Quanto mi manca la baguette traditionnelle parigina!
Quanto mi manca la baguette traditionnelle parigina!
Museo d’Orsay (costo 12€/Gratis minori di 26)
Ci si può arrivare con innumerevoli metro, ma il mezzo più comodo resta la RER C perché ha la fermata proprio davanti alla biglietteria.
Il Museo d’Orsay è un “piccolo” museo parigino, sull’altra sponda della senna rispetto al Louvre e ai Jardin de Tuileries. E’ un museo più a misura d’uomo, dove ci si ambienta facilmente.
Costruito in una ex stazione ferroviaria (pechè non fanno più stazioni cosi?) è riconoscibile da fuori per i suoi caratteristici 2 orologi-finestre; accedibili dall’interno, salendo al 5 piano dell’edificio. (sì… potete farvi il selfie con l’orologio alle spalle)
Il museo ospita perlopiù quadri d’impressionisti di fine ottocento e inizio novecento.
Dalla sala centrale, potete accedere alle varie salette di esposizione (numerate e catalogate sulla mappa che trovate all’ingresso.)
Gli artisti esposti più famosi sono:
(link di wikipedia)
Claude Monet,
Paul Cézanne,
Édouard Manet,
Pierre-Auguste Renoir,
Edgar Degas,
Alfred Sisley,
Camille Pissarro,
Berthe Morisot,
Gustave Caillebotte,
Paul Gauguin,
Vincent van Gogh
Henri de Toulouse-Lautrec
In poche parole è un ottimo museo dove passare la giornata.
Molte sono le panchine dove sedersi.
Non potete mangiucchiare davanti alle opere. (molti sono i cartelli che lo vietano) ma se andate alla ricerca un posto tranquillo si trova. (magari vicino i bagni al piano terra)
Ci sono un cafè e un bellissimo ristorante in stile barocco (ma hanno prezzi proibitivi per le persone che in genere s’imbucano nei musei)
La mattina si trova pochissima fila e il museo chiude alle 5:30
L’audio-guida costa 5 euro e ve la consiglio se volete far di più che un selfie con Van Gogh.
Problema Siti italiani (tv, conti correnti, ecc..)
Chi si è trasferito da poco all’estero e ha cercato di vedere l’ultimo concerto di Gigi D’Alessio su rai.it lo sa bene che ciò non è (grazie a Dio) possibile; beh.. la ragione non è perché in Francia odiano la musica neomelodica ma è un problema legato agli indirizzi IP.
Alcuni siti non sono fruibili all’estero. Tipo: skygo, Dplay, alcuni video di youtube, vengono bloccati col messaggio che potete vedere sopra.
No Problem su internet tutto è possibile (si proprio tutto è inutile che mettete la privacy alle foto con la panza all’aria su facebook)
La soluzione è aggiungere un plugin per il vostro browser preferito che crei una VPN (virtual private network)
In linguaggio maccheronico, il pc crede di stare ancora italia, anche se state ingurgitando madeleine inzuppate nella nutella.
Le vpn purtroppo non sono sempre gratuite. Ma (per ora) i migliori plugin sono: Hola per google Chrome e Hoxx per Firefox.
Parliamo di Hoxx (Hola è simile)
Inoltre, se volete proprio strafare usate: CloudTv
il sito offre quasi tutti i canali del digitale terrestre italiano in streaming (non vi serve nessun plugin)
Buona visione! (e poche madeleine!)
Come fa “bidet” ad essere una parola Francese?!?
Com’era ardente il sole sui nostri semplici passi. La città del nord s’era trasformata in una torrida metropoli dell’equatore. Il caldo ossessionava la carne e le membra, e sgorgava copioso dai nostri pori sudoriferi.
Nei Jardin des Touleries il tutto era ampiamente enfatizzato. L’immenso spazio aperto era intervallato da larghi sentieri di sabbia grossa e, con il sole che batteva, quella terra sotto i piedi sembrava una spiaggia artificiale; e una grossa e immensa fontana dava l’impressione di un mare contenuto, spremuto e rimpicciolito all’interno di un parco meraviglioso. Numerose persone erano lì a godersi un po’ di tregua dall’afa che tormentava i piccoli appartamentini.
Noi, che all’apparenza sembravamo sei ragazzi sprovveduti tutt’altro che turisti, percorremmo per il lungo il grande giardino fino ad arrivare all’Arc du Carrousel. E mentre gli altri erano intenti parlare e a lamentarsi del caldo, i miei occhi restavano incollati sulla scena di fronte a me. L’avevo sempre immaginato, visto nei films e nelle foto; sognavo quando ne leggevo le descrizioni nei libri di Dan Brown e m’immaginavo un giorno a vederlo dal vivo: il museo del Louvre.
A un primo occhio, spiccava la piramide di vetro centrale. Avevo letto delle polemiche che scatenò quando fu costruita. Si diceva che avrebbe deturpato l’immagine di un complesso storico di rilevanza mondiale. Confesso che se nell’89 avessi avuto qualche anno in più, mi sarei unito anch’io alle proteste. Ma vedendola ora, anzi, crescendo con quell’immagine stereotipata dai media del museo, vedere un Louvre senza piramide, suonerebbe strano… come se mancasse qualcosa.
Per me, ci stava benissimo quell’affare di vetro lì in mezzo. Dicano quel che vogliono, dicano pure che contrasti con le forme arrotondate del barocco settecentesco, o che il Louvre non è di certo un museo futurista. Al contrario di tutti, penso che quella piramide sia un perfetto simbolo d’integrazione tra presente e passato. E aveva anche la sua funzione: era l’ingresso principale.
Stavamo quasi per entrare quando Yann, il francese della squadra, ci annunciò la sua dipartita. Ci salutò tutti e con mio sommo dispiacere gli strinsi la mano e gli dissi che era stato un piacere discorrere con lui. Così, dopo che Yann prese la metro e poi il treno per tornare al suo paesino, restammo in 5 a varcare la soglia del Louvre.
Il cuore mi batteva, ero ansioso. Ero nell’unico museo degno di portare questo nome. Ero all’interno di un film mentale che scorreva all’infinito. Quante opere conteneva! E così poco tempo per vederle tutte! Ci avrei passato un’intera settimana a gustarmi le più belle opere d’arte della terra. Ma il tempo scorreva e quei pelandroni dei miei compagni non si decidevano a darsi una mossa.
Afferrai una cartina da un banchetto e feci un grosso errore a consegnarla ad Antonio rendendolo così il capo-squadra della comitiva. E fra poco capirete il perché.
Come un topo in mezzo ad un mare di cibo che, invece di mangiare, si affanna a cercare un piccolo pezzo di formaggio, anche noi come prima cosa, andammo a ricercare ciò che chiunque andrebbe a vedere in quel museo: La Gioconda. Non che non fossi contento di vederla, anzi, ma volevo arrivarci per gradi. Che ne so, fermarsi da qualche Raffaello o un Delacroix come un Caravaggio o un Perugino. Niente, come tori incitati dal torero partimmo per vedere la famosa Monna Lisa.
Salimmo lungo la scala Daru per arrivare all’entrata Sully. Su un piano mediano della scala, che di lì in poi si diramava in due direzioni, c’era la mitica Nike di Samotracia. Un’imponente statua di donna alata, purtroppo priva di testa e braccia, risalente al II secolo avanti Cristo. Bellissima.
Percorremmo con rapidità degna di un maratoneta, una decina di stanze. Cercavo di osservare quanta più roba possibile mentre i ragazzi spesso mi lasciavano indietro. Lì raggiunsi e in un attimo arrivammo nella illustre sala della Gioconda, passando davanti a non meno illustri quadri.
Su una parete spoglia in mezzo alla sala rettangolare, dietro un pesantissimo e spessissimo vetro, scansando le decine di teste delle persone davanti a me, vidi il quadro. Mi avvicinai per vedere meglio. La folla era molto fitta. Tutti accalcati a scattar foto che su internet potevano trovarsi a una risoluzione migliore. Infatti, il quadro era molto più piccolo di come me l’aspettavo. Non per questo non bello! La Monna Lisa era un tantino bruttina a dirla tutta… ma sorprendentemente enigmatica. Ovunque tu ti trovi, davanti a lei, sembra che i suoi occhi stiano fissando proprio te e nessun altro. Restai a fissarla per un po’… quel quadro era così importante che aveva bisogno della meritata lunga osservazione. I miei occhi erano attratti dai suoi. Impazzisco alle illusioni ottiche, sono il mio debole. E il mio debole diventò fissare quello sguardo. Costatai che guardandola in foto non si aveva lo stesso effetto. Chissà perché? Dopotutto una foto è una foto! Cosa c’è di più fedele all’originale? Cosa nasconde quella tela? Un gran mistero sicuramente. Quel matto di Da Vinci era un genio… onore al merito.
Quando la folla divenne troppo pressante, mi allontanai. I miei amici ovviamente avevano già finito di ammirarla. Erano intenti a osservare un altro dipinto della sala.
– E che è sto coso? –
– È un Caravaggio porcaputtana! Ragazzi! Che ignoranza! – dissi infastidito.
– Dai Ciro… che ci vuoi fa… abbiamo troppa storia alle spalle per conoscerla tutta! – mi disse Antonio mortificato. Quella frase mi fece sorridere. Lo consolai…
– Vabbè… non fa niente… pensa quelli che verranno tra cent’anni quanta ne dovranno studiare! –
E dopo i discorsi esistenziali, aprimmo la cartina per avere uno spunto sulla prossima meta.
La Venere di Milo.
Tornammo sui nostri passi e ripassammo per la scalinata Daru proprio davanti alla Nike. Entrammo in una sala piena di statue. Prima di arrivare alla Venere mi fermai incantato davanti ad una statua. Raffigurava una donna seminuda con il braccio teso ed in mano una pallina. Assomigliava tanto alla mia pallina rossa. Chiusi gli occhi e per un attimo la vidi vivere davanti a me. La sua carne si dipinse di rosa, i suoi capelli di un castano chiaro, le sue poche vesti di un bianco perlaceo e la pallina, anche se all’epoca era un colore molto raro, di un rosso scarlatto. La vidi lanciarla nel vuoto con un gesto improvviso, poi aprii gli occhi… e tutto tornò alla normalità.
Raggiunsi la Venere. Bella anche lei. E soprattutto anche lei dava dei gran grattacapi agli storici! Come tutti sanno (lo spero) le braccia sono state rotte e perse nella storia. Nel corso dei secoli, numerosi studiosi hanno avanzato teorie sulla posizione originaria degli arti amputati. E nessuno riesce ancora a darsi una spiegazione plausibile. Cominciai a pensare che, per avere importanza in quel museo, e sei una statua, ti deve mancare qualcosa. La statua di prima con la pallina era praticamente intatta e non destava la minima attenzione come la Nike o la Venere. Avanzai sempre di più la teoria dell’enigmaticità delle cose. Ossia, se un visitatore che si ferma a guardare un’opera riesce a rispondere a tutte le domande che si pone nella mente, quell’opera avrà poca influenza. Non posso fare esempi pratici di domande, perché ognuno ha i suoi perché. Come il mio perché della pallina in mano a quella statua. A qualcun altro, sarà sembrato normale. Ma non a me… perché io possedevo un mio perché.
Ritornammo nella sala dei dipinti, ripassando ovviamente davanti alla Nike; e questa volta anch’io formulai delle ipotesi su dove avesse le braccia; e la stanchezza mi fece pensare solo a gesti scabrosi. Entrammo in una sala dalle pareti altissime. Sui muri erano appesi enormi quadri su tela. Finalmente avevo la possibilità di osservare La libertà che guida il popolo di Delacroix e L’incoronazione di Napoleone di David. Due dipinti che avevo trovato tra le pagine del mio libro di storia delle superiori. Belli, e sorprendentemente grandi! Più di quanto si possa immaginare.
Filammo via anche da lì. E, passando in una piccola e stretta sala dalle pareti verde scuro, notai un piccolo quadro appeso su un muro, vicino alla porta.
– Oh oh! Chi si vede! – dissi come se avessi incontrato un vecchio amico.
– Non sapevo che c’eri anche tu qui! –
Mi avvicinai al quadro che raffigurava un uomo a mezzo busto. Era un autoritratto di Albrecht Dürer. L’autore di un’incisione sorprendentemente fantastica. La richiamai nella memoria. Quanto amavo quella sua opera, tanto cara anche a quel simbolista di Dan Brown. Così densa di particolari, di allusioni, di simboli, di rompicapi, di “perché” insomma! E quella persona che guardavo nel quadro ne era l’autore.
Volevo tanto avere il potere di rendere reali le cose. Volevo rendere reale quell’uomo per porgli un fottio di domande. Anche se ero sicuro che avrebbe parlato solo in tedesco e non mi avrebbe capito. Volevo sapere, volevo conoscere, internet e i libri non bastavano più. C’erano ancora enigmi irrisolti dentro la mia testa. Enigmi che quel quadro poneva ogni volta alla mia attenzione. Cosa si nascondeva dietro quel quadro mio caro Dürer?
Non me lo dirai mai… perché così facendo, sparirebbero i miei dubbi… e tu finiresti per non affascinarmi più…
Forse… è meglio così!
Quella mattina il sole entrò con una certa resistenza in quella casa parquettata sugli Champs-Élysées. S’insinuò tra le fessure laterali che la fitta tenda plastificata non riusciva a coprire. E una volta dentro, la scena che gli si presentò davanti aveva qualcosa di grottesco e innaturale che gli sembrava aver visto solo in Vietnam ai tempi della guerra. Quel sole rise di noi… delle nostre facce stanche e assonnate; delle posizioni strane in cui dormivamo; dei vestiti sparsi e dei resti di cibo ovunque; rise di noi, perché non c’era nessun altro in città di cui poter ridere. Rise di noi e poi, con la sua potente luce, ci svegliò.
Avevo la bocca impastata e lo stomaco più arido del Sahara d’estate. L’alcol aveva fatto il suo corso lasciando un gran mal di testa e una sete inappagabile.
Ci alzammo tutti e in un’ora fummo arzilli e ben svegli, pronti, per la prossima avventura parigina. Ci catapultammo in strada con lo stesso sole che ci aveva svegliato.
Facemmo colazione in un bar a caso. Con non poche difficoltà a ordinare una brioches e un cappuccino. Sedemmo a un tavolino all’interno e cercammo di radunare quanti più ricordi possibili della serata precedente. Cercai di capire cosa avevano fatto gli altri e scoprii che non era molto differente da ciò che avevamo fatto Rafael ed io: bere e provarci con le ragazze.
Concordammo tutti che cantare Con te partirò di Bocelli a Parigi, era una delle cose da fare per forza nella vita. Fu l’apoteosi della serata, e soprattutto, totalmente imprevista. Imprevista… come la chiamata che ricevette Alberto in quell’istante.
– Pronto! Hi Yann! How are you? –
Alberto parlò con questo tizio dal nome difficile per un paio di minuti. Gli dette appuntamento nel primo luogo che gli venne in mente: la Tour Eiffel.
“Un genio… decisamente una persona molto intelligente!” pensai.
Dare appuntamento a una persona, sotto uno dei monumenti più famosi del mondo, visitato da quasi 7 milioni di persone l’anno, di sabato, ci vuole coraggio.
Gli feci un grande elogio e c’incamminammo.
Percorremmo avenue George V osservando macchine di lusso e ristoranti eleganti. Attraversammo la Senna su Pont de L’Alma e qualcosa s’iniziò a vedere da lontano. La Torre. Restai fermo un istante a osservarla. Non perché fossi estasiato o meravigliato, al contrario, quella bizzarra piramide ferrosa, non mi diceva niente. Mi dava l’impressione di essere un grosso traliccio della corrente elettrica e niente più. Cercavo nel mio corpo qualche emozione da sprigionare. Ci riflettevo… osservavo ancora… pensavo… ricordavo… Niente! Per me, quella rinomata Tour Eiffel, era solo un ammasso di ferraglia ben costruito. Rendeva meglio nelle foto da cartolina.
Dopo aver passeggiato per rue de l’université, finalmente ci fummo sotto. Proprio al centro, circondati da migliaia di persone in fila per salire. C’erano due ascensori che partivano da due piloni opposti e all’interno degli altri c’erano le scale per permettere alle persone di scendere. Mi posizionai al centro e alzai lo sguardo osservando il grosso quadrato metallico. Il culo della torre in pratica. Non mi diceva niente neanche quello. Solo ferro! Ganci, bulloni, travi… innesti, giunture, fili… cose non molto diverse da un cantiere di un grattacielo. E osservando le facce delle persone incantate dal metallo, ero invidioso e curioso di sapere il perché. Anch’io volevo provare una bella emozione… sognare e liberare un wow dalla mia bocca. Ma non riuscivo a mentire…
– Yann! My friend! –
Un normalissimo ragazzo con una normalissima borsa venne incontro ad Alberto. Era francese senza alcun dubbio. Il suo viso già parlava di per sé. Era un Vincent Cassel con vent’anni di meno e un fisico asciutto.
Ci presentammo, ovviamente in inglese, e anche a lui spiegai che Ciro ed io avevamo lo stesso nome. Iniziammo a camminare. Non chiedetemi per dove né perché. Camminammo e basta. Alberto, che conosceva questo Yann, parlò con lui per un po’, poi lo lasciò libero e subito passai all’attacco. Quel volto, quei movimenti e quel fisico, erano pressappoco interessanti per la mia fervente curiosità. Dovevo sapere di più.
– Yenn… – dissi cercando di richiamare la sua attenzione. Non si voltò e dopo capii il perché. Il suo nome andava pronunciato in maniera corretta. Nemmeno io mi sarei girato se qualcuno avesse urlato “Cero” invece di Ciro. Chiesi l’aiuto del pubblico e mi suggerirono la corretta pronuncia.
– Yann! – si girò e mi sorrise.
Mi affiancai a lui mentre camminavamo. Mi raccontò un po’ di sé. Aveva ventun anni e studiava economia come il sottoscritto. Gli piaceva la borsa e gli investimenti e mi s’illuminarono gli occhi quando me lo rivelò. Gli domandai qualcosa sull’economia francese e mi lamentai con lui perché la borsa di Parigi aveva subito un black-out causando notevoli perdite agli investitori.
In quel momento, per me, questo Yann rappresentava la Francia e Parigi. Anche se non era della città ma di un paesino a 300 chilometri di distanza. Aveva preso un treno e ci aveva messo meno di un’ora ad arrivare. E mi prese in giro dicendo che in Italia, con una buona fortuna, ne avrebbe impiegate almeno 4. Per lui, io impersonificavo l’Italia. E il problema era che non potevo dargli torto pur volendo difendere a spada tratta il mio Paese.
E così si aprì una sfida non dichiarata. Dibattemmo a lungo, senza tregua. Gli dissi che i francesi erano così stupidi da mangiare le lumache! Lui mi rispose che gli italiani erano così stupidi da non riuscire a raccogliere l’immondizia!
Il ragazzo lì, mi toccò nel vivo. Non mollava e aveva la risposta pronta. Eccitante dibattere con lui.
Gli dissi che L’Arc de Triomphe, altro non era che una banalissima copia dell’Arco della Pace di Milano. Di rimando, mi fece notare che lo spumante era una banalissima copia dello champagne.
Eravamo testa a testa come due pugili al primo round. E con una mossa non molto regolare gli dissi che la Francia era un paese di checche. Mi rispose che il Gay Pride Europeo si era svolto a Roma. Colpito e affondato. Era come duellare contro un avversario di eguale potenza.
In un impeto di rassegnazione tirai fuori l’ultima chance: – Voi francesi non avete una parola sola per dire il numero ottanta! Dovete dire per forza quattro volte venti! –
Yann ci pensò un attimo. Roteò gli occhi titubante. Si morse il labbro pensieroso. Alla fine però… mi diede ragione!
Italia – Francia = uno a zero.
(Ultimo giorno)
– Quelle est cette chose? –
– Je ne sais pas… –
Ero in un letto non mio… in un posto sconosciuto alla mia percezione. Cercavo di dormire ma dalla finestra entrava un filo di luce che mi colpiva il viso. Il vetro era aperto e sentivo delle voci provenire da fuori.
– …un bâton en plastique… –
– Comment est arrivé ici? –
C’erano due signori francesi che discutevano davanti all’ingresso di questo palazzo sconosciuto. Si stavano chiedendo chi avesse devastato il loro splendido atrio. Feci un sorriso malizioso e con un braccio tastai la spalla di mio cugino.
– O… che vuoi? –
– Mi sa che abbiamo fatto un gran bel casino ieri… –
– Speriamo che non chiamino la polizia! –
– Già… come faremo a spiegargli che non volevamo fare del male a nessuno? –
– Dormi che è meglio… –
Mi rimisi a dormire. Le voci erano scomparse. Tutto era scomparso… e soprattutto, tutto questo doveva ancora accadere. Era il futuro di una storia ancora tutta da scrivere. Una storia Parigina incredibile che cominciò qualche giorno prima… in una città, ancora inesplorata…
(Primo giorno)
Ero a Parigi!
Davvero! Ero a Parigi!
Ero nell’aeroporto di Orly. Avevo seguito il fiume di passeggeri fino al punto in cui si era dissolto diramandosi nelle varie direzioni. Ero al centro di una grande sala rettangolare. Imponenti lastroni di vetro ci dividevano dall’esterno, dove lo spettacolo era fantastico. Aerei provenienti da tutto il mondo atterravano e decollavano su chilometri sterminati di asfalto. Ero solo, ero ancora solo perché i miei amici dovevano ancora arrivare. Ero solo, e avevo un po’ di tempo per sognare…
Avevo superato quel confine. Ero riuscito a saltare nel vuoto. Il vuoto che per me era un bianco sterminato… e i luoghi erano solo storie di libri e un mucchio di geografia. Potevo vedere, sentire, toccare quel qualcosa che avevo ascoltato dalle spiegazioni dei professori liceali o visto in documentari e quadri d’arte. La mia percezione era obbligata a limitarsi al confine stretto tra inchiostro e fantasia. Il rumore delle pagine e il suo sfrigolio era l’unico suono che sentivo quando immaginavo. Li vedevo nella mia mente quei personaggi storici che avevano cambiato l’Europa. Vedevo Napoleone, alla testa del suo immenso esercito. Vedevo Luigi XIV, il re sole, immaginandolo con una lunga parrucca nera riccioluta. Vedevo la rivoluzione e quando la Senna si dipinse di rosso per tutto il sangue versato. Non potevo credere di essere nella città più importante del ‘700. Ero eccitato e impaziente. L’ansia del volo si era trasformata in ansia positiva… in ansia curiosa. Volevo vedere…
Brrrrr
Il mio stomaco brontolò come quando un bambino ti tira il pantalone perché vuole qualcosa. Scollai gli occhi dalla pista e cercai un posto dove rifocillarmi. Erano le 3 e non avevo ancora mangiato qualcosa. La mia ricerca terminò quasi subito quando vidi un’emme dorata in fondo alla sala.
Ringraziai il Dio delle multinazionali ed entrai. Era pieno di gente. Persone in fila e persone alla cassa, responsabili e inservienti… e io che mi guardavo intorno sentendomi per un attimo disorientato. Nemmeno una parola amica risuonava al mio orecchio. Mi sentivo strano… come qualcosa di esterno.
Che ci faccio qui? Mi domandai quasi dimenticandomi del mio stomaco.
Osservai il primo della fila che sciorinava un francese perfetto. Il cassiere non fece nemmeno una domanda e iniziò a preparare la sua ordinazione. La mia mente era così impegnata nella decisione della lingua da adottare che la fame era svanita. Fu il mio turno e one cheeseburger e one coke fu la scelta più adatta. Il cassiere capì e mi rispose con una domanda incomprensibile. Annuii col capo due volte e mi ritrovai con una salsetta inutilizzabile perché non avevo le patatine. Mi sedetti in un posto e mangiai il mio panino. Mi accorsi che vicino al tavolo c’era uno sportellino rotondo. Lo aprii perché le mie dita sono sempre state curiose.
Alla vista restai sbigottito. Era una presa elettrica francese. Formata da due buchi e un perno di ferro che fuoriusciva quasi al centro. Era completamente diversa da una normale presa.
“Cazzo! Calma Ciro… stai calmo… respira… Il tuo amico Antonio è italiano… casa sua sarà italiana… avrà delle prese italiane…”
Rigirai più volte il cellulare in mano con il pensiero fisso di chiamarlo e appiattire la mia paranoia. Se non fossi stato in grado di ricaricare il mio cellulare o il mio pc mi sarei impiccato con il cavo dell’alimentatore.
Mi alzai e buttai i rifiuti nel cestino. Una signora anziana mi si avvicinò e in un francese molto stretto mi chiese qualcosa…
– Excusez-moi, madame… Je suis italien! – le dissi.
“L’ho detta bene? Come sono andato? Dammi un voto da uno a dieci…” pensai mentre la fissavo.
La signora mi fece un mezzo sorriso e se ne andò. La guardai un po’ deluso come quando studi tutta la notte e il giorno dopo vai male all’interrogazione.
Fa niente… sarà per la prossima volta.
Tornai nella sala centrale e il grosso divano a forma di serpente o di S arancione, allettò la mia stanchezza. Appoggiai il mio trolley e mi distesi sopra. Avevo bisogno di dormire. Avevo passato la notte in bianco e non avevo ancora preso un maledetto caffè. Chiusi gli occhi… ma non entrambi, uno solo, l’altro restò vigile e in guardia. Come solo un ansioso paranoico riesce a fare.
Biiip…
Mi arrivò un messaggio. Era di mio cugino Ciro e diceva che erano arrivati ad un certo imbarco B ad Orly ouest. Scattai sugli attenti come un soldato di fanteria. Presi il mio trolley e scesi le scale. Inclinai il capo in alto. Centinaia di cartelli distraevano la mia attenzione.
“Orly ouest! Eccolo lì…”
Camminai in quella direzione. Camminavo e camminavo ma non raggiunsi nessun arrivo di voli. Arrivai ad un punto morto. Vidi un altro cartello…
“Orly ouest! Allora è dall’altra parte!”
Ritornai sui miei passi e raggiunsi l’altro lato dell’aeroporto. Niente. I miei amici non erano lì. Avevo perlustrato ogni dove. Chiamai Ciro.
– We! Dove cavolo siete? Vi sto cercando da un quarto d’ora! –
– Orly Ouest! Tu dove sei? –
– Beh… io sono a Or… –
Mi venne un dubbio. Possibile che i terminal potrebbero essere due? Cercai qualche cartello che me lo dicesse… e infatti…
“Orly sud!”
– Cazzo! Sono a Orly Sud! –
– Ve bene… non ti preoccupare… veniamo noi la… ciao! –
Attaccai il telefono e lo lasciai scivolare in tasca. Mi sovvenne un po’ di timore che non sarebbero riusciti a trovarmi. I miei amici, presi singolarmente, sono intelligenti e responsabili. Ma chissà perché quando si mettono insieme, tutto l’acume svanisce. In quel momento contavo su di loro. Sapevo che non mi avrebbero abbandonato.
Biiip messaggio:
Siamo fuori Orly sud, ci stiamo fumando una sigaretta.
Normale. Il lavoro di ricerca toccava ancora a me, ma almeno avevano fatto un passettino. Sorrisi. I miei amici non cambieranno mai… e del resto nemmeno io.
Percorrevo il corridoio interno osservando l’esterno dalle porte a vetri. Avanzavo svelto e ad un certo punto sentii picchiettare sul vetro.
Erano quei due che tranquillamente fumavano. Li salutai e cercai la porta più vicina. Ero felice. Mi fiondai all’esterno e li abbracciai.
– Come va Antonio? –
– Tutto a posto. –
– E tu Ciro? –
– Mha… il volo è stato un po’ traumatico. –
– Davvero? Vabbè… però siete qui sani e salvi! –
– Già! Ora andiamo a casa mia! – disse Antonio capeggiando la fila.
– Ah! Antonio scusa un attimo… ma le prese della corrente a casa tua come sono? –
Antonio fece un sorriso e guardò mio cugino… poi con una faccia come per dire “ma che domande sono” mi rispose:
– Italiane Ciro… sono italiane! –