Piove… (Sara II)

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…E le gocce di pioggia continuavano a battere sul vetro di questo mio posto finestrino. Continuavo a guardare fuori nonostante avessi terminato il mio hamburger e come si era solito in questi posti, bisognava sloggiare. Ma restavo ancora lì che giocherellavo con la cannuccia della Coca Cola. Già… la Coca Cola. Chi mi conosce almeno un po’ si sarebbe già chiesto perché mai avessi preso la Coca Cola? E secondo me dovrebbe chiedersi mille altre cose. Ma a ora non sono in vena di divagazioni esistenziali.
Ero lì, seduto al mio posto, con il cartone dell’hamburger ancora caldo e qualche patatina sparsa qua e là nel vassoio rosso. La pioggia continuava a cadere… seppur incerta. I rigagnoli d’acqua sul vetro sembravano piccoli fiumiciattoli che si congiungevano alla base. L’acqua ha intrinseco odore di fantastico. Lascia immaginare la purezza e l’unicità di un elemento che è alla base della vita. In quel momento mi chiedevo come facesse la pioggia a sapere dove andare. Mi spiego meglio. Quando una goccia d’acqua scorre lentamente sul vetro, sembra già sapere la strada da percorrere. Sembra avere un destino già scritto che nessuno può interrompere. Anche se piazzassi un dito in mezzo, la goccia ci scorrerebbe attorno e continuerebbe giù fino alla sua meta. Niente potrebbe fermarla… ne lei, ne le milioni di sorelle gemelle che s’infrangevano su quel vetro. C’è chi ci vedrebbe milioni di lacrime cadute da un volto immaginario. Un volto pieno di dolore e amarezza… sconcertato dal tempo nebbioso della propria vita. E un po’ di nebbia l’avevo dentro anche io. Il mio cuore non andava… si fermava… correva… giocava a mosca cieca… e mi faceva passare le notti insonni. Volevo ricominciare dal presente.
Mi alzai e mi sistemai. Infilai il mio anello al pollice e presi il mio giubbotto di pelle dalla sedia. Svuotai il mio vassoio nel cestino stando attento a non fare troppo casino. Trattenevo in mano la mia Coca Cola ancora piena per metà. La portai via con me. Appena fuori, chiusi la porta a vetri e diedi una lunga sorsata alla cannuccia.
La strada era disseminata di pozzanghere che riflettevano le varie luci della città. Iniziai a camminare addentrandomi nella notte di questo mondo fantastico…
 
 
 
Continua…
 
 
 
– Dai ora smettila… – le dissi con dolcezza sfiorandole il viso. Lei si voltò come per non farsi vedere da me in quello stato. I suoi capelli si mossero con lei e qualche lacrima svanì luccicosa nell’aria. Lo sapevo… era di nuovo colpa mia. L’avevo scossa con i miei soliti pensieri. La mia solita vita difficile anche da raccontare. I miei guai, i miei casini, le avventure in cui mi cacciavo sempre. “Non so se ne riuscirò a venir fuori” le avevo detto. E questa non era una menzogna. Non sapevo proprio da che parte cominciare ed in mente mi girava l’idea di come finire. “Promettimi che non farai stronzate…” m’intimò lei con gli occhi arrossati. “Te lo prometto… ti prometto che qualsiasi cosa accada ne uscirò vivo”. Ed in parte mantenni quella promessa.
 
Volsi lo sguardo al cielo. Il freddo si faceva più pungente e le gocce di pioggia cadevano con più coraggio. La guardai… Aveva indosso il mio giubbotto di pelle. La superficie lasciava scivolare via le gocce d’acqua senza trattenerle. Io invece, sentivo l’acqua penetrarmi la felpa ed arrivarmi alla pelle. Amavo la pioggia… e amavo anche sentirla addosso. Ovviamente non uscivo in strada tutte le volte che pioveva! Ma quelle volte in cui, costretto dagli eventi, ero rimasto sotto la pioggia mi piacque parecchio. Si creava una strana atmosfera… difficile anche da descrivere. In quel momento ti senti solo… isolato. Le altre persone corrono con i loro ombrelli in cerca di un riparo. E la pioggia è lì… che crea una sorta di scudo immaginario tra te e il mondo. Senti l’acqua bagnarti il viso… il capelli… le mani… Senti le pozzanghere formarsi piano piano lungo il tuo percorso. Senti il rumore dell’acqua che cade. Una giostra… un’armonia… una poesia vissuta. E lì… chiudi gli occhi lasciandoti trasportare dalle emozioni.
Ma un brivido ti riporta alla realtà. Alla vita quotidiana… alla consapevolezza che la pioggia in fondo è solo pioggia e devi andartene al più presto. 
– Dai.. facciamoci un giro… – dissi.
La vita è come una melodia musicale. A volte suona note cupe e basse… contorcendoti il cuore in spasmi dolorosi. Poi, dopo un po’, si passa gradualmente ad arpeggi più alti e melodiosi. È un saliscendi di emozioni. Una volta si è giù… e poi di nuovo su. Questo era il teorema di quel periodo di vita. Quel pezzo di strada dissestato su cui mi accingevo a camminare. Un po’ come questo scomodo viottolo ciottoloso.
Un colpo di vento ci riportò il sorriso. La pioggia ci batteva violentemente sul volto. Eravamo in mezzo al corso principale e cercavamo un riparo da qualche parte. Lei sorrideva divertita dalle continue corse a destra e sinistra per ripararci sotto i balconi e le pensiline.
Le tristi parole sembravano scomparse dai suoi occhi. Non pensava più a me… o almeno non lo dava a vedere. Non so se è cosa comune alle donne interessarsi alle storie malinconiche e incasinate. Può darsi che sia la tanto nominata curiosità femminile. Non saprei. Magari Sara in quel momento mi voleva bene davvero. Quelle cose che le avevo detto e rivelato solo a lei, magari le sentiva, le capiva, le scendevano in fondo al cuore e s’immaginava nella mia situazione. Come avrebbe affrontato i miei problemi? Sarebbe scappata come me? Li avrebbe affrontati? Oppure cosa?
“Cosa?”… era la domanda chiave a quel tempo.
Oggi mi sarei dato una risposta empirica… ossia quantificare il problema e pensare ad una strategia. Analizzare gli elementi, studiare i fondamentali, formulare ipotesi. Ma qui niente matematica… niente economia… niente formule ne grafici. Solo parole… fatti… e storia.
A ripensaci ora… a distanza di cinque… sei anni… magari ci rido anche su. Però, ripensare agli stati d’animo, mi faceva capire quando davvero fossero stati pesanti quei giorni. Quando le forze mi abbandonavano e quando mi richiudevo nella mia camera seduto per terra a guardare il soffitto. Inerme… Le giornate sembravano interminabili a volte. Era come guardare un fiume in piena dall’alto di un ponte che portava via quel che restava della tua vita. Un fiume proprio uguale a quello che vedevo. Su quella strada che affacciava sull’acqua. …è c’è qualcun’altra qui con me… direbbe qualcuno. Un’amica a cui ho confidato tutto. A cui ho detto che lei era stata qui, insieme a me a vedere lo stesso fiume. E ne ridevamo… di un giorno passato insieme.
E il mio cuore urlava a gran voce la sua presenza. I suoi occhi… il suo volto… i suoi morbidi capelli… E so che sbagliavo ad attaccarmi a quelle illusioni. So che non potrà più essere così. Il passato è già stato scritto… e può solo essere ricordato.
 
Mi appoggiai con le braccia al parapetto. Il mio sguardo fissava l’orizzonte. Sotto di me, come ho detto, c’era il fiume. E la pioggia continuava a battere.
– Dai… ora non pensarci più… – disse Sara avvicinandosi.
– La vita continua… e il presente è fatto di mille realtà… –
 
– Hai ragione… ma quando c’è troppa realtà…
non resta altro che attaccarsi alle illusioni. –
 
 
 

Piove… (Sara I)

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Pioveva…
Pioveva in quella piccola città. Le nuvole sembravano non voler smettere più. Di acqua dal cielo ne scendeva un’infinità mentre i passanti cercavano un riparo. Era notte, e mi aggiravo tra le strade in cerca di un rapido spuntino. Il McDonald di Porta Venezia era lì che mi aspettava in fondo alla strada. Vedevo la scintillante insegna mentre alcune gocce mi colpivano il viso. Il giubbotto di pelle sembrava ripararmi a dovere. Ormai era abituato. Ne aveva presa tanta di acqua in passato proteggendomi da numerosi malanni. E certe volte mi ha protetto anche da me stesso. Quando uscivo di casa con la coscienza sporca e nascondevo la mia faccia dentro al suo cappuccio.
Una sirena iniziò a suonare alle mie spalle. Mi girai di botto. Era un’autoambulanza che stava facendo inversione in mezzo al traffico per poi fuggire nella direzione in cui stavo andando. Correva. Anche se la strada era tutta bagnata. Era un po’ pericoloso per i miei gusti. Anche se molto spesso, devo confessare che lo facevo anche io. Mi diverte molto il rischio… mi diverte l’imprevedibilità…
Entrai nel McDonald. Strusciai i piedi sul tappeto e tolsi il giubbotto. Mi guardai un po’ intorno intravedendo quelle quattro persone dai volti assenti. Mi diressi verso il banco e ordinai il mio solito menù. E mi assicurai, come ogni volta, che dentro al panino non ci mettessero i cetriolini. Sono fatto così… anche se sapevo che non ci sarebbero stati… domando sempre. Magari qualche cinese non sa leggere le ricette e ce li mette dentro! Chi lo sa? Vabbè… mettendo da parte le mie paranoie sui cetriolini, presi il mio vassoio e andai al solito posto. Un “posto finestrino”… come lo definivo io. Mi sedetti e incominciai a mangiare. La pioggia continuava incessantemente il suo lavoro. Ed io da una sorta di vetrina al contrario, osservavo questa specie di film in cui gli attori scappavano dalla scena… le macchine correvano.. i passanti aspettavano il loro verde per poter attraversare.. i loro ombrelli erano zuppi e la strada piena di pozzanghere… pioveva… e le gocce bagnavano il vetro… 
Proprio come quando lei piangeva…
 
 
 
 
…Molto tempo fa…
 
 
 
Ero seduto alla panchina della fermata di un autobus urbano. Ero sceso da poco ed aspettavo che arrivasse la persona che dovevo incontrare. Erano da poco passate le 4 di pomeriggio, ma sembrava sera poiché le nuvole erano talmente scure da non far passare il sole. “Sicuramente verrà a piovere” pensai, mentre volgevo lo sguardo al cielo. Alle mie spalle c’era la villa comunale e si sentiva la gente chiacchierare allegramente mentre passeggiava. Avevo imparato a conoscere Benevento da poco. Da quando mi ero trasferito in quella scuola. E lì avevo fatto nuove amicizie. Si sa… negli anni del liceo si fanno le amicizie migliori. Quelle che ti accompagnano per un bel pezzo di vita e non ti mollano più. Certe volte però, quelle amicizie non provengono dalla scuola in cui hai passato gli anni migliori ma si accodano alle altre, arricchendo la lista delle persone su cui poter contare.
Il mio telefono squillò.
Sms
“scusa il ritardo… sto per arrivare… ciao”
Staccai lo sguardo dallo schermo del mio piccolo 6600 tutto colorato di nero. Tornai a fissare le macchine con l’occhio di chi cerca qualcosa. Non sapevo come sarebbe arrivata e non sapevo nemmeno da dove.
Guardai a destra e sinistra seguendo la scia degli autobus. Le macchine scorrevano lente incastrandosi come pezzi di puzzle in una via multicolore. Una goccia mi colpì il dorso della mano. Mi asciugai con un lembo del giubbotto. Alcuni pensieri attraversarono la mia mente come un treno in corsa. Pensieri tristi e malinconici che solo una goccia di pioggia avrebbe potuto scatenare. Mentivo… mentivo a me stesso per sentirmi bene e speravo che un giorno tutte le cose si sarebbero sistemate. Perché? Quando? Dove mi avrebbe portato quella strada che avevo intrapreso? Chiusi gli occhi per un istante cercando di dimenticare. Ma nemmeno il buio poté contrastare l’assordante rumore dei miei problemi. Di solito avevo un metodo per risollevarmi un po’ da qualche casino in cui ero immischiato. Guardavo il tutto con un’ottica di una persona esterna. Alienandomi dalle situazioni spiacevoli e dalle complicazioni… e ridendone a volte. Passavo intere serate con la mente sgombra… vivendo giorno per giorno… attimo per attimo. Ma quando il tutto toccava di nuovo quota zero, allora si che entravano i casini. Mi richiudevo in me stesso lasciando che la vita bussasse alla porta che raramente aprivo. Aspettavo che la persona giusta entrasse. Ma si sa… le persone giuste… sono difficili a trovarsi.
 
Toc toc
 
Una mano leggera bussò alla mia spalla. Mi girai di scatto e vidi Sara in tutto il suo splendore.
– Scusami per il ritardo… – disse, come colpevole di qualcosa di grave.
Si sedette vicino a me, su quella panchina di una fermata di un autobus urbano.
Si sistemò la gonna e si mise più comoda.
– Allora? Come mai da queste parti Ciro? –
– Avevo voglia di farmi un giro… –
– Tutto bene? – mi chiese con una voce seria. Ed io, nel mio solito giro di menzogne, dissi anche a lei che andava tutto bene. Ma Sara era una ragazza diversa. Sara non ci credeva. Sara sapeva già tutto anche solo dal mio sguardo. E mi guardò negli occhi mentre le dicevo che andava tutto bene.
La mandò giù, almeno per il momento e sdrammatizzò. – Dai facciamoci un giro… – mi disse, perché erano le sole parole che in quel momento volevo sentirmi dire.
– Tutto bene a te? – le chiesi.
– Bè… mica poi tanto… Sto riflettendo un po’ su questa storia… con il mio ragazzo… –
– Già… è proprio il momento adatto per parlare di storie d’amore… – Le dissi fingendo di grattarmi la testa.
Lei sorrise…  – Non navighiamo in belle acque! –
– Le acque non sono un problema… è il vento… la tempesta… i fulmini che ti cascano sulla testa all’improvviso da tutte le parti… –
Sara sapeva dove volevo arrivare. Aveva visto molte volte i miei occhi dissolversi nel vuoto alla ricerca di qualcosa di vago e profondo. Come in quel momento. Avevo dentro di me un fiume in piena che aveva voglia di uscire… di sfondare ogni cosa… tutto e tutti e liberare il mio essere dall’ostile peso che avevo sul cuore. Ma nella bocca c’era qualcosa che mi bloccava. Come un tappo messo in gola da qualcuno d’ignoto che non mi permetteva di sfogarmi liberamente. Era l’esperienza che mi bloccava… era l’esperienza di brutte amicizie e di persone non troppo fidate a cui ho confidato preziosi segreti. Pentendomi. Ma Sara non era così… e ne ero ben cosciente. Dovevo solo convincere il mio istinto a fidarsi di lei.
 
Percorremmo il corso principale. Qualche gocciolina di pioggia si sentiva qua e là senza dare troppo fastidio. Avevo indosso il mio giubbotto che mi proteggeva e mi teneva al caldo mentre lei, solo a guardarla, mi faceva venire i brividi di freddo.
– Non senti freddo? – Le chiesi
– Na… per niente… – (attimo di silenzio)
– Scherzavo! Sto morendo di freddo! Ho fatto male ad uscire così leggera. – disse sfregandosi le braccia.
Così mi tolsi il giubbotto e glielo offrii. Sotto, avevo una di quelle felpe con il cappuccio che mi avrebbe riscaldato ugualmente. Lei non lo accettò subito ma sfiorando il mio caldo giubbotto cambiò idea e disse.
– Ok… ma te lo ridò subito! –
Adoravo la sua sincerità. Adoravo il fatto che non sapeva mentire. Era una ragazza che all’apparenza sembrava una delle tante. Ma la sua parte nascosta, la sua indole, il suo carattere, erano cose preziose che solo poche avevano.
Giungemmo al nostro posto. Nostro… per modo di dire. Era una panchina che ci piaceva parecchio. Circondata da palazzi ma immersa nel verde… seminascosta da sguardi indiscreti. Un posto ideale quando hai voglia di parlare con qualcuno.
– Allora? Come mai è così tanto che non ti fai sentire? –
– Ho il telefono fuori uso… –
– Smettila… ora fai il serio! Dai… so che c’è qualcosa che non va… –
– Lo sai? E come lo sai? –
– Dal tuo odore… puzzi di “qualcosa che non va”! –
Ridemmo…
Una cosa era certa: “era la migliore… a saper sdrammatizzare…”
 
E tra una cosa e l’altra partì il mio racconto. Lei stava ad ascoltarmi silenziosa aspettando impaziente il suo momento. Le raccontai della storia con Erika e della sua inevitabile fine. Le raccontai dei miei genitori, delle guerre in casa e fuori… e le parlai della scuola dicendole:
– …l’ho lasciata… –
Lei sgranò gli occhi in modo eccessivo come se le avessi annunciato la morte di qualcuno. Ma subito si riprese e balbettando impercettibilmente disse:
– I tuoi lo sanno? –
– Certo che non lo sanno… continuo a mentirgli… –
E lei capì… non chiese come mai e perché si fanno certe cose. Si fanno e basta… è un misto di eventi che ti portano a una conseguenza irreparabile. Risalire al principio, percorrendo a ritroso un cammino sbagliato, non è una buona scelta per risolvere il problema. È solo una pugnalata in più al cuore e forse non una, ma due, tre, quattro… fino a quando non senti un peso sul collo che risale velocemente verso il centro della fronte… e da lì scende giù… sotto forma di lacrime. E in quel momento… non puoi proprio più fermarti.
L’ho voluto dire lo stesso a Sara… anche se lei non me lo chiese esplicitamente. Volevo che almeno lei fosse a conoscenza del peso che avevo addosso. Forse sbagliavo, perché vedevo il suo volto assorbire le mie parole e farsi pian piano più triste.
Feci un sospiro..
Tirai i piedi sulla panchina… abbracciai le gambe e poggiai la testa sulle ginocchia.
– C’è stato un tempo in cui credevo… – le dissi.. – …che le cose sarebbero andate per il verso giusto… –
E lì non resse più…
 
Una lacrima scese dai suoi occhi..
piccola e leggera percorse tutto il viso…
il suo sguardo era mutato…
non so se aveva compassione di me o cosa..
so solo… che mi sentivo colpevole…
 
 
 

Perché mi piace osservare la città da lontano…

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Una canzone…
Tutta una vita può racchiudersi in una canzone. Perché alcune parole, messe in un determinato ordine, danno vita a pensieri che spesso non si e sicuri di aver cancellati. Purtroppo sono ancora lì… in questo oscuro universo che è la mente umana. Ed anche i miei erano lì. Duri a cancellarsi come una ferita profonda che lascerà una cicatrice. Non dico che certe canzoni potrebbero riaprire quelle ferite… ma solo che lascerebbero intravedere quei segni che cerchi di nascondere. Perché ormai la ferita s’è rimarginata col tempo. Le stagioni sono passate, gli alberi hanno perso e ripreso le foglie e tutto è tornato come in primavera… o almeno credo che sia così.

Fuori dalla finestra pioveva. Ero nella mia camera a far volteggiare la palla da baseball in aria, disteso sul letto a guardare il soffitto. Il mio Ipod collegato alle casse girava in fase random facendomi ascoltare quelle canzoni che da lì non avevo mai cancellato. Quell’aggeggio era diventato vecchiotto e me ne accorsi dalle canzoni che stavo ascoltando. Strofe e ritornelli che cantavo quando Milano era ancora una meta lontana… e di sogni ne avevo ancora tanti… perché ero un adolescente ancora un po’ ingenuo che doveva capire ancora un bel po’ della vita.  Quella vita che tante volte ho rischiato… perché ero un adolescente… ingenuo… ma folle.
Ed ora sono qui. Ancora tutto intero a far volteggiare un palla in aria.
– Merda! –
La palla mi cadde vicino alla porta del balcone. Mi alzai e riprendendola diedi uno sguardo all’esterno. Era sera e tutte le luci della città si erano accese. Dal cielo proveniva ancora una leggera pioggerellina che accentuava quello strano odore che ha la pioggia. Non so come descriverlo, per me è semplicemente l’odore della pioggia. Quell’odore che senti quando la pioggia ti colpisce il viso. Quando gli alberi si muovono al vento e non hai altro a cui pensare se non a quell’odore.
Uscii fuori e mi affacciai al balcone. Guardavo la città dall’alto. Come uno spettatore che assiste alla vita reale. Invisibile agli occhi dei protagonisti…
Invisibile tra la pioggia…

E il cielo non smette…
E sono in gran tiro…
Le tipe che entrano al Vox…
oppure al Corallo…
e più in là c’è Kingo…
che è già nudo in nome del rock…
e in una balera son già all’hully gully…
l’orchestra da ballo…
c’ha un’altra serata a Pavia…
e ci sono anch’io…

Il mio ipod continuava a girare e finì su quella canzone. E come dicevo prima, le canzoni nascondono qualcosa. Quel qualcosa che liberano quando vengono ascoltate. E la mente fantastica spaziando tra i ricordi. Ed è impossibile prevedere quale storia passata ti capiti davanti.
“Già… è proprio impossibile…” pensai.
E tornai a guardare fuori… perché mi piace osservare la città da lontano…

Un paio di anni indietro nel passato

Erano le cinque del pomeriggio ed ero seduto su una panchina. In mano, il mio solito libro da leggere che mi portavo dietro nella mia borsa. Il tempo era particolarmente soleggiato ma stava scendendo la sera e l’aria tendeva a rinfrescarsi. Nelle orecchie, il mio ipod nuovo di zecca con su inciso a laser: “Questa è la mia vita”. E lo era davvero, dato che non mi separavo mai da lui. Ormai era diventato un compagno di viaggio e di un bel po’ di avventure. Ogni tanto cambiavo canzone. Alcune erano troppo vecchie per ascoltarle ed altre non avevano l’ambientazione giusta. Suonavano i Blink che con la loro “Dammit” mi davano un po’ di spensieratezza. Continuai la lettura del libro. Le pagine scorrevano e davano forma a quella storia. Una storia d’amore. Una di quelle complicate. Fatta di andate e ritorni lungo una strada a doppio senso. L’amore…
Chiusi per un attimo il libro e mi distesi sulla panchina a guardare il cielo. La canzone stava volgendo al termine ed aveva perso tutta quella carica emotiva che mi aveva dato. Purtroppo alcune parole, anche se lette in altre storie, facevano male. E nemmeno una canzone spensierata poteva tirarti su. Avevo bisogno di altro… ma non sapevo immaginarmi cosa… Chiusi gli occhi…

Quando li riaprii c’era il buio. Mi ero addormentato su quella panchina. Le luci della villa comunale s’erano accese e sembrava quasi un posto incantato. C’era ancora gente. Gruppetti di ragazzi andavano e venivano lungo i sentieri ciottolosi. Alcune coppiette si fermavano sulle panchine mentre qualche anziano dava ancora da mangiare ai piccioni. Presi il mio libro e lo misi in borsa. L’Ipod stava ancora girando in casuale tra le canzoni. Misi le cuffie e…

Qui la notte picchia bene…
su chi molla e su chi tiene…
qui la notte picchia forte…
gatti svelti vite storte…

Quella canzone…
La canzone che aveva segnato la colonna sonora dell’anno scorso. Quando ancora ero insieme ad Erika. Quando quelle parole che cantavo erano rivolte a lei. Quando…

Voltai lo sguardo verso destra. Alcune ragazze stavano camminando in gruppo lungo il sentiero nella mia direzione. Erano ancora troppo lontane per poter distinguere i volti… ma qualcosa mi diceva che c’era un volto in particolare che conoscevo bene. Un volto di una ragazza… di quella ragazza. No… non poteva essere lei. Lì, a quell’ora, in quella villa e dopo quella canzone. Adoravo le coincidenze… e anche lei. Erano il simbolo che qualcosa nelle nostre vite venisse pilotato da qualcuno… fosse stato un destino o un ente supremo. Cercavo di convincermi che non fosse lei. Dopotutto mi era capitato parecchie volte di scambiare passanti sconosciuti per altre persone. “Sarà la solita somiglianza” mi dissi e smisi di osservarla.
Ma quella ragazza che avevo tanto osservato mi guardava sua volta. Io ero assorto nei pensieri di una canzone un po’ troppo “pesante”. Disse qualcosa alle sue amiche e si staccò dal gruppo. Camminava verso di me. Sentivo i suoi passi leggeri avanzare.
– Ciao Ciro! –
Alzai lo sguardo. La riconobbi… il tempo si fermò per un istante. Anche il mio cuore. Tutto scorreva a rallentatore. Sentivo solo voci. Sentivo il rumore di una macchina in lontananza. Sentivo il rumore della fontana e dei bambini che giocavano attorno. Sentivo… Sentivo il peso di quest’anno passato senza di lei… Sentivo il peso di quelle lacrime ormai andate… Sentivo la sua voce.
– Ciro… che c’è? Non rispondi? –
– Scusa Erika… sai è passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che ci siamo visti… –
– Già… lo so… anche per me è stata una sorpresa incontrarti… –
– Una bella… o una brutta sorpresa? – le chiesi ironicamente.
– C’è qualcuno che mi deve ancora un gelato ed una caffè! – disse lei evasiva.
– Dai! Ancora per quella volta che non avevo soldi! – sorridemmo insieme.
– Ti va se ci facciamo un giro? –
– Certo che si… –

E l’uno accanto all’altra passeggiammo tra gli alberi, prendendo in giro i bambini distratti. I nostri sguardi cercavano d’incrociarsi il meno possibile. C’era una sorta d’imbarazzo tra di noi. Ormai non avevamo più quella confidenza di un tempo. E lei sembrava anche più matura, molto più riflessiva, insomma, un po’ era cambiata, anche se da fuori restava sempre la stessa.
– Come mai da queste parti Ciro? –
– Avevo voglia di starmene un po’ tranquillo da solo… –
– Ah… vabbè… scusa se ti ho disturbato! – disse sorridendo.
– No… non hai disturbato. Anzi… sapevo che saresti venuta… –
– E chi te l’ha detto? –
– Ligabue… –
– E sentiamo… come te l’avrebbe detto? –
– Beh… prima che arrivassi.. sul mio ipod, è capitata casualmente la nostra canzone. –
– Che coincidenza… –
– Già… che coincidenza… –
E a noi piacevano le coincidenze. Avevamo un gioco tutto nostro. Ogni volta che accadeva una coincidenza dovevamo trovarle una possibile spiegazione. Anche la più assurda. Ovviamente erano escluse le frasi del tipo: “è stato il destino a volerlo” o robe simili. Una spiegazione, pura e semplice.
Ma questa volta quel gioco non avvenne. Ci guardammo solo negli occhi per un istante… come per sottolineare che entrambi avevamo capito.
“Il gioco delle coincidenze” era finito.
Un bambino frettoloso ci tagliò la strada gridando: – Mamma arrivo! –
Ci fermammo e vedemmo che tutti se ne stavano andando. Era arrivato l’orario di chiusura della villa e a poco a poco si stava spopolando. Mi saltò in mente un’idea. La presi per mano e le dissi:
– Come ai vecchi tempi? –
Lei capì e mi rispose: – Come ai vecchi tempi… –
Mi guardai intorno cercando d’intravedere il custode. Lo notai e cambiai direzione. Erika mi seguiva sorridente. Perché questo era un altro dei nostri giochi. E ci piaceva…
Trovai un posto perfetto. Un posto al confine della villa dove nessuno ci avrebbe trovato. Ci nascondemmo dietro un cespuglio. Il cuore batteva perché il custode si stava avvicinando nella nostra direzione. Faceva il suo solito giro d’ispezione. Erika guardava davanti a me. La sfiorai per gioco e lei quasi saltò. Per poco non ci fece scoprire, ma il custode tornò indietro e si allontanò da noi. Dopo un po’ uscimmo da quel “rifugio”.
Riconoscemmo quel paesaggio che un tempo guardavamo con gli occhi degli amanti.
Le luci dei lampioncini erano ancora accesi ma erano distanti da noi.
– Ti va di vedere la città? –
– Speriamo che non sia cambiata… –
Nella villa comunale c’era un posto da cui si vedeva tutta la città. Ed era stupendo. Come lo era ora. In tutti questi mesi avevo dimenticato questo particolare. Avevo dimenticato che anche io potevo avere una posizione privilegiata da cui guardare il mondo. E questa meraviglia me l’aveva regalata lei portandomi lì per la prima volta quasi un anno e mezzo fa…
– Tutto è rimasto come un tempo… – affermai.
– Non fai attenzione… – mi disse. – Vedi, qualcosa è cambiato. Per esempio, la vedi quella casa laggiù? Quella che dicevamo sempre che non avrebbero mai finito di costruire? Ora eccola lì, con le luci accese e le piantine sui balconi. Oppure quegli alberi lì… e quella strada… guarda quante differenze… –
Era molto attenta ai particolari. L’amavo per questo. Perché sapeva cogliere nelle cose le differenze con le altre. Perché sapeva far diventare un semplice pezzo di carta qualcosa di unico. Perché sapeva fare tutto e nonostante ciò aveva sempre voglia d’imparare.
Un brivido le percorse la schiena. L’avvertii perché le nostre spalle si toccarono. Non dissi niente, mi tolsi il giubbotto di pelle e glielo appoggiai sulle spalle. Non disse niente.
Ci guardammo un po’ negli occhi..
e…

– Ciro io… –
– Lo so… è ora di tornare a casa… –

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