Quatre-vingts! (la nouvelle de Paris VII)

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Quella mattina il sole entrò con una certa resistenza in quella casa parquettata sugli Champs-Élysées. S’insinuò tra le fessure laterali che la fitta tenda plastificata non riusciva a coprire. E una volta dentro, la scena che gli si presentò davanti aveva qualcosa di grottesco e innaturale che gli sembrava aver visto solo in Vietnam ai tempi della guerra. Quel sole rise di noi… delle nostre facce stanche e assonnate; delle posizioni strane in cui dormivamo; dei vestiti sparsi e dei resti di cibo ovunque; rise di noi, perché non c’era nessun altro in città di cui poter ridere. Rise di noi e poi, con la sua potente luce, ci svegliò.
Avevo la bocca impastata e lo stomaco più arido del Sahara d’estate. L’alcol aveva fatto il suo corso lasciando un gran mal di testa e una sete inappagabile.
Ci alzammo tutti e in un’ora fummo arzilli e ben svegli, pronti, per la prossima avventura parigina. Ci catapultammo in strada con lo stesso sole che ci aveva svegliato.
Facemmo colazione in un bar a caso. Con non poche difficoltà a ordinare una brioches e un cappuccino. Sedemmo a un tavolino all’interno e cercammo di radunare quanti più ricordi possibili della serata precedente. Cercai di capire cosa avevano fatto gli altri e scoprii che non era molto differente da ciò che avevamo fatto Rafael ed io: bere e provarci con le ragazze.
Concordammo tutti che cantare Con te partirò di Bocelli a Parigi, era una delle cose da fare per forza nella vita. Fu l’apoteosi della serata, e soprattutto, totalmente imprevista. Imprevista… come la chiamata che ricevette Alberto in quell’istante.
– Pronto! Hi Yann! How are you? –
Alberto parlò con questo tizio dal nome difficile per un paio di minuti. Gli dette appuntamento nel primo luogo che gli venne in mente: la Tour Eiffel.
“Un genio… decisamente una persona molto intelligente!” pensai.
Dare appuntamento a una persona, sotto uno dei monumenti più famosi del mondo, visitato da quasi 7 milioni di persone l’anno, di sabato, ci vuole coraggio.
Gli feci un grande elogio e c’incamminammo.

Percorremmo avenue George V osservando macchine di lusso e ristoranti eleganti. Attraversammo la Senna su Pont de L’Alma e qualcosa s’iniziò a vedere da lontano. La Torre. Restai fermo un istante a osservarla. Non perché fossi estasiato o meravigliato, al contrario, quella bizzarra piramide ferrosa, non mi diceva niente. Mi dava l’impressione di essere un grosso traliccio della corrente elettrica e niente più. Cercavo nel mio corpo qualche emozione da sprigionare. Ci riflettevo… osservavo ancora… pensavo… ricordavo… Niente! Per me, quella rinomata Tour Eiffel, era solo un ammasso di ferraglia ben costruito. Rendeva meglio nelle foto da cartolina.
Dopo aver passeggiato per rue de l’université, finalmente ci fummo sotto. Proprio al centro, circondati da migliaia di persone in fila per salire. C’erano due ascensori che partivano da due piloni opposti e all’interno degli altri c’erano le scale per permettere alle persone di scendere. Mi posizionai al centro e alzai lo sguardo osservando il grosso quadrato metallico. Il culo della torre in pratica. Non mi diceva niente neanche quello. Solo ferro! Ganci, bulloni, travi… innesti, giunture, fili… cose non molto diverse da un cantiere di un grattacielo. E osservando le facce delle persone incantate dal metallo, ero invidioso e curioso di sapere il perché. Anch’io volevo provare una bella emozione… sognare e liberare un wow dalla mia bocca. Ma non riuscivo a mentire…
– Yann! My friend! –
Un normalissimo ragazzo con una normalissima borsa venne incontro ad Alberto. Era francese senza alcun dubbio. Il suo viso già parlava di per sé. Era un Vincent Cassel con vent’anni di meno e un fisico asciutto.
Ci presentammo, ovviamente in inglese, e anche a lui spiegai che Ciro ed io avevamo lo stesso nome. Iniziammo a camminare. Non chiedetemi per dove né perché. Camminammo e basta. Alberto, che conosceva questo Yann, parlò con lui per un po’, poi lo lasciò libero e subito passai all’attacco. Quel volto, quei movimenti e quel fisico, erano pressappoco interessanti per la mia fervente curiosità. Dovevo sapere di più.
– Yenn… – dissi cercando di richiamare la sua attenzione. Non si voltò e dopo capii il perché. Il suo nome andava pronunciato in maniera corretta. Nemmeno io mi sarei girato se qualcuno avesse urlato “Cero” invece di Ciro. Chiesi l’aiuto del pubblico e mi suggerirono la corretta pronuncia.
– Yann! – si girò e mi sorrise.
Mi affiancai a lui mentre camminavamo. Mi raccontò un po’ di sé. Aveva ventun anni e studiava economia come il sottoscritto. Gli piaceva la borsa e gli investimenti e mi s’illuminarono gli occhi quando me lo rivelò. Gli domandai qualcosa sull’economia francese e mi lamentai con lui perché la borsa di Parigi aveva subito un black-out causando notevoli perdite agli investitori.
In quel momento, per me, questo Yann rappresentava la Francia e Parigi. Anche se non era della città ma di un paesino a 300 chilometri di distanza. Aveva preso un treno e ci aveva messo meno di un’ora ad arrivare. E mi prese in giro dicendo che in Italia, con una buona fortuna, ne avrebbe impiegate almeno 4. Per lui, io impersonificavo l’Italia. E il problema era che non potevo dargli torto pur volendo difendere a spada tratta il mio Paese.
E così si aprì una sfida non dichiarata. Dibattemmo a lungo, senza tregua. Gli dissi che i francesi erano così stupidi da mangiare le lumache! Lui mi rispose che gli italiani erano così stupidi da non riuscire a raccogliere l’immondizia!
Il ragazzo lì, mi toccò nel vivo. Non mollava e aveva la risposta pronta. Eccitante dibattere con lui.
Gli dissi che L’Arc de Triomphe, altro non era che una banalissima copia dell’Arco della Pace di Milano. Di rimando, mi fece notare che lo spumante era una banalissima copia dello champagne.
Eravamo testa a testa come due pugili al primo round. E con una mossa non molto regolare gli dissi che la Francia era un paese di checche. Mi rispose che il Gay Pride Europeo si era svolto a Roma. Colpito e affondato. Era come duellare contro un avversario di eguale potenza.
In un impeto di rassegnazione tirai fuori l’ultima chance: – Voi francesi non avete una parola sola per dire il numero ottanta! Dovete dire per forza quattro volte venti! –
Yann ci pensò un attimo. Roteò gli occhi titubante. Si morse il labbro pensieroso. Alla fine però… mi diede ragione!

Italia – Francia = uno a zero.

 

 

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