta e qualche bernoccolo qua e là.  Sempre e comunque su questa strada… guardando negli occhi quegli amici che a quel tempo mi dicevano: “ci vediam più tardi” perché non ero ancora uno di loro. Ed ogni tanto la mia forza svaniva, quando mischiavo le parole con due pacchetti al giorno… buttando la mia vita in qualcosa di peggiore..
E fortuna che ora ero lì…
ed avevo ancora la forza di stare a raccontare le mie storie di sempre…
Quel cantante mi ha accompagnato in tutti i momenti della vita… belli e brutti… Sempre cosciente del fatto che la vita ogni tanto deve esser presa per la coda…
Come se non bastasse la lunga scia di ricordi, la scaletta girò su ho messo via. L’unica canzone che sapeva come prendere i miei momenti più bui… sapeva dov’erano… e conosceva i perché.
Il pubblico prese in mano gli accendini e il San Siro si riempì di piccole luci che davano un effetto straordinario a quelle parole.
 
 
“Ho messo via un po’ di consigli
dicono è più facile
li ho messi via perché a sbagliare
sono bravissimo da me.”
 
E Ligabue dimostrò di saperci fare. Dimostrò che bastavano pochi arpeggi… un microfono ed una voce, per far stare bene un bel po’ di persone. Tra cui me…  ed aveva anche ragione quando poco dopo disse che: c’han concesso solo una vita… soddisfatti o no… qua non rimborsano mai…
Era solo, in mezzo a quel palco che si stagliava tra quelle mani che lo indicavano. che lo volevano toccare… volevano sapere come faceva…
“Come si fa a far sognare?” me lo chiedevo anche io… mentre una lacrima faticava a scendere.
 
Non è tempo per noi…
E forse non lo sarà mai…”
 
E quando finì la canzone, Ligabue prese in mano un specchio rotondo. E come un “riflettore umano di luci” portò la sua linfa ad ogni spettatore. Illuminò ogni posto di quel “piccolo” stadio. Ad uno ad uno, ogni ragazzo o ragazza fu illuminato da quel bagliore di luce. Ed io non fui da meno. Perché anche se non mi conosceva, non si scordava mai di me. Anche se ero confuso tra le gente, mi ha visto e mi ha illuminato. Mi stupì anche questo. Mi stupì come Ligabue, a suo modo, ha voluto rendere partecipe ognuno di noi… ogni mano alzata… ogni “testa sognante”.
E seguendo la scia dei sogni, perché non continuare con piccola stella senza cielo? Che questa volta era condita dall’apparizione di una coraggiosa ballerina appesa su di un filo che si arrampicava e creava acrobazie in cielo… proprio lassù… dove brillava la nostra piccola stella. Lo stadio iniziò a cantare. Perché quelle parole le conoscevano tutti. Quelle parole lo avevano reso famoso. Quella canzone non mancherà mai ad un  suo concerto. 
Come non mancherà mai: Urlando contro il cielo.
E si ballò. Lo stadio era in delirio. Le urla quasi coprivano la canzone. Le persone saltavano nei loro piccoli posti andando a tempo di una canzone che ha cent’anni almeno… Una canzone che cacciava fuori tutto quello che eri…
 
“Come vedi sono qua:
monta su, non ci avranno
finché questo cuore non creperà
di ruggine, di botte o di età.”
 
 La batteria andava. Il rullante e la gran cassa si facevano sentire, mentre la gente “correva” assieme alle parole di urlando contro il cielo… sperando che forse qualcuno lassù ci avrebbe sentito, senza riderne di noi… guardando ed aspettando, da una posizione distaccata, che i sogni degli altri si avverassero.
E ancora… ancora…
Ligabue aveva voglia di farmi perdere la voce quella sera. Ma io non mollavo… le cantavo tutte a squarciagola, per farmi sentire un po’ più degli altri. E saltavo anch’io… e ogni tanto lo indicavo con il dito, come per far capire da chi provenivano i battiti del mio cuore.
 
E scese la notte. Le persone si sedettero ognuno al proprio posto. Tutti guardavano il palco con la speranza accesa che Ligabue ritornasse. Perché non poteva andarsene così… non lui. Ci voleva quel tocco finale. Quella piccola magia prima di andare a dormire.
E come poca gente sapeva fare… ci diede la buona notte a suo modo. Non solo a noi presenti, un po’ a tutti… vivi o morti, di questo piccolo paese.
Buonanotte all’Italia…
 
E lì sì, che le lacrime scesero. Mi stavo cullando su quelle parole alla ricerca di quel ricordo mai sbiadito di mio nonno. Uno che doveva ancora insegnarmi molte cose ma se n’era andato via troppo presto per poterlo fare. Regalai la mia buonanotte anche a lui. Che sicuramente l’avrà ascoltata. Perché lassù non sfugge mai niente. Nemmeno la mia lacrima scesa e subito nascosta. Chiusi gli occhi per un istante… la musica mi coinvolse… mi prese tutto… ed alla fine… nell’ultimo giro di note, scoppiarono fuochi d’artificio digitali che estasiarono la folla… mentre Ligabue spariva lentamente da quella porta da cui era entrato… in grande stile…
come solo pochi sono in grado di fare…
 
 
 

Come Pesava Quello Zaino Sulle Spalle Per La Strada Della Scuola E La Maturità…

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Spam..

E la porta sbatté dietro le spalle di mio padre. Uscì con il suo solito nervosismo isterico che ormai fa parte integrante del suo carattere. Io ero lì e mia madre seduta sul divano che guardava la tv. Ennesimo litigio su futili motivi, era il tema della serata. Non ce la facevo più e avevo iniziato a discutere con mio padre in seguito ad una delle sue solite provocazioni. Ma lui come al solito non comprendeva mai il senso delle mie parole e si attaccava sempre alle piccole cose. Elementi marginali di una discussione incentrata su di lui. E rinfaccia… rinfaccia… Ti rinfaccia i tuoi errori, casomai capitati anni addietro, quando avevi ancora un’età poco matura.
Non lo sopportavo più… era un odio cresciuto negli anni. Di quelli radicati dentro la propria anima che non si staccano con una semplice “giornata felice”.

Non erano passati nemmeno due minuti da quando mio padre era uscito.
– Non vedo l’ora di uscirmene da questa casa! – dissi a mia madre.
– Ciro… – disse lei quasi sussurrandolo.
– Si! Hai sentito bene… non ce la faccio a stare ancora qui! –
– Perché? –
– Perché?! Il perché è appena uscito da quella porta! – dissi alzandomi con l’aria alquanto irritata.
– È fatto così… Ciro lo sai… –
– Beh… è fatto male… –
Stavo iniziando a innervosirmi. Tutto l’odio che provavo verso di lui iniziava a ribollire dentro di me, così me ne andai verso la mia camera, ma prima di uscire dalla cucina dissi:
– Mà… la famiglia è un posto in cui uno si deve sentire tranquillo e felice altrimenti come fa ad affrontare il mondo esterno? Non mi piace stare qui… non so che darei per starmene un po’ in pace… Si… ma ora basta… ne ho piene le scatole di discorsi… domani devo fare un esame… e non ho voglia di avere la testa occupata da queste stronzate… dopodiché me ne andrò il più lontano possibile! Notte… –
Mia mamma rimase per un attimo senza parole. Aveva un volto triste. Non dovevo prendermela con lei. Non centrava niente. Lei, come tutte le mamme voleva stare con i propri figli e sentirsi dire quelle parole da me, le fecero male. Io sono il suo primo figlio. Mi ha sempre trattato come una persona cosciente e mi ha sempre donato la sua fiducia. Sa che in ogni situazione sono capace di prendere la strada giusta e che ho principi che nessuno mai mi toccherà. Crede molto in me e non ha smesso anche quando, alle volte, la facevo arrabbiare.
Non glielo mostro, ma voglio molto bene a mia madre e credo che sarà la cosa che mi mancherà di più quando me ne andrò da qui… e credo che per lei sia lo stesso.


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Flashback…

Ero sul treno Eurostar dell’una e mezza diretto per Milano. Ero seduto comodamente al mio posto e ripensavo a ciò che avevo appena fatto. Cercavo di discolpare me stesso.
“In fondo sto fuori solo un paio di giorni… Ora li chiamo e glielo dico..”
Ero uscito di casa senza dire niente a nessuno ed ero salito sul primo treno diretto per Milano. Molti si chiederanno “sei scappato di casa?” Beh… in un certo senso e per certi versi direi di si. Ma se volevo veramente scappare di casa, vi assicuro che l’avrei fatto in maniera definitiva. Questa, invece, era una sorta di gita fuori porta. Molto fuori porta considerate le 6 ore e mezza necessarie per arrivare a Milano. Ma i motivi di questa meta, sinceramente ora non mi va di riportarli… Come sapete, le parole fanno male ed io ne so qualcosa. Posso dire solo che ero andato a trovare una persona molto speciale.
Erano circa le 2 del pomeriggio e il treno andava verso la stazione di Roma. Prima di uscire avevo detto a mia madre che pranzavo a casa di Enzo, come spesso facevo. Avevo preso la mia vespa ed ero uscito di corsa con uno strano zaino in spalla. Mia mamma infatti mi guardò con aria sospetta. Quella borsa la diceva lunga perché non ero solito usarla quando uscivo con Enzo. Comunque, ero uscito così frettolosamente che non le diedi nemmeno il tempo di aprire bocca.

Roma Termini

Il treno si era fermato in stazione. Le porte si erano aperte e la gente stava incominciando a scendere. Presi in mano il mio cellulare. Era spento. L’avevo spento per evitare che qualcuno mi cercasse.
Lo accesi.
Il treno attendeva…
Guardavo il cellulare. Immobile, assorto nei miei pensieri.
Brivido.
Iniziò a squillare. Avevo un po’ di timore a rispondere ma appena vidi lo schermo mi passò tutto… era Enzo.
Risposi.
Enzo era l’unica persone che sapeva tutto.

– We! Come stai? E soprattutto dove stai? –
– Ciao Enzo… tutto a posto… sono a Roma… –
– Ciro… tu sei pazzo! –
– Già… –
– Senti… la vespa è qui da me… tutto bene… ma… –
– Ma? –
– È venuto tuo padre poco fa… era molto incazzato perché non ti trovava… –
– Cavolo! –
– Mi ha fatto mille domande… su dove fossi e sul perché la vespa fosse da me… –
– Che gli hai detto? –
– Niente! Tranquillo… ma… chiamalo… ok? –
– Ok Enzo… grazie… –
– Di niente Cì… e torna presto… –
– Non ti preoccupare… –
-Senti… me lo posso fare un giro con la tua vespa? –
– Assolutamente no! –
– Ok, c’ho provato… –
– Ciao Enzo… –
– Ciao Cì! –

Avevo riagganciato da poco che subito squillò di nuovo.
Questa volta era mio padre.
Risposi dopo un paio di squilli.

– Pronto… – dissi… ma non riuscii a finire la frase che mio padre iniziò ad attaccare.
– Ciro! Ma dove cazzo sei? –
– Roma Termini… sono su un treno diretto per Milano… –
Mio padre sembrò scoppiare.
– Scendi subito da quel treno!! MUOVITI! Ma come cazzo ti è venuto in mente!! MA lo sai quanto è lontano MILANO?!!? Muoviti! Scendi a Roma… ti vengo a prendere con la macchina… in due ore sono lì… –
– No papà… –
– Mannaggia **** ******! Ma come cazzo devo fare con te? Forza SCENDI da quel treno!!
– No…- dissi.

E Parlava bestemmiava, alzava la voce, faceva domande assurde e mi pregava di scendere. Ed io lo lasciavo fare. Non me ne importava gran che… e  più continuava e più ero fermo sulla mia decisione. Fino a quando…

– …Guarda… hai fatto piangere anche tua madre! Ti rendi conto? Tieni… ora te la passo! –
A quelle parole mi salì il cuore in gola. “Cavolo Mamma”
La mia mamma era in pena per me.
– Pronto… -disse lei con un flebile tono di voce.
– Mà… –
– Ciro… ma che hai combinato? – disse cercando di mascherare le lacrime nella sua voce.
– Tranquilla mamma, sto fuori un paio di giorni… torno domenica sera… –
– Ciro… – non riusciva a parlare. Le lacrime le bloccavano le parole.
Stava male.
Ed ora anche io. “Certe cose non si fanno”.
Eppure mia mamma non è mai stata una di quelle mamma oppressive, nel senso che mi ha lasciato sempre molta liberà. Non avrei mai pensato di farla soffrire tanto. Pensavo che si sarebbe incazzata, come mio padre, e che fosse finita lì…
Ma invece era lì… Ad ascoltare le mie parole.
Le parole di suo figlio che s’era allontanato da casa più del dovuto.
– Mamma… tranquilla… – cercavo di confortarla.
E lei prendendo un po’ più di sicurezza iniziò a farmi le solite domande da mamma.
– Almeno hai mangiato? –
– Si mamma… qualcosa sul treno… –
– Stai bene? –
– Si mamma… –
– Ma dove dormirai? Cosa farai? Quando torni? –
– Mamma… devo andare… il treno sta ripartendo… –
– Chiamami appena arrivi… capito? –
– Ok mamma… –
– Ciao… –

E il treno ripartì… ed io tornai a sedermi al mio posto guardando la stazione che piano piano ci lasciavamo alle spalle.
Triste…
Perché avevo capito che quella mamma, in fondo, ci teneva molto a me…


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(Trigonometria)

31 maggio

Era l’ultimo giorno di un mese passato interamente a studiare. Quella mattina c’era la prova scritta di matematica  dell’esame d’idoneità. Avevo già fatto quella d’italiano e di quella latino senza problemi.  La prova di matematica invece era diversa. Lì la concentrazione dev’essere massima e devi saper eseguire tutti i passaggi, perché se ne sbagli uno, quelli successivi andranno di conseguenza. È un po’ come nella vita, se fai uno sbaglio, continui a sbagliare e gli altri non capiscono, perché spesso non vogliono saperne dei tuoi sbagli e sparano giudizi sui tuoi errori… e pensano che continuerai a farli per tutta la vita. L’unica via di uscita è cambiare vita, voltando pagina e ricominciando l’esercizio daccapo, sperando che la tua penna scriva ancora. La vita può essere paragonata ad una disequazione. Fai tutti i passaggi, semplifichi tutto e metti in evidenza le cose comuni. Ma alla fine, non sempre puoi trovarti con il delta maggiore di zero… e ricominci daccapo… cambiando le variabili… sostituendo le incognite e cambiando verso… cercando di uscirne da quella impossibilità. Ma non sempre ci riesci nella vita.
E il mio foglio era ancora bianco. Aspettavo che arrivasse il mio professore di matematica a consegnarmi le tracce. Ero calmo, almeno credevo, perché la penna nella mia mano continuava a girare vorticosamente. Guardavo la finestra cercando di non pensare a niente. Il tempo era bello e il vento scuoteva i rami degli alberi in continui ed alternati movimenti.
Ero solo in quella stanza, che a giudicare dagli scaffali pieni di libri sembrava proprio la biblioteca della scuola. In mezzo c’era un grande tavolo con intorno 5 sedie nere delle quali una era quella su cui ero seduto. Mi alzai, volevo camminare un po’ e iniziai a girovagare per la stanza.
Guardai gli scaffali pieni zeppi di libri. I miei occhi si soffermarono su quello di letteratura latina. Scorrevo l’ordine degli autori e iniziai a fare commenti su ognuno di loro…

Cicerone: “Cicerone… Cicerone… se potessi maledire qualcuno vissuto nell’antichità… tu saresti il primo della mia lista. Non puoi nemmeno immaginare quante sono state le ore passate a cercare di comprendere il senso delle tue frasi. Si vabbè… all’epoca eri un ottimo oratore… spero che almeno il tuo pubblico ti comprendesse.”
Orazio: “Il grande poeta del carpe diem che inneggiava alla fugacità della vita… mah… chissà quante volte sarà scappato di casa da piccolo. Dicono che non si sia mai sposato e che abbia dedicato tutta la sua vita alla letteratura… beh… contento lui!”
Catullo:  “Magnifico poeta d’amore… quello del celeberrimo odi et amo… che tutti conoscono… ma che  solo pochi sanno come continua finisce!”
Odi et amo.
Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Che tradotto è:
Ti odio e ti amo.
Come possa fare ciò, forse ti chiedi.
Non lo so, ma sento che accade e me ne tormento…”

– Buon giorno… –
Sentii una voce dietro di me e mi girai all’istante come se stessi facendo qualcosa di non permesso. Era il mio professore di matematica che aveva poggiato un malloppo di fogli sul tavolo.
– Buon giorno… – risposi con educazione e mi msisi a sedere.
Il professore mi guardò e fece un sorrisetto, continuando a sfogliare delle carte cercando qualcosa. Lo scrutai con attenzione. Ero calmo. Il foglio bianco era davanti a me e la penna nella mia mano. Mancava solo lui. Mancano solo le sue tracce. Chissà cosa mi avrebbe dato… Ero pronto a tutto… o quasi… ma era impossibile che mi avrebbe dato qualcosa sulla fisica quantistica o su qualche teorema vettoriale. “Cerchiamo di rimanere con i piedi per terra… eh?”
– Ecco Ciro… queste sono le tracce… 3 ore di tempo… la penna ce l’hai… tutto a posto… – disse facendomi un breve sorriso mentre mi passava il foglio.
Cominciai subito a ragionare leggendo uno dopo l’altro gli esercizi.

Disequazione Trigonometrica
Disequazione logaritmica
Equazione Esponenziale
Problema di trigonometria
Sistema di equazioni parametriche
Algoritmo d’informatica

Mha… all’apparenza sembravano difficili. Ma non era così. Infatti, uno dopo l’altro, feci tutti gli esercizi con tranquillità lasciando per ultimo la Disequazione Trigonometrica. Perché come sapete, le cose belle, si lasciano alla fine… belle e impossibili!
E dopo un paio di passaggi…
Non riuscii più a continuare. Mi ero bloccato.
“Il tutto sta nel semplificare le varie funzioni trasformandole in altre simili in modo da avere una disequazione omogenea… Beh… facile a dirsi! Cosa trasformo qui… vediamo…”
Giravo e rigiravo quell’esercizio. Sopra, sotto, destra, sinistra… Cancellavo, riscrivevo… ma niente…
C’era qualcosa che non andava. Qualche piccolo cavillo si nascondeva…
E finalmente lo trovai..
Era un piccolo “1” che restava lì immobile.
“Poverino… non dava fastidio a nessuno… ma se lo porto di qua.. e lo trasformo… ottengo…”
E via…
La penna scorreva velocemente. I numeri venivano facili…
Le operazioni si susseguivano sempre più semplici… segno che la fine era vicina… ed infatti…
Eccola lì…
Il compito era finito. Tutto era al suo posto. Mi girai verso il professore cercando il suo sguardo. Ma lui era affacciato alla finestra che guarda all’esterno fumando una sigaretta.
Quel professore era sempre stato un assiduo fumatore di Marlboro rosse rigorosamente da 20! E portava sempre con se un pacchetto di riserva nel suo borsello, perché non poteva restarne senza.
Si girò, mi guardò e disse:
– Hai finito? –
– Si… –
Guardò l’orologio e venne verso di me. Era un po’ stupito dalla mia rapidità. In fondo non era passata nemmeno un’ora..
Era dietro di me. Avevo il foglio davanti con gli esercizi svolti. Diede un rapido sguardo.
Poco dopo, si allontanò dicendo: – Ricontrolla… –
– Ok… – dissi pensando che me lo dicesse solo perché era troppo presto per consegnare.
Quindi ricontrollai velocemente e lasciai passare un quarto d’ora facendo disegnini sul banco.
– Ho controllato… – dissi con la fretta di consegnare.
– Hai corretto? –
– mmm… no… –
– C’è un errore… – mi disse.
– Non so dove sia… –
Il professore si girò verso di me con aria benevola.
– Controlla la disequazione logaritmica… –
Abbassai subito lo sguardo sul foglio cercando quell’esercizio. L’avevo fatto per primo perché era il più semplice. Avevo commesso un errore?
Controllai i passaggi:
Dominio… ok
Verso… ok
Incognite… ok
Base?
”Cavolo! la base del logaritmo è minore di zero!”
“Come ho fatto a non notarlo! È una disequazione… quindi si cambia verso…”
Ecco, avevo trovato l’errore. Tutto regolare… o almeno speravo che fosse così.
Ricopiai in bella… e consegnai. Subito il professore aprì il mio compito. Controllò quell’esercizio e fece un sorriso come per dire: “bravo…”
– Ok… puoi andare… ci vediamo per gli orali… preparati… –
– Va bene professore… arrivederci… –

E lo lasciai così.. seduto in quella stanza che riordinava le sue carte.
Scesi di corsa pensando che anche questa era andata.
Salutai il segretario, come al solito molto simpatico.
Via..
Ipod nelle orecchie..

E testa sgombra dai mille pensieri…

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