A Neverending Summer (III)

Perché mi danno sempre del bravo ragazzo? E’ odioso…

Buio… luci intermittenti… persone.
Ragazzi e ragazze in ogni luogo ballavano, strusciandosi gli uni sugli altri. La procace deejay della serata, metteva su, pezzi ritmati dal gusto prettamente estivo.
Guardai tra le mie mani e ci trovai un cocktail.
Direi proprio che dovresti smetterla! Dissi alla mia mano. Purtroppo, non mi sentivo ancora sazio di alcol e continuavo a bere. Avevo quella strana e ossessiva sensazione che mi spingeva a continuare a prendere drinks. Chissà dove sono gli altri… pensai.
Una mano mi toccò la spalla. Era Gianni che mi sorrise. M’indicò un punto tra la folla che difficilmente misi a fuoco. C’era il piccoletto che avevamo portato con noi, che ballava con tre e ripeto 3, ragazze attorno a lui.
–       Ci sa fare il ragazzino! – dissi a Gianni.
–       Già! –
Il ragazzetto moro di certo non faceva complimenti. Elargiva toccate e contatti fisici a destra e manca. Le ragazze ridevano di tanta spontaneità. Vedendolo in quegli atteggiamenti, quasi lo invidiai pensando a tutti i ceffoni che mi sono preso per fare soltanto la metà delle cose che stava facendo lui. Afferrò una ragazza per il collo e cercò di baciarla. Lei rise e lo allontanò. Gianni ed Io decidemmo d’intervenire, per evitare future discussioni. Ci avvicinammo al gruppetto delle ragazze. Ci presentammo e subito ci scusammo per i comportamenti eccessivi del nostro compagno. Le ragazze però, non sembravano turbate, anzi, erano molto divertite per la strana serata. Scambiai due chiacchiere con tutte e mi meravigliai quando mi dissero che avevano passato tutte i trent’anni. Mi sentii stranamente piccolo nei miei 26, per la prima volta dopo molto tempo. Il ragazzetto intanto, si comportava peggio di una scimmia imbizzarrita. Ballava, toccava, strusciava. Non perdeva un colpo.
Poi… Arrivò la schiuma dal cielo e fu blackout.
Le luci si fecero più scure e l’aria diminuì in un colpo solo. In un attimo, la pista si riempì di corpi inzuppati che tentavano di danzare nel poco spazio disponibile.
Tra la schiuma, la forte musica e la poca aria, non so descrivere cosa mi reggesse in piedi. Smisi di ballare e cercai un varco verso l’uscita. Mi sedetti su un cubo per poi scoprire che era una cassa dalle forti vibrazioni che emanava al mio culo.
Mi guardai le gambe e i vestiti. Fradici. Tirai fuori dalla tasca il mio cellulare per controllarne lo stato. Zuppo anche lui. Nell’altra mano avevo stranamente un cocktail.
Ora tu dimmi come cavolo sei finito qui! Gli dissi.
Subito dopo il diverbio tra me e il mio cocktail, si sedette una ragazza di fianco a me.
La guardai… mi guardò.
–       Ciro… piacere… – le dissi.
–       Monica… – mi rispose.
–       Vuoi? – le chiesi porgendole il mio cocktail.
–       Sì, grazie! – mi sorrise.
Scambiamo due chiacchiere e mi disse che studiava Sociologia. Alche, inarcando un sopracciglio, le mostrai il mio volto interrogativo. Non ho mai saputo bene cosa studiasse un sociologo… quindi glielo domandai e lei gentilmente me lo spiegò. Anche se il luogo per certi discorsi era il meno adatto, fu una spiegazione impeccabile. Purtroppo però, colpa del troppo alcol di quella sera, continuerà a restare una facoltà misteriosa per me, fino a quando non incontrerò qualcun altro che studi sociologia…

Da sobrio!

A Neverending Summer (II)

Luci soffuse Discoteca

“Palinuro personifica il caro nocchiero di Enea che perde la vita perché il Dio del sonno lo fa addormentare con musica e dolci parole e poi lo butta in acqua.”

 

I freni della Fiesta stridettero nel fermarsi in cima a una piccola salita. Non trovammo parcheggio più a valle perché il piccolo paesino di mare era completamente sommerso di persone. Gianni ed Io, guardandoci negli occhi, impugnammo le maniglie delle relative portiere. – Iniziamo la serata? – dissi e a un suo cenno del capo, scendemmo dalla macchina.
Palinuro si estende su due vie che s’incontrano in due piazze principali. Da un lato s’intravede il mare tra i palazzi e dall’altro vi è una piccola altura. In quelle due strade si concentra il cuore della movida giovanile della costiera. Si radunano lì per passare il preserata, parlare con i PR delle discoteche e bere qualche drink.
Appena arrivati nella piazza, ci trovammo di fronte a una folla incredibile. Ragazzi e ragazze di ogni tipo che si ammassavano e conversavano tra di loro, generando un fitto vociare. Guardai l’orologio, erano le 11,30 di sera.
C’intrufolammo tra la folla nella speranza di raggiungere un bar. Arrivati alla cassa, iniziammo il primo giro di Corona. Ne sarebbero serviti almeno 3.
Guardai la mia birra e pensai a quanto fosse stato facile arrivare fin lì. Il viaggio, grosso modo, era stato divertente, eccetto per le eccessive urla di Gianni. Cosa avremo fatto ora? Mi chiesi, dopo aver preso l’ultimo sorso della mia birra. L’alcol iniziava a sfondare le dure pareti del cervello, bussando con insistenza alla porta della ragione, pregandola di smettere di rompere le palle. La vista, già poca di per sé, iniziò ad offuscarsi, riducendosi a un cerchio sfocato. Cercai Gianni tra la folla. Vidi che era già passato all’azione. Aveva adocchiato una ragazza in un gruppetto di ragazzi. S’era avvicinato, aveva rotto il ghiaccio e ci parlava con disinvoltura. Anche i suoi amici erano simpatici. Così m’avvicinai anch’io.

Circa un’ora dopo eravamo in macchina in direzione della discoteca che ci aveva consigliato un’avvenente PR. Non so come avesse fatto a convincerci… ma aveva davvero due belle tette. Gianni come al solito guidava. Non mi avrebbe mai lasciato guidare nello stato in cui mi ritrovavo. Guardai dietro, nei sedili posteriori e vidi un ragazzo. Distinguevo a fatica i lineamenti a causa dell’alcol. – Piacere, Ciro. – gli dissi. Lui rise pensando che stessi scherzando. – Ci siamo presentati mezz’ora fa! – rispose.
–  Ah… – pronunciai meravigliato.

Mi rivolsi sottovoce a Gianni cercando di non farmi udire dal nostro ospite, come solo un ubriaco in macchina potrebbe pensare.
–  Chi è? E perché è qui? –
–  E’ un amico di Anna… la ragazza che ho conosciuto… voleva venire. –
–  Ma sei matto? Chi lo conosce questo?! Magari volevi anche farlo guidare?? – dissi stizzito.
–  No ragazzi! Non posso ancora guidare… ho 17 anni – disse il ragazzo ridendo dai sedili posteriori.

Gianni ed Io ci guardammo stupiti negli occhi. E la sua faccia mi disse che neanche fosse a conoscenza dell’effettiva età del ragazzo. Insomma, eravamo ubriachi e avevamo la responsabilità di un minorenne sconosciuto sulle spalle.
Mi toccai la fronte e maledissi il momento in cui ho permesso alla ragione di abbandonare la sua sede natale.

A Neverending Summer (I)

A neverendign Summer (I)

Ansie, paure, pensieri… tutti lì fuori ad aspettarmi

– Tu mi vuoi far morireeeee! – gridò Gianni dal sedile passeggero della mia Ford fiesta.

Erano le nove e mezza passate. La notte era scesa prima del previsto, segno che le giornate si stavano accorciando. Guidavo o qualcosa di simile. Tenevo il volante bloccato con un ginocchio mentre finivo di scrivere una mail sulla querty del mio cellulare.
– Stai andando addosso a quel ciclista!! – urlò.
– Si l’ho visto! –
– Quello è un camion!! –
– Cavolo da dove è sbucato? – dissi evitandolo per un soffio.
– Basta! Dammi quel cellulare!! –
– No aspetta! Ho quasi finito! –
Gianni mi strappò il cellulare di mano. Cercai di riprendermelo mentre lui lo teneva sospeso lontano da me, proprio come si faceva alle elementari per prendere in giro gli altri ragazzini. – Ridammelo! – gli intimai, girato nella sua direzione. – No! –

Peeeee Peeeeee

Il suono di un clacson strombazzante ci fece girare entrambi verso la strada. Una panda blu guidata da un’ingenua e impaurita ragazza ci stava venendo addosso. In realtà eravamo noi ad andare addosso a lei, visto che eravamo dalla parte sbagliata della strada. Afferrai il volante e la scansai con una rapida manovra. La ragazza, con qualche anno di vita in meno, continuò a strombazzare anche dopo averci superati o sfiorati, per definire meglio la cosa.
Tornai a guardare Gianni. – Ridammelo! – gli dissi. Lui mi guardò e impugnò, minaccioso, la leva del freno a mano.
– Ciro, fermati e fammi guidare! Voglio vivere ancora un po’ io! – disse, mentre minacciava di tirare quella leva per bloccare la macchina.
Per evitare grane con Gianni, alzai le mani e accostai. Subito si mise alla guida e il viaggio continuò più tranquillamente. Tirai fuori dalla borsa la mia fotocamera. Montai un obbiettivo adatto e iniziai a fare qualche foto alle macchine.
Il buio, le luci dei lampioni, i fari e la striscia di mezzeria davanti a noi contribuivano ad alimentare quella strana e bella sensazione che invase il mio cuore.
Dietro di noi non c’era una strada… ma i miei pensieri. Fuggivamo da quelli. Fuggivamo dalla realtà. Per un attimo mi girai indietro sperando che fosse davvero così. Sarebbe stato troppo facile. E infatti, dietro, attraverso il lunotto posteriore vedevo solo macchine e strada, fari e lampioni. Le stesse cose che avevo davanti.
Maledizione… ci sarà una cura? Spero che questa fuga serva a qualcosa…

Il piano di quella sottospecie di vacanza era semplice. In barba ad ogni progetto che la mia mente ansiogena cercava di sprigionare, mi limitai a un semplice “Partiamo!”. Spiazzai la maggior parte degli organi rimasti che si riunirono in un assemblea condominiale. Il cuore chiese alla mente se fosse entrata in ferie in quel periodo visto che la dose di razionalità era brutalmente calata. La mente rispose con un secco “fatti i cazzi tuoi!” e tutti gli altri, stomaco, fegato e polmoni iniziarono ad applaudire con un conseguente boato. I polmoni, contenti del risultato, mi permisero di respirare aria dal dolce sapore di libertà.

Gianni colse al volo il mio invito e saltò a bordo della mia macchina in un batter d’occhio.
Direzione sud, Palinuro, a circa 200 chilometri da casa.
La più vicina patria del divertimento!

Quatre-vingts! (la nouvelle de Paris VII)

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Quella mattina il sole entrò con una certa resistenza in quella casa parquettata sugli Champs-Élysées. S’insinuò tra le fessure laterali che la fitta tenda plastificata non riusciva a coprire. E una volta dentro, la scena che gli si presentò davanti aveva qualcosa di grottesco e innaturale che gli sembrava aver visto solo in Vietnam ai tempi della guerra. Quel sole rise di noi… delle nostre facce stanche e assonnate; delle posizioni strane in cui dormivamo; dei vestiti sparsi e dei resti di cibo ovunque; rise di noi, perché non c’era nessun altro in città di cui poter ridere. Rise di noi e poi, con la sua potente luce, ci svegliò.
Avevo la bocca impastata e lo stomaco più arido del Sahara d’estate. L’alcol aveva fatto il suo corso lasciando un gran mal di testa e una sete inappagabile.
Ci alzammo tutti e in un’ora fummo arzilli e ben svegli, pronti, per la prossima avventura parigina. Ci catapultammo in strada con lo stesso sole che ci aveva svegliato.
Facemmo colazione in un bar a caso. Con non poche difficoltà a ordinare una brioches e un cappuccino. Sedemmo a un tavolino all’interno e cercammo di radunare quanti più ricordi possibili della serata precedente. Cercai di capire cosa avevano fatto gli altri e scoprii che non era molto differente da ciò che avevamo fatto Rafael ed io: bere e provarci con le ragazze.
Concordammo tutti che cantare Con te partirò di Bocelli a Parigi, era una delle cose da fare per forza nella vita. Fu l’apoteosi della serata, e soprattutto, totalmente imprevista. Imprevista… come la chiamata che ricevette Alberto in quell’istante.
– Pronto! Hi Yann! How are you? –
Alberto parlò con questo tizio dal nome difficile per un paio di minuti. Gli dette appuntamento nel primo luogo che gli venne in mente: la Tour Eiffel.
“Un genio… decisamente una persona molto intelligente!” pensai.
Dare appuntamento a una persona, sotto uno dei monumenti più famosi del mondo, visitato da quasi 7 milioni di persone l’anno, di sabato, ci vuole coraggio.
Gli feci un grande elogio e c’incamminammo.

Percorremmo avenue George V osservando macchine di lusso e ristoranti eleganti. Attraversammo la Senna su Pont de L’Alma e qualcosa s’iniziò a vedere da lontano. La Torre. Restai fermo un istante a osservarla. Non perché fossi estasiato o meravigliato, al contrario, quella bizzarra piramide ferrosa, non mi diceva niente. Mi dava l’impressione di essere un grosso traliccio della corrente elettrica e niente più. Cercavo nel mio corpo qualche emozione da sprigionare. Ci riflettevo… osservavo ancora… pensavo… ricordavo… Niente! Per me, quella rinomata Tour Eiffel, era solo un ammasso di ferraglia ben costruito. Rendeva meglio nelle foto da cartolina.
Dopo aver passeggiato per rue de l’université, finalmente ci fummo sotto. Proprio al centro, circondati da migliaia di persone in fila per salire. C’erano due ascensori che partivano da due piloni opposti e all’interno degli altri c’erano le scale per permettere alle persone di scendere. Mi posizionai al centro e alzai lo sguardo osservando il grosso quadrato metallico. Il culo della torre in pratica. Non mi diceva niente neanche quello. Solo ferro! Ganci, bulloni, travi… innesti, giunture, fili… cose non molto diverse da un cantiere di un grattacielo. E osservando le facce delle persone incantate dal metallo, ero invidioso e curioso di sapere il perché. Anch’io volevo provare una bella emozione… sognare e liberare un wow dalla mia bocca. Ma non riuscivo a mentire…
– Yann! My friend! –
Un normalissimo ragazzo con una normalissima borsa venne incontro ad Alberto. Era francese senza alcun dubbio. Il suo viso già parlava di per sé. Era un Vincent Cassel con vent’anni di meno e un fisico asciutto.
Ci presentammo, ovviamente in inglese, e anche a lui spiegai che Ciro ed io avevamo lo stesso nome. Iniziammo a camminare. Non chiedetemi per dove né perché. Camminammo e basta. Alberto, che conosceva questo Yann, parlò con lui per un po’, poi lo lasciò libero e subito passai all’attacco. Quel volto, quei movimenti e quel fisico, erano pressappoco interessanti per la mia fervente curiosità. Dovevo sapere di più.
– Yenn… – dissi cercando di richiamare la sua attenzione. Non si voltò e dopo capii il perché. Il suo nome andava pronunciato in maniera corretta. Nemmeno io mi sarei girato se qualcuno avesse urlato “Cero” invece di Ciro. Chiesi l’aiuto del pubblico e mi suggerirono la corretta pronuncia.
– Yann! – si girò e mi sorrise.
Mi affiancai a lui mentre camminavamo. Mi raccontò un po’ di sé. Aveva ventun anni e studiava economia come il sottoscritto. Gli piaceva la borsa e gli investimenti e mi s’illuminarono gli occhi quando me lo rivelò. Gli domandai qualcosa sull’economia francese e mi lamentai con lui perché la borsa di Parigi aveva subito un black-out causando notevoli perdite agli investitori.
In quel momento, per me, questo Yann rappresentava la Francia e Parigi. Anche se non era della città ma di un paesino a 300 chilometri di distanza. Aveva preso un treno e ci aveva messo meno di un’ora ad arrivare. E mi prese in giro dicendo che in Italia, con una buona fortuna, ne avrebbe impiegate almeno 4. Per lui, io impersonificavo l’Italia. E il problema era che non potevo dargli torto pur volendo difendere a spada tratta il mio Paese.
E così si aprì una sfida non dichiarata. Dibattemmo a lungo, senza tregua. Gli dissi che i francesi erano così stupidi da mangiare le lumache! Lui mi rispose che gli italiani erano così stupidi da non riuscire a raccogliere l’immondizia!
Il ragazzo lì, mi toccò nel vivo. Non mollava e aveva la risposta pronta. Eccitante dibattere con lui.
Gli dissi che L’Arc de Triomphe, altro non era che una banalissima copia dell’Arco della Pace di Milano. Di rimando, mi fece notare che lo spumante era una banalissima copia dello champagne.
Eravamo testa a testa come due pugili al primo round. E con una mossa non molto regolare gli dissi che la Francia era un paese di checche. Mi rispose che il Gay Pride Europeo si era svolto a Roma. Colpito e affondato. Era come duellare contro un avversario di eguale potenza.
In un impeto di rassegnazione tirai fuori l’ultima chance: – Voi francesi non avete una parola sola per dire il numero ottanta! Dovete dire per forza quattro volte venti! –
Yann ci pensò un attimo. Roteò gli occhi titubante. Si morse il labbro pensieroso. Alla fine però… mi diede ragione!

Italia – Francia = uno a zero.

 

 

Su navi e per mari… (la nouvelle de Paris VI)

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23:00

Poggiammo le buste della spesa sul tavolo. Spesa però, era un termine inappropriato a descrivere tre buste piene di bottiglie di vino rosso. Eravamo stati al Monoprix, un negozio di cosmetici che aveva un supermercato nel piano interrato. Mi ricordava tanto il Billa di via Torino.
– Cosa mangiamo? Ops… scusate… what we eat? – chiesi vedendo Rafael che mi fissava.
– We have: eggs, bacon and a lot of spaghetti! – disse Antonio.
– Carbonara! –
– Cucino io… – disse mio cugino.
Alberto aveva già in mano la prima bottiglia di vino.
– Da quale cominciamo? Dal migliore o dal peggiore? – chiese.
– Dalla migliore è ovvio! Perché quando sei ubriaco puoi bere anche il peggior vino esistente! –
– Ah… anche tu sei di questa scuola di pensiero? –
– Sempre! Fin dagli anni del liceo… –
Alberto, quindi, prese una bottiglia di Bordeaux e la stappò con frenesia. Versò maldestramente il vino nei bicchieri che avevo disposto sul tavolo. Alcune gocce caddero in giro.
– Pardon… – disse Alberto.
Facemmo il primo brindisi della serata e trangugiai il liquido amarognolo. Aveva un buon sapore. Cercavo di paragonarlo a qualche vino italiano ma non me ne veniva in mente nessuno. Intanto Alberto aveva già riempito di nuovo i bicchieri. Sempre maldestramente e sempre costringendomi a pulire con la carta le gocce cadute prima che Antonio se ne accorgesse.
– Alla Francia! –
– E alle Francesi! – dicemmo in coro.
Dalla cucina si spandeva un invitante profumo. Il mio stomaco brontolava peggio di un motore a secco. Ciro si stava dando da fare. Non era facile cucinare mezzo chilo di spaghetti in una pentola media. Ogni tanto saltavano in giro pezzi di uovo e pancetta. Probabilmente, complice della distrazione generale, era il vino che, per volere di Alberto, scorreva a fiumi. Rafael osservava con il suo bicchiere mezzo pieno in mano. Ogni tanto commentava in inglese qualcosa. L’alcol sembrava non toccarlo. Al contrario io, ero già mezzo fuori. Stavo apparecchiando la tavola e i miei movimenti, anche se molto coordinati, erano stranamente lenti.
– È pronto! – disse Ciro poggiando pericolosamente la pentola incandescente a tavola.
Facemmo i piatti e ovviamente, anche il tavolo assunse lo stesso aspetto della cucina. E si poteva mai iniziare a mangiare senza un brindisi?
– Buon appetito! –
Di fianco a me era seduto Rafael. Lo strano economista-avvocato e chissà quant’altro. M’incuriosiva questo ragazzone di trent’anni… e quando una persona m’incuriosisce, la barriera della timidezza si dissolve.
– Rafael… It’s the first time in France? –
– Yes… my next step is Berlin… and then i will go in Italy! –
– In Italy? Where? –
– Florence and Rome! –
– Very good Cities! –
Aberto si alzò in piedi brandendo l’inseparabile bottiglia di vino. Ci rifornì tutti e incitò quelli che avevano ancora del vino nel bicchiere a finire, per poi riempirlo di nuovo.
Contando le bottiglie vuote e dividendole per i presenti, il risultato dava più di una bottiglia a testa. Ero dannatamente fuori. La vista iniziava a sfocarsi nel contorno e quella piacevole sensazione di abbandono volteggiava nella mente.
– Rafael! My Friend! – brindai con lui.
– Do you know same italian’s words? – gli chiesi.
– No… I don’t. –
– Well… I teach you something. When you will go in Rome and you will see a very beautiful girl… you must say “Anvedi che sorca!” repeat… –
– An..vedi… che.. sorca! – Disse Rafael con qualche incertezza. Tutti scoppiammo a ridere e il brasiliano ripetette quella frase fino allo sfinimento, sfinendo anche noi a suon di risate.
Istruii Rafael a dovere con un buon vocabolario da perfetto scaricatore di porto. Per tutta la cena non chiusi un attimo bocca; e più parolacce mi venivano in mente, e più gliene insegnavo, nelle diverse forme e sfumature. Era più divertente che insegnare le parolacce ad un bambino.

La cena finì e per fortuna del mio fegato, anche il vino. Era passata la mezzanotte quando, brilli, profumati e ben vestiti, uscimmo di casa. Cercavamo un posto dove andare a ballare e il Queen era perfetto. Era una discoteca non lontana da casa, posizionata lungo gli Champs. Il buttafuori nero ci fece passare senza troppi problemi e una volta dentro ci fiondammo in pista.
Andai a prendere un cocktail e persi di vista i ragazzi. Afferrai il mio Cubalibre e vagai alla ricerca di una faccia amica. Trovai Rafael che ballava in modo molto scoordinato e scattava foto a raffica con la sua compatta.
– Hi Friend! –
Mi sfoggiò un gran sorriso e lo presi a braccetto. Ci conoscevamo solo da un giorno ma a vederci, sembravamo due vecchi amici.
– Rafael, go di qua… –
La mente non capiva più e la lingua s’inceppava nelle parole. Parlavo un misto di italiano, inglese e francese, colorato di gesti esplicativi. Rafael, stranamente, mi capiva lo stesso. Salimmo delle scale che portavano ad un altro piano. C’era una sala fumatori dove la musica assordante stentava ad arrivare. Le orecchie ebbero un po’ di pace. Facemmo il giro della sala come due predatori che cercano la preda. Due ragazze stavano fumando ad un tavolino alto. Ci guardavano. Spinsi Rafael sotto il mio braccio in quella direzione.
– Hi girls! –
Le due ragazze si guardarono tra loro sorprese.
– Hello boys… – rispose una.
Rafael iniziò a presentarsi.
– My name is Rafael son de Brasil!
– My name is Chloé and she is Elise. –
Dai loro nomi capii che erano francesi e quando toccò a me parlare sfoggiai le mie nozioni.
– Je m’appelle Ciro… enchanté… –
Le ragazze sorrisero. Forse il mio francese non era male. Il problema era che le mie frasi si contavano sulle dita di una mano!
– Parle vous englais? –
– No… – mi risposero deluse.
Ma i più delusi eravamo noi. Comunicai la notizia a Rafael e con molta educazione, tagliammo la corda!
Rafael era molto simpatico. Scherzava, rideva, faceva battute. Adocchiava le ragazze e ballava qualsiasi canzone. Mi trovavo a mio agio con lui. Mi faceva da spalla ed io spalleggiavo lui quando ci provavamo con qualsiasi esponente del gentil sesso presente nella sala. Che figuracce a volte…
Girando e rigirando trovammo il resto del gruppo. Stavano ballando nei pressi di una specie di cubo alto. Una paio di ragazzi e ragazze ballavano lassù. E perché non dovevo esserci anche io con loro? Così da poter raccontare ai miei nipotini, di quando il nonno s’è reso ridicolo a Parigi?
Salii e cominciai a ballare con una tipa. Lei sembrava starci… un po’ meno il suo ragazzo. Scesi alla svelta. Tornai a ballare con gli amici. La musica era alta e gli effetti dell’alcol non accennavano a calare. Sentii delle note da lontano appena sussurrate. Erano note familiari. Una musica che sapeva di casa. Ci girammo tutti in direzione del Dj. Poi ci guardammo in faccia avendo inteso la canzone che stava cominciando. E abbracciandoci tutti come un quartetto stonato, iniziammo a cantare…
– Con teee… partirooo… –

 

 

 

Si viene si va… di umana commedia (IV)

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10:12

Aprii gli occhi. Un soffitto bianco e insolito mi sovrastava. Voltai la testa da un lato e un paio di vertebre scroccarono, rivelando un gran torcicollo. Non era stata una grande idea usare un asciugamano come cuscino. Purtroppo, questo passava la modesta dimora di Enzo e dovevo accontentarmi. Spostai il plaid e mi misi seduto. Anche il mio stomaco si era svegliato, ribollendo gas e acidi vari. Sul tavolo del salotto c’era ancora la bottiglia vuota del Pampero. Il pensiero autodistruttivo di farmi un altro bicchierino mi attraversò la mente. Fortuna che non ne era rimasto nemmeno un goccio.
Tic… tac… tic… tac…
Sentivo un ticchettio volteggiare in quella stanza vuota. Mi alzai alla ricerca del trasgressore di quell’amato silenzio. Di primo acchito sperai che le mie orecchie fossero ancora buone dopo l’ingente lavoro in discoteca ieri notte. Andai verso la vecchia televisione a tubo catodico disposta malamente nell’angolo in fondo. Accostai l’orecchio… niente. Per terra, attaccato ad un lungo filo del telefono, c’era il modem wifi di Alice. Lo presi in mano… niente, non era lui.
Tic… tac…
Guardai il balcone sperando che il rumore venisse da fuori. Aprii l’anta e ne approfittai anche per inondare i polmoni di un po’ di aria fresca. Chiusi.
Tic… tac…
Il rumore persisteva. Andai verso una lunga cassettiera in legno scuro. Il rumore sembrava più forte. Aprii un cassetto. Dentro c’era un vecchio computer polveroso, di quelli vecchi e massicci. Lo presi e lo poggiai sul tavolo, cercando di sporcarmi le mani il meno possibile. Lo rivoltai sottosopra… di lato… niente, era più morto di un dipinto. Lo rimisi nel cassetto cercando di riposizionarlo nel modo giusto.
Tic… tac…
Il rumore continuava e la mia mente persisteva sulla strada della curiosità. Aprii il cassetto a fianco e finalmente scovai il colpevole. Trovai un grosso orologio da parete un po’ vecchiotto, con qualche grammo di polvere sul quadrante. Chiusi il cassetto e lo misi sulla cassettiera appoggiandolo al muro. Tornai a sedermi sul divano, sentendomi soddisfatto della missione appena compiuta. Dovevo pensare al prossimo passo… che ore erano? Guardai l’orologio…

10:16
Tic… tac… dannati orologi!

:17… Ero lì sul divano con la testa un po’ inclinata e lo sguardo fisso. Le palpebre si chiudevano a ritmi lenti e regolari. Fissavo quel maledetto quadrante…

:18… Mi sono sempre chiesto come facessero gli stessi numeri a trasformarsi da secondi, minuti in ore. A volte i numeri nemmeno compaiono, sostituiti da semplici linee o puntini.

:19… Ero ancora lì a guardare quell’aggeggio con lo stesso desiderio di un avvocato cinquantenne che fissa una spogliarellista in un night. Desiderio di cosa poi? Fermare il tempo? Forse sì…

:20… Il mio respiro si alternava al ticchettio come un grafico altalenante di una funzione trigonometrica.

:21… Dormivano ancora tutti. Era domenica. Mia mamma stava già preparando il pranzo e sicuramente mi stava aspettando.

:22… Non posso restare. Rispondo ad un immaginario Enzo comparso nella stanza. Se fosse stato reale invece, non avrei avuto il coraggio di dirgli di no.

:23… Ero in ritardo. Dovevo fare ottanta chilometri per tornare a casa. E gli autovelox? Erano…

:24… Triiiin… Triiiinn… suonò il mio cellulare. Distolsi lo sguardo dall’orologio. Ero libero. Ero fuori dal magico incanto del tempo. Respiravo a modo mio. Mi alzai e mi guardai intorno. Tutto taceva.

Devo scappare… Enzo, non posso aspettarti.
Mi venne in mente di lasciare un bigliettino. Strappai un pezzo di cartoncino e lo misi in piano su un angolo pulito del tavolo.
Mi serve una penna!
In una casa di studenti di solito le penne scorrono a fiumi. Purtroppo quella non era la solita casa di studenti e una penna che scrivesse sembrava essere l’oggetto più raro. Mi spostai in cucina, dato che il salotto l’avevo già perlustrato da cima a fondo. C’erano vari bigliettini appesi con dei magneti ad una specie di staffa metallica. Una penna? Niente… Guardai ovunque: tavolo, mensole, frigo… niente di niente.
Tornai in corridoio. A destra e sinistra erano disposte in successione le varie porte delle stanze da letto, in fondo c’era la porta d’uscita e dietro di me il bagno. Non volevo svegliare Enzo che forse stava dormendo con la sua ragazza. Nè tantomeno volevo disturbare la spagnola che storpiava il mio nome. Che fare?
C’era ancora un’altra stanza inesplorata. Apparteneva a un’altra coinquilina di Enzo. Mi aveva detto che non c’era in quei giorni. Aprii con lentezza la porta, preparandomi in mente una scusa nel caso avessi trovato qualcuno. La porta scricchiolava odiosamente. Nessuno, la stanza era vuota a parte il disordine. Mi colpì subito il grosso letto matrimoniale su cui avrei preferito dormire invece dello scomodo divano del salotto. Però avrei dovuto spostare un gran mucchio di stupidi peluche. Andai alla scrivania. Qui di penne ne trovai a iosa. Ne presi una e tornai in salotto. Mi sedetti e presi un minuto per pensare a cosa scrivere.
Allora En… Cavolo!
La penna si bloccò dopo la seconda lettera. Non le andava più di scrivere e dovetti tornare a prenderne un’altra. Ne presi una dalla forma a matita. Odiavo quel tipo di penna. Ma in mancanza d’altro…
En… En… En… E che cazzo!
Questa era proprio da buttare. Non scriveva nemmeno sotto minaccia. Volevo scaraventarla nel primo cestino e l’avrei fatto se fosse stata la mia. La rimisi al suo posto. Forse la coinquilina di Enzo era una collezionista di penne usate. Non si può mai sapere. Presi la terza e tornai in salotto… Questa finalmente scriveva…

         Enzo… Grazie del Pampero
            e del fantastico sabato sera!
                 e dì ad Eva e Carmen che….

Si viene si va… tenendoci dritti (III)

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– Ciro, che ti prendi? –
– Mha non so… vorrei continuare con il rum… –
Fissavo con insistenza la barista dell’Alexander, cercando di ottenere la sua attenzione. Enzo invece fissava Eva che dietro di noi parlottava con Carmen. Porsi un braccio in avanti e finalmente gli occhi neri e profondi della barista si posarono sui miei.
– Un Rum e cola… –
Enzo prese un Mojito e ci spostammo verso il centro della pista. Diedi un occhio alla postazione Dj. C’era un ragazzino sbarbatello non troppo esperto di musica. Mixava qualche hit del momento e non si dilungava troppo in frasi e urla per incitare la folla. Ogni tanto alzava la mano per sentirsi importante. Una ragazza ballava accanto a lui. Guardava la folla sentendosi una diva, nonostante l’aria di una qualunque che quella sera aveva bevuto un Martini di troppo.
La discoteca non era male. Con un po’ di fantasia potevo immaginare di essere ancora a Milano e non tra la movida di una piccola cittadina molisana. Trovare locali carini al sud è un impresa. A volte sono talmente sperduti che nessuno ha voglia di fare tanta strada per divertirsi un po’. Altre volte, invece, la gente che ci trovi dentro non è molto raccomandabile e si rischia sempre la rissa. Lì invece c’era il giusto stile, la gente giusta e non era troppo distante dal centro.
Ballavo cercando di non rovesciare il cocktail addosso a qualcuno. Enzo stava appiccicato alla sua ragazza e insieme ballavano un misto di lenti e strusciamenti. Carmen beveva. Mi disse che le piaceva l’Italia.
– Hai mai visto Milano? – le chiesi.
– Solo una volta… e per poco tempo! –
– Devi tornarci! Milano è fantastica! –
Mi sorrise e cominciò a ballare. Le piaceva quella canzone. Forse anche in Spagna passava su qualche strana radio. Diedi una lunga boccata al mio rum. La gola si inaspriva e la mente si alleggeriva. Lo stomaco invece non ne poteva più, brontolava e si contorceva ad ogni ondata di alcool. Non ci pensavo… era il giusto prezzo da pagare per evadere dal mondo.
Ballavo. Carmen mi fissava. Mi avvicinai e ballai con lei. Le presi le mani. I nostri palmi combaciavano e si stringevano. Le passai una mano attorno a un fianco. Guidavo io. Nonostante l’alcool, ero ancora un efficiente ballerino. Mi avvicinai al suo orecchio.
– Carmen! Te quiero! –
Lei mi guardò meravigliata.
– Cirope! – disse e mi chiedevo sempre per quale motivo mi chiamasse così. – Tu non sai che vuol dire! –
– Certo che lo so! – non lo sapevo, l’avevo sentito da qualche parte in qualche telefilm spagnolo.
Mi picchiettò la testa per farmi capire che non ero molto sano di mente. Guardai Enzo un istante. Si divertiva alla grande anche lui. Quella vita gli piaceva. Star lì, lontano da tutto e da tutti non era poi così male. Faceva qualche piccolo sacrificio, ma al paese lasciava un gran mucchio di problemi. Vederlo felice suscitava in me un piacere immenso… Questo genera l’amicizia? Forse sì…
La nottata stava finendo. Prendemmo i cappotti al guardaroba e imboccammo l’uscita. Sulla destra c’era un aggeggio che misurava il tasso alcolemico.
– Enzo mi presti un euro? Sono a corto… vorrei vedere di quanto sono fuori… –
Inserii la monetina. Uscì una cannuccia e la posizionai nel buco.
Soffiare prego.
Il marchingegno fece strani rumori e poi un numero rosso comparse sul display.
– E ‘sto numero che significa? –
– Che non puoi guidare… – mi disse la ragazza addetta alla biglietteria, che aveva visto la scena.
Guardai la ragazza, guardai lo schermo, guardai Enzo…
– Ok… va bene… andiamo a piedi allora! –

Mezz’ora dopo, con i miei piedi gommati e con il mio cuore a 6 cilindri, stavamo tornando a casa.
– Cavolo Enzo! Dove devo girare? –
– Di là! In quella via stretta! –
Enzo sembrava più disorientato di me. Le ragazze dietro si lamentavano per come guidavo. Va bene che ogni tanto confondevo il freno con l’acceleratore, però cosa potevano pretendere?
– Piano Cirope! Vai piano! Te vomito in macchina! –
– No, per carità! Vado piano! –
Andavo piano anche per evitare macchine e probabili incidenti. Per fortuna la maggior parte delle strade, anche se strette e difficoltose, era illuminata.
– Vai diritto! –
– Enzo… è un divieto! –
– Lo so! Ma se non passa nessuno buttati! Tagliamo un sacco di strada… –
Eva mangiucchiava i tarallini che Enzo aveva portato da casa. Una insolita leggenda metropolitana diceva che erano un ottimo metodo per far passare la sbornia.
– Eva! Passa avanti quella busta! – dissi e ne presi un paio.
– Cavolo Ciro… Attento… – mi allarmò Enzo.
Ficcai i tarallini che avevo in mano in bocca e masticai con lentezza, come se qualcuno da fuori potesse sentirmi. Una pattuglia di polizia era parcheggiata sul ciglio destro della strada. La macchina si ammutolì ed io cercai di essere il più normale possibile.
Niente poliziotto… niente paletta…
Avevano già fermato una macchina ed erano ancora impegnati nel togliere la patente a qualche sventurato.
L’avevamo scampata.
– Evvai! Niente mattinata in caserma! – dissi ironico ad Enzo.
– Siii! –
– Ok ok… ora mi dici dove Cavolo è casa tua!?!? –

La Foto.. (Ricordi di Rimini 2008)

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Musica.. Musica alta.. musica bella.. musica infernale. Stavo ballando.. ma stavo ballando per inerzia. La stanchezza si faceva sentire sulle mie gambe. Così decisi di andare a prendere un’altra bella dose del mio più caro anestetico.

La discoteca era affollata. A stento capivo i volti e la fisionomia delle persone. Una mora dal vestito nero, una bionda con jeans bianchi, un ragazzo con la maglietta a righe. Cercavo di non pensare. Cercavo di non guardarli sperando che mi facessero passare. Il bancone era ancora lontano. Per un attimo mi ricordai di essere venuto qui con i miei amici. Enzo e Mario. Eravamo rimasti in tre dopo che Gianni aveva dato forfait per un illusa storia d’amore. Purtroppo la pazzia di questa strana malattia rossa aveva contagiato anche lui. E come un fulmine si era precipitato dalla sua lei in cerca di attenzioni. Pensavo di esser l’unico a fare questo genere azioni. Pensavo di essere l’unico colpito da questa malattia. Pensavo..

 

Arrivai al bancone. Mi appoggiai con i gomiti e cercai di intravedere il barman. La mia vista assomigliava a quella di un barbone che guarda il mondo dal fondo di una bottiglia.

-Che vuoi?- mi urlò.

-Un bicchiere di Rum liscio.-

 

Il ragazzo con la maglietta nera con su scritto il nome della discoteca, iniziò a versare il nettare nel mio bicchiere. Mi diede uno sguardo e capì dalla mia mano ondeggiante che doveva riempirlo fino all’orlo. Sorrise e mi diede il bicchiere, contento di aver fatto felice qualcuno.

Mi allontanai da li. Cercavo un posto dove sedermi. Vidi dei divanetti poco distanti. Mi sedetti e cercai di riordinare i cassetti della mia mente, disordinati dalla bella mora che avevo in mano.

Proprio davanti a me s’erano piazzati due che stavano limonando alla grande. Lei sembrava molto impaziente di ricevere ciò che il ragazzo non riusciva a contenere nei pantaloni. Un bello spettacolino direi.. ma questo genere di tentazione ora non faceva per me. Quindi diedi un bacio al mio bicchiere e mi alzai.

 

Mi accorsi di non aver ancora finito di vedere la discoteca. C’era un’altra parte che mi era ignota oltre alla posizione dei miei amici. Mi diressi verso una porta. Intravidi l’esterno. Una grande piscina si estendeva davanti a me. Era proprio una bella visione. Rilassante.. Qui la musica arrivava a stento. Non si sentiva forte come dentro la discoteca. Mi appoggiai alla ringhiera. Diedi una sorsata al mio rum. Guardavo la piscina. Ma c’era qualcosa che non andava. La mia mente mi voleva dire qualcosa che non sapevo.. e il cuore batteva con quei battiti che volevano dire solo una cosa.. che un ricordo era sulla pista di atterraggio.

E mi coglieva impreparato. Dopotutto era la prima volta che venivo in quel luogo. Era la prima volta che osservavo questa bellissima piscina.

Era la prima vol..

Il  filo dei miei pensieri si fermò come un disco in vinile bloccato da una mano. Un flash mi attraversò la mente. Una foto. Una foto di questa piscina. Capii che non ero io ad esserci stato ma qualcun’altro.. o meglio.. qualcun’altra. Avevo solo visto questa foto. Con sullo sfondo questa stessa piscina. E mettendo bene a fuoco nella mia mente con le lenti della memoria, capii anche il perché di quel ricordo. La mente umana è strana. Non riesce a ricordare un nome appena detto.. eppure una foto di un bel pezzo di anni fa mi è ben chiara. E quel ricordo è stato così tanto potente da superare anche il mio stato di ebrezza. Do l’ultima sorsata al bicchiere.. con gli occhi delusi di chi mentre cena scopre di aver finito il pane. Così il ricordo venne a galla sul fiume dell’alcol e come una barchetta di carta scorreva e arrivava ai miei occhi.

E se qualcuno avesse potuto ingrandire la mia lacrima.. avrebbe visto il suo viso. Come lo vidi io anni fa. Sereno e felice di una nottata un po’ brava. Erano bei tempi quelli.. sia per me che per lei. Allora ancora non conoscevo tutti i lati della vita.. e lei, come impareggiabile maestra, mi accompagnò per un pezzo di strada. Una strada un po’ tortuosa.. ma bella uguale. Se non di più..

E la verità era che ..non l’avevo neanche scelta.. Capitò quasi per caso. E quasi per gioco ci ritrovammo a fantasticare guardando il soffitto di una comune stanza d’albergo.

Pensando che il futuro era troppo lontano per diventare presente..

Uno strano scivolo… (Livigno 2010 parte V)

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Appena varcata la soglia del Miky’s pub, sembrava quasi d’entrare in un altro mondo. Fuori tutto tranquillo e regolare. Il silenzio regnava ed era rotto solo dal rumore dei nostri passi. Dentro invece si sentiva la musica, le persone che parlavano, il tintinnio di bicchieri e bottiglie. Sembrava proprio di aver oltrepassato lo stargate ed essere entrati in una nuova dimensione.

All’ingresso c’era una giovane ragazza addetta al guardaroba, cosa che non avevo mai visto in un pub old style. Mi bloccai…

– E questo a che cazzo serve?! –

Poco di fianco alla ragazza c’era uno scivolo in legno che portava al piano di sotto, da dove proveniva la musica. Rimasi per un po’ ad osservarlo fantasticando sulle mille cose che avrei potuto farci. Di fianco al bizzarro scivolo c’erano le scale. Le scendemmo e venimmo inondati da musica dance ad alto volume. Guardai tutta la sala e pensai che finalmente avevano inventato ciò che volevo: una discoteca… in un pub.

Perché sì… entrambi i locali hanno i loro pregi ma anche i loro piccoli difetti.

In discoteca, se entri… devi per forza ballare. Non c’è mai un fottuto posto dove sedersi e godersi il proprio drink. Drink che deve essere per forza un cocktail, perché se prendi una birra ti guardano storto e pensano che tu sia un ubriacone. Nonostante ciò, mi piace ballare… sentire la musica dance o house che ti pompa nelle orecchie solleticandoti la mente e dandoti piccole scariche di adrenalina.

Nel pub, invece… ti siedi con davanti la tua bella birra doppio malto e gli amici intorno. Scheggi un po’ il tavolo col coltellino, racconti un po’ di stronzate a chi vuol sentire. Ma la musica che c’è non è mai quella giusta… o non sempre. Una volta sono entrato in un pub dove la canzone migliore era di Laura Pausini. Il pub che prendo sempre come riferimento è lo Sloppy’s Joe di Dante. E’ uno dei migliori, a mio avviso. Forse solo perché ci ho passato i migliori anni della mia vita. Ed anche lui ha la pecca di tutti i pub. La musica e soprattutto, sono almeno 5 anni che sui suoi schermi gira ancora a ripetizione senza voce quel cavolo di film di Sin City e non c’è bisogno di dirvi che lo conosco a memoria.

 

Il Miky’s pub, quindi… era un po’ tutt’e due. Sulla destra c’era il lungo bancone in legno dove il barista serviva i cocktails. Quasi in fondo alla sala c’era una postazione deejay rialzata con annesso ragazzo con cuffia e capelli strani. Sulla sinistra invece c’erano i tavolini, di quelli alti con gli sgabelli sempre in legno. Qui un po’ tutto era in legno… e io amo il legno. Al centro del locale c’era uno spazio non molto grande, dove la gente ballava.

Ci sedemmo in fondo. Enzo, Ciro, Luca ed io.

Tutti intorno allo stesso tavolo, a guardare la sala piena di gente.

– Non è male questo posto… –

– Già… ordiniamo qualcosa… –

– Una bella bottiglia di vino bianco… e quattro bicchieri… – proposi io.

– Chi inizia? …Ok ok… ho capito… vado io… – dissi.

 

Andai al bancone. Feci segno al barista di venire da me.

– Che vini bianchi hai? – Gli urlai.

Lui ne elencò alcuni, ma io non capii niente a causa della musica troppo alta e gli dissi:

– Fai tu! –

Poco dopo tornai al tavolo con la bottiglia stappata e quattro bicchieri a calice alto.

Poco dopo ancora… la bottiglia era vuota.

 

– Guarda quelle tre sedute lì…-

Mi voltai nella direzione indicata da Ciro e vidi tre ragazze sedute a un tavolino. Una mora, una castana e una bionda. Mancava la rossa e il quadro era completo… pensai sorridendo.

– Vanno a vino anche loro… – disse Luca, osservando i loro bicchieri.

– Quella con i capelli corti è la più bella… –

– Naa… meglio quella con gli shorts… –

– Perché la bionda la vogliamo buttare via? –

– Perché non vai da loro e chiedi se vogliono sedersi qua con noi? La prossima bottiglia la offro io… –

– Tu comincia a offrire… al resto ci penso io… – risposi

 

Naturalmente, essendo quello più vicino al bancone in linea d’aria, dovetti alzarmi io. Il barista mi vide e gli chiesi di stapparmi una nuova bottiglia. Lui al volo la prese, stappò con classe e me la diede.

Dopo mezzanotte la musica cambiò. Si fece più aggressiva e ballabile. Guardavo la sala un po’ annebbiato dall’alcol. I ragazzi erano andati nella sala fumatori e rimasi solo a fare la guardia alla bottiglia vuota di vino bianco.

A un certo punto il deejay cambiò canzone. Una di quelle belle che mi piacciono molto… ma che adesso… proprio non ricordo.

Questa devo proprio ballarla, pensai

E mi buttai in pista tra la gente che si dimenava al ritmo di musica. Iniziai a muovermi cercando di ballare decentemente in quello spazio ridotto. Intorno a me c’erano ragazzi e ragazze di ogni tipo. Dai volti  si riconoscevano tedeschi… polacchi… svizzeri. C’erano anche le tre ragazze sedute a quel tavolo. Ballavano vicino a me. E ogni tanto mi adocchiavano. Mentre ballavo, mi voltai in direzione del mio tavolo. Vidi i miei tre amici tutti li seduti che mi osservavano. Sentivo i loro occhi addosso e sapevo già cosa stavano dicendo su di me.

So cosa ci vuole.. pensai.

Mi appoggiai al bancone con un gomito. Il barista mi vide e iniziò già a prendere una bottiglia di vino. Praticamente non gli dissi niente. Lui già sapeva.

– Thanks… – gli risposi e tornai al tavolo.

 

Purtroppo quella bottiglia fu l’inizio della fine. Un attimo dopo averla vuotata, il mio cervello praticamente galleggiava nell’alcol. E subito dopo, una scena incontrollabile si prestava agli occhi di tutti i presenti nella sala. Io su una specie di palchetto che facevo volteggiare la mia maglietta al ritmo di musica. Il barista corse da me e cercò di farmi scendere, urlandomi di rimettere la maglietta. Per fortuna non si incazzò.

Tornai al tavolo e mi detti una calmata.

Vidi Enzo e Luca che parlottavano con una ragazza inglese.  Quest’ultima sorrideva mentre mi guardava. Enzo le aveva detto qualcosa. Lei mi disse – Ok, ok… – e mi fece un gesto di approvazione con la mano. Non capii niente. Ero un po’ stanco, ma l’alcol mi teneva sveglio. Entrai nel gruppetto che si era formato con l’inglese. Cercavo di biascicare qualche parola che lei, con mio stupore, comprese. Enzo era quello che se la cavava meglio. Forse anche perché era più sobrio di me. Dopo un po’ mi limitai a osservare, cercando di calmare un po’ i battiti del mio cuore. Avevo un bicchiere vuoto in mano e ci giocavo.

Dopotutto, questa serata non è andata poi così male, pensai mentre guardavo

lo strano scivolo dall’altra parte della sala… 

 

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