
E un biglietto giaceva sotto il mio cuscino…
L’avevo da poco accompagnata al piano terra del mio palazzo… e da lì se ne sarebbe andata a casa.
– Mi dispiace ogni volta andarmene… – fu la sua frase di chiusura. Perché non voleva mai tornare a casa. Non voleva mai tornare da se stessa. “Purtroppo… si viene e si va… in questa commedia… che c’è chi la spiega… e c’è chi vive e va…” Un ultimo bacio… prima della notte che ci avrebbe fatto rincontrare nei sogni. E la macchina andava… lontano da me… lontano da noi… Lontano da questa sera… Lontano da ciò che avevamo sognato… Lontano da luci e suoni di questa notte, di questa vita…
Sogni di rock ‘n roll
– I biglietti li hai presi? –
– Certo… sono qui! –
– Ok… andiamo! –
Quella sera era una serata speciale. E lo si capiva dalla luce che brillava nei miei occhi. Ero emozionato. Era da un bel po’ che non capitava… e per un dolce destino dal sapore di fragola, quel momento doveva ripetersi, perché certi momenti ritornano, con un po’ di ritardo, ma son lì. Dovevo rivederlo, anche se io non avevo fatto niente per farlo… Anche se io ero rimasto lì a guardare…
– Grazie per i biglietti bambolina… – le dissi mentre la guardavo negli occhi.
Lei continuava a camminare. Mi sorrise e mi strinse più forte la mano. Prendemmo la metro. Direzione San Siro. Di lì a poco, si sarebbe esibito quel cantante che avevo impresso nell’anima. Quel cantate che vestiva la mia pelle come un vestito su misura. Quel cantate di cui mi fido, che non mi tradirà mai… che raccontava la mia vita attraverso la sua… regalandomi un sogno da custodire ogni volta che ne avevo bisogno.
Ci sedemmo.
La metro non era molto affollata. C’era un po’ di gente sparsa in giro, ed intravidi negli occhi di qualcuno la mia stessa meta. Perché quell’odore era inconfondibile… quella passione si sentiva a pelo. Quelle canzoni le potevi vedere solo negli occhi di sa… di chi sa capire… di chi sa intendere… di chi sa ascoltare.
“Chissà cosa lo rende speciale?” pensai, e subito dopo sorrisi. Perché a quella domanda potevo dare molte risposte. Perché quegli occhi neri, i capelli mossi e quella voce roca messi insieme alle sue parole, davano un qualcosa di unico. Un qualcosa che solo certe persone potevano capire. Che una canzone non è solo musica e testo… ma è vita… la tua vita o di qualcun altro, ma pur sempre vita. Feci respiro profondo e guardai la fermata a cui eravamo arrivati. C’eravamo quasi. Di fianco a me la mia dolce compagna. Chissà se attendeva anche lei con impazienza. I suoi occhi erano vaghi, ogni tanto incrociavano i miei. Le passai una mano intorno al collo e l’avvicinai a me. Come per farle sentire il battito del mio cuore. Quel piccolo organo che non smetteva mai di funzionare. Anche se a volte sembrava un po’ arrugginito e faticava ad amare. Per fortuna che avevo lei accanto che mi capiva… e capiva il mio cuore un po’ malandato, che aveva troppa paura di crescere.
Arrivammo…
Iniziava il cammino fino allo stadio. Non sapevo molto bene dove si trovasse. Ma la solita regola dei concerti valeva anche lì. “Seguire la folla”, perché la folla in fondo, sa sempre dove andare.
E c’incamminammo seguendo quella lunga scia di persone che mi ricordava vagamente il Campo volo… ma lì era un’altra storia. Li sapevo dove andare e non lo feci perché aspettavo sotto uno stand l’arrivo di qualcuno… mentre guardavo la folla… mentre scrivevo un’altra storia, mentre guardavo il Campo Volo da lontano…
Ora da lontano guardavo il San Siro. Era stupendo… era grandioso come colui che ci avrebbe cantato all’interno bussando con forza alle nostre menti per farci capire che, oltre a noi, c’era anche lui…
Cercammo il nostro ingresso. Camminavamo tra bottiglie di birra e cartacce. Si vedeva che da lì, di gente ne era passata prima di noi. Faceva caldissimo. Cercai in cielo qualche nuvola ma non ne trovai. Mi rassegnai. Per fortuna che tra un po’ sarebbe scesa la notte e con lei, tutti i problemi sarebbero spariti.
– Vieni… è di qua! –
Entrammo attraverso il nostro varco. Dopo qualche minuto per trovare i posti, ci sedemmo comodamente tra le persone già presenti. Lo stadio si stava riempiendo piano piano ed era già a buon punto. Guardai il palco e qualcosa non mi tornava. Ai due lati c’erano delle pale eoliche e in basso dei finti pannelli solari. Mentre dietro s’intravedevano delle fittizie centrali per il biogas.
Alchè pensai: – È?-
Ligabue ne trovava sempre qualcuna in più per stupire. Oppure per mandare un suo messaggio, un messaggio che condivideva a pieno. Aveva molto a cuore questo pianeta… e sapeva che nel nostro piccolo, ognuno di noi, qualcosa la poteva cambiare. Perché tanti piccoli tasselli formano un grande puzzle… Ma se manca qualcuno, la figura può risultare sbiadita come il nostro mondo che ogni tanto fa i capricci. E noi, pur sapendolo, non facciamo niente. Restiamo nella nostra piccola indifferenza mentre le cose vanno come non devono andare. Doveva essere questo il motivo di quella scenografia, o forse no. Sicuramente, Ligabue, voleva che ognuno di noi capisse l’importanza del mondo in cui viviamo.
E partì il concerto. Così, con quella canzone con cui ogni notte tornavo a casa. Che mi “viziava” lo stereo in fase “ripetizione”. Che mi cullava prima di andare a dormire. Perché quelle notti… quelle Certe notti, avevano il loro sapore unico. Il sapore di una macchina, di un pieno di diesel e di libertà.
E si passò al Centro del mondo. Mi sarei aspettato, come un bel po’ di persone, che avesse iniziato con quella canzone. Ma invece non l’ha fatto… perché ad essere scontati non ci si diverte. Come quelle parole: un viaggio potente nel cuore del tempo… andata e ritorno… Guardai la mia bambolina e l’abbracciai, perché quella canzone era diventata un po’ nostra. Quelle parole piano piano c’erano entrate dentro ed avevano smosso un bel po’ di cose.
E canzone dopo canzone mi salirono i brividi a fior di pelle. E per poco, a stento trattenni le lacrime. Perché dentro avevo un miscuglio di carne ed ossa che stava ribollendo. E guardavo la folla, perché anche quella m’affascinava. Vedere tutte quelle persone lì, che si muovevano, che saltavano insieme a me, che indicavano il cielo ogni volta che ce n’era bisogno… e che ascoltavano, silenziosi come solo uno stadio può esserlo, le parole di quel piccolo uomo visto da quassù. E la sua chitarra viaggiava.
– Voglio salutare un mio grande amico… – disse Ligabue
Subito dopo partirono quelle parole che aveva preso in prestito da “Guccini”.
“Ho ancora la forza…
di stare a raccontare…”
E ricordai…
Quando quelle parole furono “mie”. Quando quella canzone l’ascoltavo mentre faticavo a tornare al mondo sempre vivo. E nonostante tutto, ero sempre riuscito a scamparla… con qualche ossa rotta e qualche bernoccolo qua e là. Sempre e comunque su questa strada… guardando negli occhi quegli amici che a quel tempo mi dicevano: “ci vediam più tardi” perché non ero ancora uno di loro. Ed ogni tanto la mia forza svaniva, quando mischiavo le parole con due pacchetti al giorno… buttando la mia vita in qualcosa di peggiore..
E fortuna che ora ero lì…
ed avevo ancora la forza di stare a raccontare le mie storie di sempre…
Quel cantante mi ha accompagnato in tutti i momenti della vita… belli e brutti… Sempre cosciente del fatto che la vita ogni tanto deve esser presa per la coda…
Come se non bastasse la lunga scia di ricordi, la scaletta girò su ho messo via. L’unica canzone che sapeva come prendere i miei momenti più bui… sapeva dov’erano… e conosceva i perché.
Il pubblico prese in mano gli accendini e il San Siro si riempì di piccole luci che davano un effetto straordinario a quelle parole.
“Ho messo via un po’ di consigli
dicono è più facile
li ho messi via perché a sbagliare
sono bravissimo da me.”
E Ligabue dimostrò di saperci fare. Dimostrò che bastavano pochi arpeggi… un microfono ed una voce, per far stare bene un bel po’ di persone. Tra cui me… ed aveva anche ragione quando poco dopo disse che: c’han concesso solo una vita… soddisfatti o no… qua non rimborsano mai…
Era solo, in mezzo a quel palco che si stagliava tra quelle mani che lo indicavano. che lo volevano toccare… volevano sapere come faceva…
“Come si fa a far sognare?” me lo chiedevo anche io… mentre una lacrima faticava a scendere.
“Non è tempo per noi…
E forse non lo sarà mai…”
E quando finì la canzone, Ligabue prese in mano un specchio rotondo. E come un “riflettore umano di luci” portò la sua linfa ad ogni spettatore. Illuminò ogni posto di quel “piccolo” stadio. Ad uno ad uno, ogni ragazzo o ragazza fu illuminato da quel bagliore di luce. Ed io non fui da meno. Perché anche se non mi conosceva, non si scordava mai di me. Anche se ero confuso tra le gente, mi ha visto e mi ha illuminato. Mi stupì anche questo. Mi stupì come Ligabue, a suo modo, ha voluto rendere partecipe ognuno di noi… ogni mano alzata… ogni “testa sognante”.
E seguendo la scia dei sogni, perché non continuare con piccola stella senza cielo? Che questa volta era condita dall’apparizione di una coraggiosa ballerina appesa su di un filo che si arrampicava e creava acrobazie in cielo… proprio lassù… dove brillava la nostra piccola stella. Lo stadio iniziò a cantare. Perché quelle parole le conoscevano tutti. Quelle parole lo avevano reso famoso. Quella canzone non mancherà mai ad un suo concerto.
Come non mancherà mai: Urlando contro il cielo.
E si ballò. Lo stadio era in delirio. Le urla quasi coprivano la canzone. Le persone saltavano nei loro piccoli posti andando a tempo di una canzone che ha cent’anni almeno… Una canzone che cacciava fuori tutto quello che eri…
“Come vedi sono qua:
monta su, non ci avranno
finché questo cuore non creperà
di ruggine, di botte o di età.”
La batteria andava. Il rullante e la gran cassa si facevano sentire, mentre la gente “correva” assieme alle parole di urlando contro il cielo… sperando che forse qualcuno lassù ci avrebbe sentito, senza riderne di noi… guardando ed aspettando, da una posizione distaccata, che i sogni degli altri si avverassero.
E ancora… ancora…
Ligabue aveva voglia di farmi perdere la voce quella sera. Ma io non mollavo… le cantavo tutte a squarciagola, per farmi sentire un po’ più degli altri. E saltavo anch’io… e ogni tanto lo indicavo con il dito, come per far capire da chi provenivano i battiti del mio cuore.
E scese la notte. Le persone si sedettero ognuno al proprio posto. Tutti guardavano il palco con la speranza accesa che Ligabue ritornasse. Perché non poteva andarsene così… non lui. Ci voleva quel tocco finale. Quella piccola magia prima di andare a dormire.
E come poca gente sapeva fare… ci diede la buona notte a suo modo. Non solo a noi presenti, un po’ a tutti… vivi o morti, di questo piccolo paese.
Buonanotte all’Italia…
E lì sì, che le lacrime scesero. Mi stavo cullando su quelle parole alla ricerca di quel ricordo mai sbiadito di mio nonno. Uno che doveva ancora insegnarmi molte cose ma se n’era andato via troppo presto per poterlo fare. Regalai la mia buonanotte anche a lui. Che sicuramente l’avrà ascoltata. Perché lassù non sfugge mai niente. Nemmeno la mia lacrima scesa e subito nascosta. Chiusi gli occhi per un istante… la musica mi coinvolse… mi prese tutto… ed alla fine… nell’ultimo giro di note, scoppiarono fuochi d’artificio digitali che estasiarono la folla… mentre Ligabue spariva lentamente da quella porta da cui era entrato… in grande stile…
come solo pochi sono in grado di fare…

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