Weekend finanziario (VI)

Weekend Finanziario 6

Una delle ragazze di quella sera credeva fossi un modello! Mah…

Ultimo giorno, mattina della partenza

Oltrepassata la robusta porta in legno di ciliegio, sigillata da una chiusura a chiave magnetica, si entrava in una delle stanze del quinto piano, vista mare, di un mediocre albergo Riminese. Per terra, sulla moquette blu notte a pois dorati, c’erano disseminati una miriade di capi d’abbigliamento stropicciati in un susseguirsi continuo fino ai piedi del letto. Una scarpa destra, con ancora i lacci legati in un classico e inconfondibile doppio nodo faceva la guardia all’ingresso, sperando di rivedere, prima o poi, la sua gemella sinistra. Subito dopo, antistante la porta del bagno, un giubbotto di pelle nero era adagiato a terra. Girato di spalle e con le maniche allungate, sembrava un soldato morto sul campo. Più avanti, tra un calzino e una maglietta si arrivava al letto, da cui sbucava, dal lato sbagliato, un piede nudo. Un ragazzo dormiva scompostamente lungo la diagonale di un letto matrimoniale. Percorrendo tutta la sua figura inanimata, si potevano confrontare i pezzi del puzzle di vestiti che non erano sulla moquette in modo da ricostruire l’abbigliamento originale. Tutto sembrava tranquillo, fino a quando, l’indice della mano sinistra non emise una sorta di breve tic

Ero in un luogo buio, con musica assillante e luci intermittenti. Seduto su un divanetto, conversavo con diversi ragazzi di assurde politiche economiche. In una mano avevo un cocktails e con l’altra carezzavo la pelle bianca del divanetto a due posti. Stranamente però, non sentivo la liscia consistenza della pelle sotto le dita. Al contrario, percepivo una sensazione di ruvidezza, come se la pelle fosse in realtà stoffa. Continuai a giocare con la mano sul bracciolo, isolandomi dal resto della scena. Non riuscivo a comprendere la strana alterazione sensoriale tra vista e tatto fino a quando il mio dito non incontrò un disegno in rilievo che, sul divanetto in pelle bianca dell’oscuro locale, non c’era.
Fu allora che aprii gli occhi e vidi la mia mano sinistra che strusciava sul copriletto del materasso matrimoniale della mia camera d’albergo. Lentamente continuai a delineare i bordi del fiore disegnato sulla stoffa per ristabilire il connubio tra vista e tatto.
“Era un sogno” pensai, poi sopraggiunse il mal di testa e il sogno non fu più una spiegazione plausibile.
Mi alzai, mettendomi a sedere. Mi resi conto di essere ancora, stranamente, vestito. Metà dei quali però, erano sul pavimento. “Cosa diavolo è successo?”. Tolsi l’unica scarpa che avevo per liberare l’altro piede ancora imprigionato dal mio classico doppio nodo. Mi spogliai completamente dai vestiti sgualciti e li buttai per terra insieme con gli altri. Passai davanti allo specchio a muro della camera. Volevo controllare se era tutto al proprio posto, poi mi buttai sotto la doccia.

Uscii dal bagno ancora tutto gocciolante, con un asciugamano bianco legato in vita. Con un altro asciugamano mi frizionavo i capelli umidi finché il mio sguardo non fini su un piccolo pezzo di carta sul comodino. Qualcuno aveva scritto qualcosa a penna e l’aveva lasciato lì, in bella mostra. Lo presi con le mani ancora umide e notai che era lo stesso bigliettino che mi aveva dato il tassista la sera prima e che io avevo conservato nel portafoglio. Lo lessi:

“Fantastica serata Ciro,
La prossima volta meno alcol però eh!
Ti abbiamo riportato noi in albergo…
Chissà! Ci si rincontrerà prima o poi!
Addio!”
Incredulo lessi e rilessi ancora quel bigliettino. “Chi cavolo sono questi?! E cosa cavolo ho fatto ieri sera?!” I miei pensieri non si davano pace alla ricerca di una risposta. “Come hanno fatto a riportarmi qui?”. Guardai sul comodino e vidi la chiave magnetica della mia camera con su scritto il nome del mio hotel. “Sicuramente usando quella…” pensai.
Guardai l’orologio e capii che non avevo tempo da dedicare alla ricerca dei ricordi perduti. Di lì a breve avrei avuto un treno che mi avrebbe riportato a Milano. Dovevo sbrigarmi per non perderlo. Mi rivestii in fretta e preparai la valigia. Fortunatamente non mancava niente. Quei ragazzi che mi avevano accompagnato, dovevano essere dei bravi ragazzi. Diedi un ultimo sguardo alla stanza e scesi nella Hall.
Alla reception c’era una ragazza dai capelli bordò. Mi diede un’occhiata mentre m’avvicinavo e mi face un sorrisino. Di solito, i receptionist sono sempre a conoscenza di ogni cosa avvenga nel proprio albergo. Ce l’hanno nel codice genetico come le portinaie o i barbieri. Ero tentato dal chiederle qualche notizia su ieri sera. Ma, a guardare quei dolci occhi maliziosi, mi vergognavo miseramente a chiederle come dei tizi sconosciuti mi avessero trascinato in camera la notte prima. Sicuramente avrà visto, se non lei, qualche collega. Pagai. Mi rifilò il resto condito dal solito sorrisino. Uscii dall’hotel con metà della coda tra le gambe. Per qualche strana e insulsa ragione malinconica, preferii fare a piedi il tragitto fino alla stazione, invece di prendere il taxi.

Venne a piovere come se non ci fosse stato più un domani.
Corsi per ripararmi sotto un balcone. La stazione era a pochi metri ma non potevo superare la colonna d’acqua che veniva dal cielo. Osservai Rimini… la fantastica città teatro di mille avventure. Solo e stanco mi appoggiai al mio trolley con l’acqua che veniva giù a pochi centimetri dal mio naso. Dal balcone sopra di me sembrava che ci fosse una cascata che veniva giù da chissà dove. Vedevo l’immagine della stazione come attraverso una gigantesca bottiglia di vetro trasparente. Ombre e bordi sfocati. Passanti anonimi. Vento… Mi sentivo impotente davanti a quell’onda invisibile di ricordi che mi stava travolgendo. Vedevo dinanzi a me il piccolo Ciro diciassettenne che, con la sua cartella Seven, usciva dalla stazione di Rimini. Tutto era sfocato… proprio come il ricordo… proprio come la pioggia. Il mio volto sorridente nel rincorrere i miei amici più grandi che mi avevano trascinato con loro in una magica vacanza. In testa nessun pensiero e sulle spalle chili di alcol… Sorrisi. Pantaloni larghi, canotta… il caldo asfissiante di quei giorni. In testa mille ragazze. Molte sbagliate… molte sofferte. Delusione. Osservavo il mio alter ego fantastico camminare a stento. Le scarpe erano di una misura più grande e a volte inciampavo nei gradini. I miei amici attendevano al di là del marciapiede. Avevo paura di attraversare la strada con quel pesantissimo zaino. Guardai a destra e poi a sinistra proprio nella mia direzione… ci fissammo. Io e il ricordo di me. Sotto la pioggia, dietro un muro d’acqua trasparente.
E il ricordo svanì…
Come la pioggia che si dissolse…
Uscii dal mio riparo e camminai verso la stazione.

Guardai un attimo la lunga via che portava diritta al mare.
Cos’è successo? Dove son finiti i miei sogni?
Tutti rotti…
Solo uno son certo di averlo realizzato:
Veder spuntare l’alba sul mare di Rimini…

Perché gli altri ho smesso di realizzarli?

Fine

Weekend finanziario (I)

Doccia, camicia, giacca.
Scarpe nere. Cravatta? Oggi no.
Ero intento a fissare la mia immagine riflessa sullo specchio della mia camera d’albergo. Quel giorno optai per il grigio scuro. Camicia attillata, pantaloni con piega e cintura nera che staccava il sopra dal sotto. Uno dei miei migliori abbinamenti… pensai.
Chiamai un taxi e scesi nella hall ad aspettarlo. Dalle finestre entrava la leggera brezza marina di Rimini. Era appena iniziato il terzo giorno del mio weekend finanziario. Volevo visitare, per l’ennesimo anno, l’ITF (Italian Trading Forum). A ripensarci, ero fuggito dalla capitale della finanza, Milano, per finire a seguire una fiera sulla finanza. Deve piacermi davvero molto sta roba…

– Dove La porto? – mi chiese il tassista.
– Al Palacongressi, grazie. –

Da pochi anni la fiera si tiene nel nuovo e fiammante Palacongressi di Rimini. I primi tempi era ancora in costruzione e la fiera si svolgeva altrove. Un gran bel salto di qualità.
Il tassista correva per le strade asfaltate della cittadina. Prese strade a me sconosciute. Vidi un arco romano, dei monumenti, case, negozi. Non era la solita Rimini che ero abituato a vedere, quella del lungomare. C’era gente che lì ci viveva. Ragazzi che andavano a scuola. Vecchietti a passeggio per i corsi. Preso dal dubbio che il tassista si fosse spinto troppo oltre con i chilometri, chiesi:
– Qui dove siamo? –
– Questo è praticamente il centro di Rimini. Siamo passati di qui perché viale Tripoli è intasato. –
Il centro di Rimini? 
Fino a quel preciso istante, dopo tutti i viaggi fatti in quella città a partire da 17 anni, m’ero fatto l’idea che il centro di Rimini fosse collocato vicino al parco Fellini, poco distante dal Grand’Hotel. Pensavo erroneamente che Rimini fosse una città spiaccicata sul mare. Ma quel giorno crollarono tutte le mie secolari supposizioni e al tempo stesso mi si aprì un mondo del tutto nuovo su una città che pensavo di conoscere alla perfezione.
Il taxi si fermò. Scrollai la testa da tutti i pensieri e tornai alla realtà.
– Quant’è? – chiesi.
– Le faccio 13€ anche se qui dice 14€… –
– Grazie mille. Ecco a lei. –
Scesi. Guardai in alto. Osservai la grossa cupola del Palacongressi. Fantastica.
Nemmeno a Milano avevo degli esempi architettonici simili da poter confrontare.
Entrai. La signorina all’ingresso mi fece un sorriso. Mi beggiò e mi lasciò entrare. Feci un passo, poi un altro… e arrivò come ogni volta. Quel brivido che mi percorre la schiena per finirmi in testa. Dura un istante. L’istante preciso prima di entrare nella sala principale. Lo provo ogni volta che vado a quella fiera, come se fosse la prima. Nonostante ormai
fossi un veterano. Ricordo benissimo la prima volta, guardavo tutto con occhi lucenti. Entrai molto giovane in quel mondo e tutti mi facevano i complimenti per quello che studiavo alla mia età. Era divertente confrontarsi con gli altri. Certo, all’inizio sembrava strano vedere un ragazzetto di poco più di 18 anni parlare di borsa. Ma appena quelle teste bianche capivano che ne sapevo quasi più di loro, mi rispettavano. Socializzavo, discutevo, criticavo. Ero in un mondo reale dopo anni e anni trascorsi su libri a studiare teoria. Potevo finalmente toccare con mano ciò che apprendevo. Quell’anno tornai a casa con un malloppo di appunti pieni zeppi di disegnini e scarabocchi. Appuntai teorie, tecniche, commenti, errori da non fare… La penna sembrava non bastarmi… e la voglia di apprendere era tanta.
Poi, anno dopo anno e fiera dopo fiera, gli appunti si ridussero in modo decrescente. Non aveva senso riscrivere le tecniche che già conoscevo. Quindi, nelle fiere successive, il mio  interesse si trasformò nello spulciare minuziosamente tra gli stand a caccia di nuove curiosità. Ma, ahimè, era diventata una caccia al tesoro.
Quest’anno come andrà? Pensai, mentre mi avvicinavo all’ingresso della sala.

Storia di una casa (#2)

2006/2007

– 2 –

Scolpite nella mente uno di quei mobili antichi. Una vecchia cassettiera in legno per esempio, robusta, solida e pesante. Uno di quei mobili scricchiolanti, talmente rumorosi da sembrar vivi, come un anziano in oltre età. Immaginate sulla superfice rugosa, scheggiata e puntellata da tarli, una miriade di oggetti, apparentemente inutili, accumulati negli anni. Statuine, vecchi souvenir, regali, bomboniere… qualche bambola di porcellana, un orsacchiotto un tempo bianco e una lampada ormai spenta…
Infine, spargete nella vostra mente, su questo mobile che avete appena immaginato, un sottile ma intenso strato di polvere grigia. Ed ecco la perfetta similitudine che avevo nei confronti di quella città a prima vista.
Con essa anche parte del mio stato d’animo assumeva gli stessi contorni. Ai miei occhi Milano sembrava una città morta, chiusa in se. Un po’ diversa da come l’avevo immaginata.
Per fortuna gli anni contribuirono a farmi cambiare idea. Ma la strada per arrivarci fu dura e tortuosa.
Il mio primo obiettivo era quello di trovare una casa. Un posto dove stare tra quell’immensità di persone. Ambientarmi e piano piano far credere alla mia anima che lì mi sarei trovato bene. Ardua impresa per uno come me… che ha un posto dentro, dove luoghi e persone s’incastrano e ci restano per sempre.

Passo dopo passo arrivai davanti una bianca palazzina. Controllai il foglietto che avevo in mano.
“E’ lei…” pensai e bussai al campanello. Sentii aprirsi il portoncino e un attimo d’esitazione mi colse e mi bloccò. Una signora, o meglio solo la sua testa e il suo braccio longilineo, si affacciò da un balcone del primo piano. “Vieni, vieni!” mi disse gesticolando con la mano.
Rassicurato da quelle parole, arrivai alla porta d’ingresso. Era aperta e la spinsi verso l’interno. La stessa donna mi ricevette con estrema gentilezza.
“Eccoci qua! Ce l’hai fatta!” affermò.
“Sì… ho fatto un po’ tardi… non sono ancora capace di muovermi adeguatamente in questa città… sono venuto a piedi…”
“Potevi prendere il 23… o il 33… mmm… forse anche la 54 passa qui vicino… tra l’altro stanno facendo dei lavori e hanno spostato tutte le fermate… prima passava da… poi ha cambiato giro e percorre via… quella dove c’è l’Esselunga… sì, quel grande supermercato marrone che fa tante offerte…”
Osservavo e annuivo mentre le labbra di quella donna si muovevano così rapide e veloci, producendo parole che stentavano ad avere senso e soprattutto non richieste.
“…se decidi di trasferirti qui, sarai comodo a far la spesa lì… io mi trovo benissimo… Però non andare il sabato mattina perché c’è sempre un casino della madonna… tanto che non riesce a camminare tra i reparti e alle casse file immense. Assurdo. Comunque… vuoi domandarmi qualcosa?”
“Ehm… si… vorrei vedere la casa…”
“Oh… già… che sbadata… certo… seguimi!”
La casa era adeguata. Della grandezza ideale in cui vivere. Anche se la mia esperienza passata, svoltasi in una villetta di campagna, tra corridoi e larghe stanze, si sentiva un po’ stretta tra quelle mura di città. Dovevo abituarmi a vivere in uno spazio più piccolo, a non avere un giardino e soprattutto…
“Ecco le stanze da letto… qui c’è la singola e lì la doppia…”
“Doppia?”
“Si… ci sono due letti… e la stanza è abbastanza spaziosa per dormirci in due. In realtà si potrebbe aggiungere un letto anche nella singola e farla diventare doppia… ma tutto dipende da quante persone affittano la casa…”
“Certo…” dissi pensieroso.
In tutto quel tempo, non avevo mai fatto il conto di dover dividere la casa con qualcuno. Il pensiero non mi aveva proprio sfiorato. Avevo in testa l’obiettivo di trovare una casa, non qualcuno con cui dividerla. Capii che prendere un’intera casa da solo era troppo costoso. Altre persone erano necessarie per dividere le spese. Ma avrei mai potuto trovare qualcuno che si adattasse al mio stile di vita mentre io cercavo di adattarmi al suo? Oltre alla ricerca della casa si presentò quest’altro problema sul mio campo. Cercare dei coinquilini. E non sapevo nemmeno da dove iniziare.

Storia di una casa (#1)

2006/2007

– 1 –

Tutto cominciò in una notte insonne. Uno stato d’ansia mi attanagliava la mente generando pensieri che occupavano minuti e ore. Guardavo un soffitto bianco, puro, perfetto. Un soffitto dove i pensieri potevano disegnarsi a loro piacimento e tingersi di colori nuovi. Pensavo al futuro, alla mia vita e alle scelte che stavo per compiere; pensavo alla mia famiglia e a tutti i miei amici… lontani più che mai dal mio destino.
Scostai le coperte e scesi dal letto, costatando che ottobre era più freddo di quanto pensassi. Mi avvicinai alla piccola finestra che dava in strada. Scostai delicatamente le tende, quasi non volessi farmi sentire. Quasi che quel gesto di guardare fuori, fosse proibito. Sulla finestra, le luci tenui di un lampione giallo allargavano il riflesso del mio volto. La mia immagine mi fissava e rispecchiava ciò che non vedevo, ma sentivo. Un volto preoccupato, con mille sogni e duemila speranze; due occhi neri ingordi di curiosità per qualcosa di nuovo; e un sorriso che sussurrava perentorio: ce la posso fare.
Al di la di me, c’era un palazzo… e accanto un altro… e poi un altro ancora. Fino a disegnare quasi un muro tra me e l’orizzonte. Sotto, una piccola strada con macchine parcheggiate ai lati, in ogni buco.
Quanto tempo sarebbe passato prima che mi fossi abituato a tutto ciò? Pensai con una goccia di rimpianto. Per anni il mio orizzonte era stato frastagliato di colline e tappezzato di verdi campagne. Di macchine parcheggiate nemmeno l’ombra, eccetto quella di mio padre nel vialetto di casa. Il lampione però, quello c’era, ed era giallo uguale. Mi fissava anche lui dalla finestra della mia cameretta nella casa natia. Strana casualità e dolce coincidenza che mi legava al ricordo delle notti insonni adolescenziali. Al tempo in cui quel lampione mi teneva sveglio proiettando sul letto le righe della persiana, e contandole mi addormentavo. Venti… e poi altre venti… e lentamente chiudevo gli occhi gustandomi l’ultimo spiraglio di luce prima del sonno. Sorridevo perché mi sentivo protetto, in quella stanza, in quella casa, tra quelle mura…
che ora fisseranno un letto vuoto e mille ricordi di un bambino ormai grande.

Un forte suono di clacson strimpellò i miei timpani come un batterista con la cassa di un rullante. Spalancai gli occhi. Sulla guancia sentivo il segno del bordo del davanzale. Mossi le dita dei piedi e scoprii che erano diventati dei piccoli ghiaccioli. Avevo dormito su una sedia davanti alla finestra. Distesi le gambe ancora addormentate e il formicolio si arrampicò nelle vene. Guardai il letto sfatto con un po’ di rancore. Avrei potuto dormire su un materasso, coperto da una calda coperta, invece di restare lì, accanto alla malinconia.
La mia stanza d’albergo era piccolissima. Più lunga che larga. C’entravano a stento il letto e una scrivania su un lato. La finestra era in fondo e sul lato opposto la porta. Sulla destra il bagno e a sinistra un armadio, dove il mio trolley occupava la maggior parte dello spazio.
La cella di un prigioniero sarebbe stata più spaziosa, pensai mentre m’infilavo le scarpe.
Era mattina e invece del sole sorsero le nuvole. Col passare dei giorni davo sempre più peso a ciò che diceva la gente di quella città. Triste e ombrosa.
Scesi le scale e fui nella hall di quel minuscolo alberghetto. Il signor Luca, il fratello del proprietario, mi preparò un caffè, affiancandoci un cornetto alla crema.
– Buongiorno signor F. dormito bene? –
– Buongiorno, si… dormito bene. – dissi con aria stanca.
– Come va la ricerca? – mi chiese interessato, mentre controllava qualcosa sul registro degli ospiti.
– Mah… non tanto bene. Ancora niente. Mi sa che resterò qui ancora per qualche giorno… –
– Mmm… devo controllare se c’è posto, la settimana prossima è la settimana della moda e ho molte prenotazioni… vedo cosa posso fare… – mi disse dispiaciuto.
– Grazie signor Luca, mi faccia sapere… e grazie del caffè… Mi rimetto all’opera anche oggi! Buona giornata! –

Uscii in strada e mi specchiai in quel muro di palazzi. Cercai di vedere il cielo e di trovarci qualcosa di familiare, ma era talmente lontano e grigio che pensai di essere su un altro pianeta.

Una stella fa luce… senza troppi perché… (Perugia)

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Il treno frecciarossa scorreva silenzioso mentre la città piano piano si allontanava. Palazzi… case… vie… macchine… lasciavano il posto ai verdi campi della periferia sud di Milano. Ero seduto al mio posto e mi pregustavo questa boccata d’avventura. Non c’è niente da fare.. adoro viaggiare. Per qualsiasi meta… per qualsiasi luogo… per qualsiasi motivo. Treno, autobus, auto… in qualsiasi mezzo di trasporto. Ed ogni volta, nel mio intoccabile posto finestrino a vedere il paesaggio che scorre. Non so ben spiegare cosa mi piaccia principalmente. Se il fatto di vedere nuove città o il viaggio in se. Forse perché a bordo di un treno posso prendermi tranquillamente un po’ di tempo da dedicare a me stesso. Per riflettere… pensare… immaginare… e a volte, non lo nego, anche sognare. La vita frenetica e al tempo stesso monotona di questi giorni richiedeva a gran voce l’intervento di quelle piccole azioni che si compiono senza pensare. Non parlo di follie e pazzie… quelle, seppur necessarie ad uno spirito giovane e ribelle, è meglio tenerle a freno. Mi riferisco, per esempio, ad essere catapultati un giorno a caso in un’altra città ed avere in tasca solo il biglietto di andata. Quanto adoro viaggiare… Soprattutto se dalla mia finestra sul mondo si mostravano simili spettacoli.
La grande pianura era a tratti nascosta da piccoli banchi di nebbia adagiati sulla terra da una mano delicata. Il cielo nuvoloso lasciava passare il sole attraverso qualche buco qua e là tra le nuvole. I fasci di luce sembravano proiettori giganteschi puntati su uno spettacolo naturale fantastico. Le case di campagna… gli alberi spogli… la terra appena arata dal trattore… la neve che ancora resiste… e più in là… la sottile linea che unisce la terra al cielo… l’orizzonte… senza palazzi o torri che t’impedivano di vederlo.
E tutto quel paesaggio aveva talmente estasiato i miei occhi da stancarli, quindi era arrivato il momento del mio caffè…
In più o meno di due ore arrivai alla stazione di Firenze Santa Maria Novella. Bella come sempre… peccato di non poter restare per più di 10 minuti perché il grande tabellone delle partenze indicava che la mia coincidenza stava partendo. Feci un salto alle macchinette e come al solito beccai il tipo davanti a me che non sapeva usarle… e invece di demordere continuava a giocherellare con il touchscreen come se fossimo alla fnac a provare nuovi pc.
– Scusi… avrei un po’ fretta… –
Mi lasciò il monitor e se ne andò un po’ infastidito. Due secondi dopo avevo il biglietto in mano e correvo verso il binario 2 con il trolley che mi seguiva saltellando. Salii sul treno e cercai un posto tranquillo. Certo che passare da un Eurostar a un regionale aveva la sua bella differenza. Ma ero troppo stanco per notare i particolari e mi abbandonai nel primo posto libero che trovai.
Il mio stomaco iniziò a brontolare. Avevo programmato di mangiare a Firenze ma non sapevo di avere la coincidenza così presto. Oltretutto su quel treno non c’era nemmeno il carrellino del servizio bar. Quindi, misi l’anima in pace e costrinsi il mio stomaco ad aspettare altre due ore.
Sul treno non c’erano molte persone e le fermate regionali passavano tranquille senza file e folle che si accalcavano alle porte.
Osservavo curioso i posti che stava attraversando il treno. Piccole cittadine intervallate da piena natura selvaggia… dove la mano dell’uomo non era ancora riuscita ad arrivare. Alberi… siepi… piccole gallerie coperte da edere rampicanti. Il treno a volte sembrava faticare a passare in certi luoghi. Dal paesaggio circostante si aveva l’illusione che davanti non ci fossero i binari… ma terra viva… inesplorata… su cui ci si passava per la prima volta. E poi venivano i piccoli paesi. Caratteristici anche loro… e con i loro nomi da scioglilingua. In particolare passai dalla stazione di “Terontola Cortona”. Un nome che sentivo spesso dall’interfono della mia stazione di Milano Lambrate. E spesso mi chiedevo dove mai si trovasse e se un giorno ci fossi mai passato. Ed eccomi qui che guardavo dal finestrino il grande tabellone con quel nome che avevo imparato in circa un anno di avvisi in stazione. Sorrisi pensando che ora mancava solo “Arquata Scrivia” da eliminare dalla lista delle stazioni con nomi strani.
Chiusi gli occhi…
La stanchezza si faceva sentire. Piano piano mi adagiai sul sedile appoggiando i piedi sul trolley. Cercai di abbandonarmi al sonno anche se il rumore e le vibrazioni del treno difficilmente me lo permettevano. La notte prima l’avevo passata più o meno insonne. Mi succede spesso di non dormire in prossimità di qualche evento… che sia spiacevole o piacevole come in quel caso. Il cervello è come se si sintonizzasse su un pensiero per non mollarlo più. E subentra quel pizzico di ansia che non ti fa sconnettere la mente dal corpo. E ti giri e rigiri nel letto alla disperata ricerca della posizione giusta. Del cuscino in un certo modo… delle coperte e del piumone, troppo caldo, troppo freddo… basta! Così verso le 3 di notte mi alzai e accesi la tv sperando che il sonno tornasse.
Un brusco colpo mi destò dal mio sogno apparente. Aprii gli occhi e guardai fuori. Restai senza fiato nel guardare un’immensa distesa d’acqua. Subito mi venne il timore di aver sbagliato treno e di essere finito in qualche punto della costa toscana. Perché stando alle mie rare conoscenze geografiche, in Umbria non avrebbe dovuto esserci il mare! Guardai meglio… era fantastico. Una grande distesa di terra tutt’intorno e poi questa imponente massa d’acqua. Immobile… vasta… silenziosa. Si delineavano all’orizzonte i profili di alcune montagne. Erano appena visibili, quasi nascoste dal cielo. Ed in mezzo, due piccole isole… stupende. Restai incollato al finestrino per un po’, scattando foto qua e là tralasciando i miei seri dubbi sulla mia direzione.
Il treno si fermò in una stazione.
“Passignano sul Trasimeno”
Bene.. ero in Umbria.

Perugia…

Finalmente ero arrivato. Osservai un po’ in giro. La stazione era piccolina ma carina. Il mio stomaco brontolava ancora… ma volevo andare prima in albergo. Uscii dalla stazione. La piazza pullulava di gente e di autobus che andavano e venivano. Stava cominciando a piovere e alla mia sinistra c’erano un paio di taxi.
“bene… buttiamo via un po’ di soldi”
Salii nel taxi e gli indicai la meta. Il tassista fece partire il tassametro e ingranò la marcia. Per fortuna il traffico e i semafori erano pochi. La cosa che mi risaltò agli occhi all’istante furono le pendenze che avevano certe strade. Davvero ripide. Pensai che se avessi fatto a piedi quella strada sarei morto. Ero abituato troppo bene alle strade piane e diritte di Milano.
Perugia più che una città mi sembrava un paesino. Un pensiero un po’ superficiale colpa anche del mio poco tempo per visitarla tutta.

Hotel… 5° piano… stanza 504…
Aprii la porta con la tessera magnetica. Chiusi e mi buttai sul letto stremato. Volevo dormire ma non ci riuscii. Guardavo il soffitto. L’allarme antincendio mi guardava e io guardavo lui… sembrava non attendere altro che il primo momento per scattare. A volte ho paura degli allarmi anti incendio. Mi alzai e giocherellai un po’ per la camera. Era tutto spento e morto. Accesi il climatizzatore ma sembrava non funzionare… cliccai più volte l’interruttore della luce ma non successe niente. Cliccai il bottone della radiosveglia ma era morta anche lei insieme alla Tv. “Strano” pensai. Andai in bagno e feci pensieri strani sulle cose che potevo portarmi via. Tornai in stanza. Avevo ancora la tessera magnetica in mano. La guardai come se fosse stato un oggetto mai visto.
“Mettila da qualche parte e non perderla” mi raccomandò la coscienza.
Voltai la testa a destra… poi a sinistra e intravidi una piccola fessura sul muro accanto alla porta d’ingresso, esattamente larga quanto una scheda. “Ora la metto qui… così di certo non la perderò!” La infilai lentamente avendo paura che scendesse troppo e non la potessi più recuperare.
Click
Sentii un piccolo rumore e poi il delirio. La radio si accese e una canzone partì a manetta mentre alla Tv una signorina dava le previsioni del meteo. Il climatizzatore a soffitto buttava a raffica aria gelida mentre il phon a muro in bagno cominciò a eruttare aria calda. Anche le luci si accesero, nessuna esclusa. Guardai per un attimo quel pandemonio e feci una grossa risata pensando a cosa spegnere per prima.

Mi feci una doccia e restai in accappatoio per un po’…
Mi affacciai alla finestra che dava sulla strada. La città era bellissima da lassù. Tutto sembrava così reale e sconfinato… troppo lontano per i miei occhi… e mi accorsi che forse questa vita valeva la pena viverla ancora un po’ per poter gustare ancora un altro pezzo di questo fantastico mondo…
Guarda l’orologio della radiosveglia…
“Dannazione.. sono in ritardo!”

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