Je vois la vie en rose (la nouvelle de Paris XII)

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– Vado a comprare una bottiglietta d’acqua… –
– Ce la smezziamo? –
– Certo! –

Ciro si alzò dal suo posto. Mise il suo trolley a fianco a me in modo che potessi controllarlo. Lo vidi scorrere via nel corridoio dell’aeroporto nei suoi jeans a pinocchietto e la maglietta di Hilfigher. Si guardava in giro curioso, come un cane che perlustra l’area; o semplicemente cercava il prossimo spunto per un’idea ingegnosa. Era un mistero sapere cosa girasse in testa a quel “vecchio” adolescente. È sempre stato un modello per me. Un modello di vita e di pensiero. A volte ho copiato la sua pazzia mescolandola con un po’ di ragione condendola con un pizzico di responsabilità. Qualche anno fa, quando l’uno precedeva lo scorrere delle unità nei nostri anni, e i giorni del liceo si facevano più duri, scappavo da scuola per andare a rintanarmi nella sua soffitta. Non mi diceva niente… non chiedeva il come e il perché fossi lì… forse lo immaginava e sapeva che era meglio non domandare. Lo osservavo mentre giocava al pc o curiosavo tra la sua roba. Tra l’immenso disordine delle sue cose. A volte mi affacciavo dal balcone. Si vedeva tutto il paese da lì. Era bello abitare al centro…
E ora siamo cresciuti. Su due strade diverse che ogni tanto s’intrecciano, generano storie e poi ognuno dalla sua parte. Ognuno verso la propria meta…
A questo pensavo mentre lo guardavo scomparire in un negozio dell’aeroporto di Orly. Ero solo… Solo in mezzo ad altri passeggeri che, come me, attendevano il diretto per Milano Linate. Ero solo perché i restanti membri della compagnia avevano preso il volo per altre mete. Antonio, che gentilmente ci aveva ospitato in quel di Parigi, era partito per Roma. Rafael e Alberto invece, erano tornati a Cambridge a raccogliere le loro cose per poi fuggire in altre città lontane. Ciro invece, a sorpresa mi aveva detto: – vengo con te a Milano… mi fermo qualche giorno -. Per questo motivo era insieme a me. Altrimenti sarei partito da solo come avevo fatto all’andata.
Mi alzai e andai di fronte ad una grossa finestra di vetro. Si vedeva la pista e qualche aereo pronto in partenza. Forse c’era anche il mio tra quelli. L’aereo che mi avrebbe riportato a casa decretando la fine del mio viaggio. Più in là, oltrepassando gli alberi, con un po’ d’immaginazione, c’era Parigi.
Chiusi gli occhi per un istante e vidi scorrere davanti a me l’intera vacanza come capita a colui che è in punto di morte.
Vidi il mio viaggio e l’aero che atterrava lì, ed io che scendevo con un carico di ansie e paranoie. Vidi la casa di Antonio con i letti sfatti e le cene a base di vino. Ricordai i sogni nelle notti apparenti di ore improbabili. Ripensai alla poca voglia di socializzare che si era trasformata in due splendide amicizie.
Rafael, il brasiliano strampalato con un fegato senza fondo e un accento divertente. Alberto, l’inglese-napoletano-piacione-logorroico, che occupava tutti i nostri silenzi e a volte anche i nostri pensieri. Chissà se li avrei più rivisti.
Il mio viaggio mentale, tra pensieri e ricordi, si alzò sopra le cime delle case, sui comignoli e le antenne. Superò ogni cosa e si fermò in alto. La vista era stupenda. Si vedeva la Tour Eiffel che scintillava sotto i colpi del sole; l’Arco di Trionfo che proiettava la sua ombra sugli Champs-Élysées e il Louvre, poco più giù, con la sua elegante piramide di vetro. Scesi più in basso con la fantasia. Mi adagiai sulla cima di uno dei campanili di Notre-Dame e desiderai restare lì in eterno come un Gargoyle in pietra. Vidi il Quartiere Latino sulla destra, pulsare di vita e festosa frenesia. Quante storie potevano scriversi tra i suoi vicoli se solo avessimo avuto più tempo per viverle. E ne avremo vissute altre con infinita gioia. Di più belle, di più impensabili, di più incredibili. Storie che solo la pazzia della giovinezza può creare e la mano di uno scrittore descrivere. Persino la mia fervente fantasia cede sotto i colpi della soave realtà. E una lacrima mi scese. Lì, nella mia mente, nel mio magico viaggio, sulla cresta di Notre-Dame. E la piccola goccia cadde nel vuoto bucando il sogno, annerendo tutto, lasciando il buio dietro di se.
Aprii gli occhi e ricordai di essere nell’aeroporto di Orly in attesa del mio volo. Appoggiai una mano al vetro, come a voler toccare quel luogo straniero per imprimere la sensazione nella mente, e regalare anche al tatto qualcosa.
Mi girai e tornai al mio posto. Sprofondai nella poltroncina e poggiai i piedi sul Trolley. Spostai la mano e solleticai il portatile che avevo cacciato dalla borsa cercando un’ispirazione.
Aprii lo schermo e iniziai a scrivere. Di getto, senza pensare… Lasciai scorrere le dita tra i tasti neri. Lasciai che le lettere formassero parole e le parole frasi…
e le frasi racconti…
Camminai tra i sentieri dei ricordi. Corsi per non farmene sfuggire nemmeno uno. E più correvo e più scrivevo. E più scrivevo e più si avvicinava la fine. Incastonavo pezzi di storia con pezzi di vita. Ammorbidivo i dettagli rendendo meno noiose le vicissitudini. Descrivevo i luoghi e le sensazioni sulla mia pelle con una sperata maestria. E scrivevo… e non mi fermavo. Perché ce n’era ancora da raccontare. E la voglia che partiva da dentro non ancora si arrestava.
E arrivò, attesa e sperata come un’eclissi di Luna, la fine della mia storia parigina.

Adieu mes amis…

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Ciro tornò dal negozio. Si sedette accanto a me con la bottiglietta in mano.
– Che scrivi? – mi chiese.
– Mah… niente. Tu piuttosto, perché ci hai messo tutto sto tempo? –
– Ho comprato un souvenir… vuoi vederlo? –
– Si… fammi vedere. –
– Eccolo… Che ne dici? –
– Con sincerità? –
– Si, parla! –
– Fa cagare… –

FINE

Una porta, un’asta e un pulsante (la nouvelle de Paris XI)

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Una nuvola di fumo si alzò dalle nostre teste stanche e sballate dall’intensa nottata. Una cospicua dose di alcol ci girava ancora nelle vene e tormentava i nostri fegati. L’alba sbocciava dal letargo e marcava i profili dei palazzi davanti a noi. Ero seduto accanto a Ciro e Antonio sul bordo del marciapiede. Eravamo seminudi. Io e Antonio sfoggiavamo dei boxer neri, mentre Ciro aveva indosso solo i pantaloni.
– Ehi… passa un po’ qua… – dissi sporgendo il braccio. Ciro sbuffò in cielo un soffio di fumo e mi passò la sigaretta. Aveva allungato le gambe in mezzo alla strada e le sue braccia lo sorreggevano da dietro. Davanti a noi, in una via traversa degli Champs-Élysées, c’era una banca, degli uffici e degli appartamenti di lusso. Più su, tra i tetti dei palazzi, si riusciva quasi a scorgere il cielo. Tutto dava l’idea che quella fosse una via importante, dove viveva e lavorava gente ricca. Dopotutto dietro di noi, a pochi passi, c’erano gli Champs.
– E’ stata una notte fantastica… – dissi sospirando il fumo.
– Già! –
– Voi, poi, che avete fatto? – chiesi ad Antonio.
– Beh… dopo che ci siamo divisi, siamo andati… –
Clap
Un rumore sordo interruppe il racconto di Antonio. Ci girammo tutti in direzione della porta… e tutti, con il terrore negli occhi, dicemmo: – Cazzo! –
Eravamo seduti davanti al portone d’ingresso della casa di Antonio. Il portone era aperto si, ma qualche metro più avanti c’era un’altra porta, di vetro, molto grande, che aveva la funzione di anticamera prima degli appartamenti. E quella porta, o meglio il meccanismo chiusura, aveva prodotto l’odiato “clap”.
Ci alzammo di scatto dal freddo marciapiede. Fui il primo a entrare ed esaminare la situazione.
– Chiusa! Non c’è niente da fare! –
Ciro si avvicinò alla porta. La squadrò alzando lo sguardo al soffitto. Poi i suoi occhi percorsero la lunga siluette di vetro e infine, poggiando una mano sul pomello, diede una fortissima strattonata che fece tremare ogni cosa. Ne seguì un’altra, poi un’altra e poi un’altra fino a quando non lo afferrai per un braccio pregandolo di smettere.
– Non serve a niente! È chiusa! –
Ciro non proferì parola e mi guardò con uno sguardo assente e pensieroso. Antonio era irritato, incazzato, girovagava nell’ingresso come un toro in gabbia. Dopo che Ciro si fu allontanato si avvicinò alla porta. Afferrò il pomello con entrambe le mani.
– Questa ora la sfondo! – disse in un impeto di rabbia.
Il suo corpo, temprato da anni di palestra, era diventato un pulsare di vene e muscoli. Strattonò la porta con una forza inaudita. Faceva un casino micidiale. Un casino che non potevamo permetterci in quel palazzo alle 5 di mattina. Le lastre di vetro si allontanavano sempre di più. Immaginai la scena dell’immensa porta che crollava al suolo. Non poteva accadere…
– Antonio fermati! Basta! Qui chiamano la polizia! –
– Li pago io i danni! –
– Non essere idiota! Dai Basta! –
Riuscii a calmare Antonio e diedi un occhio a Ciro che fissava attraverso i vetri il tasto per aprire la serratura elettronica della porta. La semplice pressione di quel tasto avrebbe risolto i nostri problemi. Purtroppo tra noi e lui c’era una lastra di vetro temperato che lo rendeva tanto desiderabile quanto ad un barbone il suo rum. – Se solo riuscissimo ad arrivarci… – disse.
– E’ impossibile… vedi dove si trova? – dissi indicandolo ma non mi ascoltò.
– Ci serve qualcosa… –
Lasciai Ciro ai suoi vagheggiamenti e vidi Antonio smanettare con il citofono. Anche quell’aggeggio, tecnicamente, avrebbe potuto salvarci. Se non fosse stato che quelle teste bacate di Alberto e Rafael dormivano come sassi di fiume.
Antonio iniziò a suonare. Il suono era così forte che si sentiva fin qui. Come facevano quei due a non sentirlo a 5 metri di distanza?
– Non ci sperare Antonio… Alberto è più morto che vivo… Rafael invece? Che ha fatto insieme a voi? –
– Abbiamo continuato a bere litri di birra! Abbiamo trovato uno che vendeva una birra di 10 gradi! –
– Cavolo! E che era, vino?! –
– Peggio! Saliva in testa che era una bellezza! Non ho idea di quante ne ha bevute Rafael… ma non ci sperare che si svegli… – concluse Antonio lasciando il dito incollato al tasto.
Ciro invece era scomparso. Mi affacciai in strada e lo vidi tornare con una lunga asta di plastica. Non volevo nemmeno immaginare dove l’avesse trovata. Mi passò a fianco dicendo: – Ora l’apriamo! –
Tornati dentro passammo accanto ad Antonio che nel frattempo si era steso per terra. Era distrutto e aveva serrato gli occhi e abbandonato questo mondo.
– Allora… tu tira la porta in fuori. Infilo l’asta nello spazio che si crea e cerchiamo di premere quel maledetto pulsante! –
– È una pazzia! Ma va bene… –
Tirai con tutte le mie forze la lastra di vetro che fungeva da porta. Ciro infilò subito l’asta nella fessura tra porta e battente. Lo spazio era poco e l’asta non scorreva. Colpo dopo colpo e centimetro dopo centimetro arrivò dall’altro lato. Le mie dita si erano pietrificate dallo sforzo e i muscoli del braccio stavano cedendo.
– Cì… lascio un secondo… tanto l’asta è passata… –
Ripresi forza e sgranchii le dita della mano. Iniziavo a sentire freddo per la mancanza dei vestiti. Ciro intanto non la smetteva di ingegnarsi. Si vedeva da un miglio che discendevamo dallo stesso ceppo familiare. Entrambi siamo cresciuti con un forte istinto di sopravvivenza che ci ha salvato in molte situazioni. Ricordo di quella volta da piccoli… eravamo in viaggio verso il Trentino. Avevo una televisione portatile ma non prendeva il segnale… e alle tre della notte, su sedile posteriore di una vecchia Hyundai, costruimmo una mini parabola con pezzi di cartone e argento. Chissà dove saremmo ora se avessimo vissuto più tempo insieme… Avremmo potuto costruire una bomba atomica con pezzi di legno e chiodi! O anche un carro armato con lattine usate! Niente poteva fermarci… ma quella porta però, ci riusciva molto bene!
Tornai dal mondo dei ricordi e vidi Ciro che devastava un elenco telefonico.
– Che cazzo stai facendo! –
– Ci serve uno spessore! Così l’asta non s’inceppa… aiutami. –
Tornai a tirare la porta. Ciro infilò nella fessura metà dell’elenco telefonico. Con qualche difficolta, a botte e spinte, l’elenco fu posto nel mezzo. Le mie dita ebbero un po’ di sollievo. La pressione diminuì e potei mollare la presa. Ciro si concentrò sull’asta. Afferrò la parte che restava dalla nostra parte e cercò di dirigerla sul tasto. Sembrava il gioco della pesca nei bar e come quel gioco la situazione si prospettava molto lunga.
– Ciro… quindi poi che avete fatto ieri? – gli chiesi per ammazzare il tempo.
– Mah… niente… abbiamo bevuto un sacco. Pensa che Rafael ha perso la fotocamera e per fortuna che siamo tornati indietro! L’aveva tenuta quello del bar. Quel brasiliano non la smetteva di bere… L’abbiamo portato a spalla fino a casa. É caduto sulle scale della metro, sugli Champs, qui davanti… era proprio conciato male! –
Intanto l’asta continuava a battere sul muro intorno al bottone. Ciro si sforzava di essere preciso nei colpi non riuscendoci. L’asta di plastica era troppo lunga e ogni tanto si piegava. Nell’ingresso si sentiva un rumore incessante di colpi.
– Ciro dobbiamo smetterla… pensa se arriva qualcuno e ci vede così! Qui non è casa nostra… è la Francia cazzo! Non credo si facciano tanti problemi a chiamare la polizia… –
– Dammi un minuto e te la apro! – e continuò a picchiettare il muro per un’altra mezz’ora. Poi buttammo tutto a terra e ci sedemmo a fianco ad Antonio che dormiva tranquillamente sul tappeto d’ingresso. Tra me e il pavimento c’erano solo i miei boxer in nylon. Osservai la porta. Piena d’impronte di mani, rimasugli di plastica e pezzi di carta.
– Rassegnati Ciro… non entreremo. Almeno non adesso. –
– Se quei due idioti fossero meno morti! Ma Alberto con te che cazzo ha combinato?! –
– Ciro… se te lo raccontassi non ci crederesti mai! È una storia che ha dell’incredibile! Manco nei film mi è capitato di vedere una situazione del genere. Adesso ti spiego. Quando ci siamo separati e voi ve ne siete andati, Alberto ed io abbiamo preso un taxi per… cavolo! Siamo salvi! –

Un uomo di colore con un casco bianco in testa sembrava un angelo in quel momento. Quando ci vide però, si spaventò. Ci fissava con aria incredula e stupita. Dopotutto, vedere tre ragazzi seminudi nell’ingresso del palazzo non è cosa da tutti i giorni. Mi avvicinai con le mani alzate in segno di resa.
– Don’t worry man! We live on the first floor and we have forgotten the key… – dissi sperando che non chiamasse la polizia. Aprì con qualche esitazione ed entrò nell’atrio. Ciro aveva svegliato Antonio a suon di schiaffi. Il ragazzo nero ci aprì la porta della nostra prigione. La serratura elettrica scattò e la porta a vetri si aprì all’improvviso. Erano due ore che desideravamo sentire quel suono. Ringraziammo il ragazzo che, visibilmente scioccato, prese l’ascensore. Ciro diede un pugno al pulsante della porta che si aprì di nuovo. Ci fiondammo nell’appartamento…
E finalmente ci buttammo in un letto caldo…

 

 

Quatre-vingts! (la nouvelle de Paris VII)

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Quella mattina il sole entrò con una certa resistenza in quella casa parquettata sugli Champs-Élysées. S’insinuò tra le fessure laterali che la fitta tenda plastificata non riusciva a coprire. E una volta dentro, la scena che gli si presentò davanti aveva qualcosa di grottesco e innaturale che gli sembrava aver visto solo in Vietnam ai tempi della guerra. Quel sole rise di noi… delle nostre facce stanche e assonnate; delle posizioni strane in cui dormivamo; dei vestiti sparsi e dei resti di cibo ovunque; rise di noi, perché non c’era nessun altro in città di cui poter ridere. Rise di noi e poi, con la sua potente luce, ci svegliò.
Avevo la bocca impastata e lo stomaco più arido del Sahara d’estate. L’alcol aveva fatto il suo corso lasciando un gran mal di testa e una sete inappagabile.
Ci alzammo tutti e in un’ora fummo arzilli e ben svegli, pronti, per la prossima avventura parigina. Ci catapultammo in strada con lo stesso sole che ci aveva svegliato.
Facemmo colazione in un bar a caso. Con non poche difficoltà a ordinare una brioches e un cappuccino. Sedemmo a un tavolino all’interno e cercammo di radunare quanti più ricordi possibili della serata precedente. Cercai di capire cosa avevano fatto gli altri e scoprii che non era molto differente da ciò che avevamo fatto Rafael ed io: bere e provarci con le ragazze.
Concordammo tutti che cantare Con te partirò di Bocelli a Parigi, era una delle cose da fare per forza nella vita. Fu l’apoteosi della serata, e soprattutto, totalmente imprevista. Imprevista… come la chiamata che ricevette Alberto in quell’istante.
– Pronto! Hi Yann! How are you? –
Alberto parlò con questo tizio dal nome difficile per un paio di minuti. Gli dette appuntamento nel primo luogo che gli venne in mente: la Tour Eiffel.
“Un genio… decisamente una persona molto intelligente!” pensai.
Dare appuntamento a una persona, sotto uno dei monumenti più famosi del mondo, visitato da quasi 7 milioni di persone l’anno, di sabato, ci vuole coraggio.
Gli feci un grande elogio e c’incamminammo.

Percorremmo avenue George V osservando macchine di lusso e ristoranti eleganti. Attraversammo la Senna su Pont de L’Alma e qualcosa s’iniziò a vedere da lontano. La Torre. Restai fermo un istante a osservarla. Non perché fossi estasiato o meravigliato, al contrario, quella bizzarra piramide ferrosa, non mi diceva niente. Mi dava l’impressione di essere un grosso traliccio della corrente elettrica e niente più. Cercavo nel mio corpo qualche emozione da sprigionare. Ci riflettevo… osservavo ancora… pensavo… ricordavo… Niente! Per me, quella rinomata Tour Eiffel, era solo un ammasso di ferraglia ben costruito. Rendeva meglio nelle foto da cartolina.
Dopo aver passeggiato per rue de l’université, finalmente ci fummo sotto. Proprio al centro, circondati da migliaia di persone in fila per salire. C’erano due ascensori che partivano da due piloni opposti e all’interno degli altri c’erano le scale per permettere alle persone di scendere. Mi posizionai al centro e alzai lo sguardo osservando il grosso quadrato metallico. Il culo della torre in pratica. Non mi diceva niente neanche quello. Solo ferro! Ganci, bulloni, travi… innesti, giunture, fili… cose non molto diverse da un cantiere di un grattacielo. E osservando le facce delle persone incantate dal metallo, ero invidioso e curioso di sapere il perché. Anch’io volevo provare una bella emozione… sognare e liberare un wow dalla mia bocca. Ma non riuscivo a mentire…
– Yann! My friend! –
Un normalissimo ragazzo con una normalissima borsa venne incontro ad Alberto. Era francese senza alcun dubbio. Il suo viso già parlava di per sé. Era un Vincent Cassel con vent’anni di meno e un fisico asciutto.
Ci presentammo, ovviamente in inglese, e anche a lui spiegai che Ciro ed io avevamo lo stesso nome. Iniziammo a camminare. Non chiedetemi per dove né perché. Camminammo e basta. Alberto, che conosceva questo Yann, parlò con lui per un po’, poi lo lasciò libero e subito passai all’attacco. Quel volto, quei movimenti e quel fisico, erano pressappoco interessanti per la mia fervente curiosità. Dovevo sapere di più.
– Yenn… – dissi cercando di richiamare la sua attenzione. Non si voltò e dopo capii il perché. Il suo nome andava pronunciato in maniera corretta. Nemmeno io mi sarei girato se qualcuno avesse urlato “Cero” invece di Ciro. Chiesi l’aiuto del pubblico e mi suggerirono la corretta pronuncia.
– Yann! – si girò e mi sorrise.
Mi affiancai a lui mentre camminavamo. Mi raccontò un po’ di sé. Aveva ventun anni e studiava economia come il sottoscritto. Gli piaceva la borsa e gli investimenti e mi s’illuminarono gli occhi quando me lo rivelò. Gli domandai qualcosa sull’economia francese e mi lamentai con lui perché la borsa di Parigi aveva subito un black-out causando notevoli perdite agli investitori.
In quel momento, per me, questo Yann rappresentava la Francia e Parigi. Anche se non era della città ma di un paesino a 300 chilometri di distanza. Aveva preso un treno e ci aveva messo meno di un’ora ad arrivare. E mi prese in giro dicendo che in Italia, con una buona fortuna, ne avrebbe impiegate almeno 4. Per lui, io impersonificavo l’Italia. E il problema era che non potevo dargli torto pur volendo difendere a spada tratta il mio Paese.
E così si aprì una sfida non dichiarata. Dibattemmo a lungo, senza tregua. Gli dissi che i francesi erano così stupidi da mangiare le lumache! Lui mi rispose che gli italiani erano così stupidi da non riuscire a raccogliere l’immondizia!
Il ragazzo lì, mi toccò nel vivo. Non mollava e aveva la risposta pronta. Eccitante dibattere con lui.
Gli dissi che L’Arc de Triomphe, altro non era che una banalissima copia dell’Arco della Pace di Milano. Di rimando, mi fece notare che lo spumante era una banalissima copia dello champagne.
Eravamo testa a testa come due pugili al primo round. E con una mossa non molto regolare gli dissi che la Francia era un paese di checche. Mi rispose che il Gay Pride Europeo si era svolto a Roma. Colpito e affondato. Era come duellare contro un avversario di eguale potenza.
In un impeto di rassegnazione tirai fuori l’ultima chance: – Voi francesi non avete una parola sola per dire il numero ottanta! Dovete dire per forza quattro volte venti! –
Yann ci pensò un attimo. Roteò gli occhi titubante. Si morse il labbro pensieroso. Alla fine però… mi diede ragione!

Italia – Francia = uno a zero.

 

 

Su navi e per mari… (la nouvelle de Paris VI)

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23:00

Poggiammo le buste della spesa sul tavolo. Spesa però, era un termine inappropriato a descrivere tre buste piene di bottiglie di vino rosso. Eravamo stati al Monoprix, un negozio di cosmetici che aveva un supermercato nel piano interrato. Mi ricordava tanto il Billa di via Torino.
– Cosa mangiamo? Ops… scusate… what we eat? – chiesi vedendo Rafael che mi fissava.
– We have: eggs, bacon and a lot of spaghetti! – disse Antonio.
– Carbonara! –
– Cucino io… – disse mio cugino.
Alberto aveva già in mano la prima bottiglia di vino.
– Da quale cominciamo? Dal migliore o dal peggiore? – chiese.
– Dalla migliore è ovvio! Perché quando sei ubriaco puoi bere anche il peggior vino esistente! –
– Ah… anche tu sei di questa scuola di pensiero? –
– Sempre! Fin dagli anni del liceo… –
Alberto, quindi, prese una bottiglia di Bordeaux e la stappò con frenesia. Versò maldestramente il vino nei bicchieri che avevo disposto sul tavolo. Alcune gocce caddero in giro.
– Pardon… – disse Alberto.
Facemmo il primo brindisi della serata e trangugiai il liquido amarognolo. Aveva un buon sapore. Cercavo di paragonarlo a qualche vino italiano ma non me ne veniva in mente nessuno. Intanto Alberto aveva già riempito di nuovo i bicchieri. Sempre maldestramente e sempre costringendomi a pulire con la carta le gocce cadute prima che Antonio se ne accorgesse.
– Alla Francia! –
– E alle Francesi! – dicemmo in coro.
Dalla cucina si spandeva un invitante profumo. Il mio stomaco brontolava peggio di un motore a secco. Ciro si stava dando da fare. Non era facile cucinare mezzo chilo di spaghetti in una pentola media. Ogni tanto saltavano in giro pezzi di uovo e pancetta. Probabilmente, complice della distrazione generale, era il vino che, per volere di Alberto, scorreva a fiumi. Rafael osservava con il suo bicchiere mezzo pieno in mano. Ogni tanto commentava in inglese qualcosa. L’alcol sembrava non toccarlo. Al contrario io, ero già mezzo fuori. Stavo apparecchiando la tavola e i miei movimenti, anche se molto coordinati, erano stranamente lenti.
– È pronto! – disse Ciro poggiando pericolosamente la pentola incandescente a tavola.
Facemmo i piatti e ovviamente, anche il tavolo assunse lo stesso aspetto della cucina. E si poteva mai iniziare a mangiare senza un brindisi?
– Buon appetito! –
Di fianco a me era seduto Rafael. Lo strano economista-avvocato e chissà quant’altro. M’incuriosiva questo ragazzone di trent’anni… e quando una persona m’incuriosisce, la barriera della timidezza si dissolve.
– Rafael… It’s the first time in France? –
– Yes… my next step is Berlin… and then i will go in Italy! –
– In Italy? Where? –
– Florence and Rome! –
– Very good Cities! –
Aberto si alzò in piedi brandendo l’inseparabile bottiglia di vino. Ci rifornì tutti e incitò quelli che avevano ancora del vino nel bicchiere a finire, per poi riempirlo di nuovo.
Contando le bottiglie vuote e dividendole per i presenti, il risultato dava più di una bottiglia a testa. Ero dannatamente fuori. La vista iniziava a sfocarsi nel contorno e quella piacevole sensazione di abbandono volteggiava nella mente.
– Rafael! My Friend! – brindai con lui.
– Do you know same italian’s words? – gli chiesi.
– No… I don’t. –
– Well… I teach you something. When you will go in Rome and you will see a very beautiful girl… you must say “Anvedi che sorca!” repeat… –
– An..vedi… che.. sorca! – Disse Rafael con qualche incertezza. Tutti scoppiammo a ridere e il brasiliano ripetette quella frase fino allo sfinimento, sfinendo anche noi a suon di risate.
Istruii Rafael a dovere con un buon vocabolario da perfetto scaricatore di porto. Per tutta la cena non chiusi un attimo bocca; e più parolacce mi venivano in mente, e più gliene insegnavo, nelle diverse forme e sfumature. Era più divertente che insegnare le parolacce ad un bambino.

La cena finì e per fortuna del mio fegato, anche il vino. Era passata la mezzanotte quando, brilli, profumati e ben vestiti, uscimmo di casa. Cercavamo un posto dove andare a ballare e il Queen era perfetto. Era una discoteca non lontana da casa, posizionata lungo gli Champs. Il buttafuori nero ci fece passare senza troppi problemi e una volta dentro ci fiondammo in pista.
Andai a prendere un cocktail e persi di vista i ragazzi. Afferrai il mio Cubalibre e vagai alla ricerca di una faccia amica. Trovai Rafael che ballava in modo molto scoordinato e scattava foto a raffica con la sua compatta.
– Hi Friend! –
Mi sfoggiò un gran sorriso e lo presi a braccetto. Ci conoscevamo solo da un giorno ma a vederci, sembravamo due vecchi amici.
– Rafael, go di qua… –
La mente non capiva più e la lingua s’inceppava nelle parole. Parlavo un misto di italiano, inglese e francese, colorato di gesti esplicativi. Rafael, stranamente, mi capiva lo stesso. Salimmo delle scale che portavano ad un altro piano. C’era una sala fumatori dove la musica assordante stentava ad arrivare. Le orecchie ebbero un po’ di pace. Facemmo il giro della sala come due predatori che cercano la preda. Due ragazze stavano fumando ad un tavolino alto. Ci guardavano. Spinsi Rafael sotto il mio braccio in quella direzione.
– Hi girls! –
Le due ragazze si guardarono tra loro sorprese.
– Hello boys… – rispose una.
Rafael iniziò a presentarsi.
– My name is Rafael son de Brasil!
– My name is Chloé and she is Elise. –
Dai loro nomi capii che erano francesi e quando toccò a me parlare sfoggiai le mie nozioni.
– Je m’appelle Ciro… enchanté… –
Le ragazze sorrisero. Forse il mio francese non era male. Il problema era che le mie frasi si contavano sulle dita di una mano!
– Parle vous englais? –
– No… – mi risposero deluse.
Ma i più delusi eravamo noi. Comunicai la notizia a Rafael e con molta educazione, tagliammo la corda!
Rafael era molto simpatico. Scherzava, rideva, faceva battute. Adocchiava le ragazze e ballava qualsiasi canzone. Mi trovavo a mio agio con lui. Mi faceva da spalla ed io spalleggiavo lui quando ci provavamo con qualsiasi esponente del gentil sesso presente nella sala. Che figuracce a volte…
Girando e rigirando trovammo il resto del gruppo. Stavano ballando nei pressi di una specie di cubo alto. Una paio di ragazzi e ragazze ballavano lassù. E perché non dovevo esserci anche io con loro? Così da poter raccontare ai miei nipotini, di quando il nonno s’è reso ridicolo a Parigi?
Salii e cominciai a ballare con una tipa. Lei sembrava starci… un po’ meno il suo ragazzo. Scesi alla svelta. Tornai a ballare con gli amici. La musica era alta e gli effetti dell’alcol non accennavano a calare. Sentii delle note da lontano appena sussurrate. Erano note familiari. Una musica che sapeva di casa. Ci girammo tutti in direzione del Dj. Poi ci guardammo in faccia avendo inteso la canzone che stava cominciando. E abbracciandoci tutti come un quartetto stonato, iniziammo a cantare…
– Con teee… partirooo… –

 

 

 

Una coppia d’inglesi a Parigi! (la nouvelle de Paris V)

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“Siamo arrivati! Ora prendiamo la metro… dove scendiamo?“ disse una voce al telefono.
George V… devi prendere la linea 1! –

La notte era scesa pesante in quel di Parigi. Tutto sommato la volta celeste restava uguale a quella italiana. Non riuscivo a vedere le stelle, tanto era forte il caos luminoso della città; e non so quanto le stelle avrebbero potuto reggere il confronto con una simile bellezza artificiale.
Percorremmo a ritroso gli Champs-Élysées. Tornammo verso casa dopo il pomeriggio passato ad ammirare monumenti e cattedrali. Mi sentivo come a una gita scolastica, ma senza guida né professori. Tutto ciò che osservavo lo andavo a ricercare nella mia mente, in quei vaghi ricordi di ore passate su libri d’arte e storia. Sarebbe stato più semplice… Sarebbe stato più facile… Sarebbe stato più bello studiare così. Per esempio, ripassare la fisica osservando il Pendolo di Foucault nel Pantheon… ricordarsi del moto oscillatorio, della gravità e di quel matto di Galileo che non aveva nient’altro da fare; oppure ricordarsi della rivoluzione, passando davanti alla Bastiglia, l’imponente antico carcere parigino; e l’arte barocca dell’Hôtel des Invalides… con la sua scintillante cupola dorata e la tomba di Napoleone al suo interno. Sublime.
Erano passate le dieci e attendavamo questi due ragazzi davanti all’uscita della metro 1. Ero leggermente infastidito da quell’inaspettata aggregazione al gruppo. Ciro era mio cugino e Antonio lo conoscevo abbastanza bene, dopo averlo ospitato una volta a Milano. Ma quest’altri due non sapevo proprio chi fossero. Mai visti e mai sentiti. Erano due amici di Antonio, conosciuti a Cambridge qualche mese prima.
– Vedrai Ciro… Alberto è un tipo talmente logorroico… – e fece un gesto scocciato con la mano.
Devo ammettere che adoro le persone che parlano sempre… rendono il mio silenzio meno imbarazzante. Purtroppo però, una cosa che devo assolutamente perfezionare del mio carattere, sono questi ambìti “rapporti sociali” che le persone comuni intrattengono con tale facilità da farmi vergognare della mia difficoltà. Ho studiato un po’ di psicologia, letto libri di comunicazione e conosciuto una variegata specie di caratteri personali per potermi confrontare e capire dov’era il mio errore. Niente… tutto vano! Sono così… e nessuno mi cambierà mai!
Fatto sta, che in quel momento proprio non mi andava di conoscere gente nuova. Un po’ come quando tua madre ti serve una minestra e tu devi mangiarla per forza… e conti fino a tre prima di ingoiare il primo boccone. Contai fino a tre anche quella volta e mi sentii pronto. Dopotutto erano solo ragazzi: un “ciao”, un “come va?”, normale routine per sciogliere il ghiaccio. Semplice no?
– Arrivare ai trenta, nel bene o nel male, con questo stile di vita, mi farebbe comunque piacere… – risposi.
– Eh già! Ah… dimenticavo… parlano inglese! –
Feci una faccia stupita e guardai mio cugino che, come me, non navigava in buone acque con le lingue.
– Inglese?! Dovremo parlare per tutto il tempo in inglese?! –
– Hey guys! –
Dalla metro uscirono due ragazzotti, uno aveva un trolley blu e l’altro uno zaino nero in spalla. Era vero… più che trentenni sembravano ragazzini! E come si vestivano!
– Hi Antonio! –
Antonio salutò i suoi amici e poi si passò alle presentazioni. Ciro partì per primo, poi toccò a me.
– Hello friend! –
– Hi, my name is Ciro! –
– My name is Rafael. You two have the same name? –
– Yes… he is my cousin… –
– Oh yaa… –
Mi presentai anche ad Alberto e l’interrogazione d’inglese per il momento era finita. Feci un respiro profondo. “Immagino che discorsi a cena…” pensai mentre camminavamo in non so quale direzione. Alberto aveva preso sottobraccio Antonio e conversava con lui tranquillamente raccontando di fatti, storie e soprattutto di donne. Ciro cercava di far amicizia con questo Rafael mentre io ascoltavo camminando a fianco.
– I come from Brasil… I’m a lawyer… –
“Un avvocato?” pensai.
– …and i have also a degree in economy… –
“Un avvocato e un economista! 2 Lauree! E veste come un quindicenne che si veste male… non ci posso credere!”
– …we met Antonio in Cambridge… i went there to study english… –
Ora che sapevo che veniva dal Brasile, feci più caso al suo fortissimo accento brasiliano. I suoi tratti somatici forti e i lineamenti del viso bollavano istantaneamente la sua provenienza straniera.
– And now, what do we do? – chiese Rafael.
– And now… wine! A lot of wine! Do you have some wine? – chiese Alberto ad Antonio.
– Yes! Three bottles… –
– No… three bottles are few… we must buy other wine! –
A mano a mano, traducevo le frasi con un po’ di difficoltà, e quando arrivai al punto che volevano comprare altro vino, feci un sorriso sollevato. Mi stavano più simpatici. Avevano pronunciato la parola chiave comune a tutte le lingue… l’alcool! E Ora li osservavo sotto un’altra luce.
Quei ragazzi, in fondo, non erano poi così male…

 

 

Notre-Dame de Paris (la nouvelle de Paris IV)

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Salimmo sulla Rer B, una sorta di treno-passante che taglia in due Parigi. Arrivammo a Châtelet, il cuore pulsante della Parigi sotterranea. Scendemmo infine alla fermata George V… sugli Champs Élysées.

Con gli occhi sognanti e il cuore impaziente, ad ogni gradino della scalinata che fuoriusciva dalla metro, vedevo delinearsi una città del tutto nuova. E mi sentii come Dante che, uscito dall’inferno, guardò per la prima volta uno spiraglio di luce.
Respirai, prima di salire l’ultimo gradino; respirai un profumo diverso… straniero… insolito. Mi riempii i polmoni di un’aria non mia… di un’aria che non conoscevo… e vidi finalmente la Francia. Ero nel suo cuore, nel centro di Parigi, sulla rinomata Avenue des Champs Élysées. E in fondo, sotto un sole che batteva, vedevo il mastodontico Arc de Triomphe. Un grosso arco in stile neoclassico-romano fatto costruire da Napoleone dopo la vittoriosa battaglia di Austerlitz. Una battaglia fantastica e strategicamente perfetta. Quell’omino era basso sì, ma avrà avuto un cervello grosso quanto un melone. Al suo tempo sarà passato proprio sotto quell’arco; avrà visto quelle figure scolpite alla perfezione; e ammirato lo stile romano che tanto lo affascinava. Che meraviglia…

– Dobbiamo attraversare. La casa è dall’altra parte della strada. – disse Antonio.
– Abiti da Luis Vuitton? – scherzai, guardando l’altro lato della strada.
Antonio si girò e con un sorriso disse sicuro di se: – No, dietro! –
Arrivammo davanti al portone della casa. Era una via molto lussuosa. Immersa tra banche e negozi di alta moda. Osservai il citofono e già da quello capii che in quel palazzo vivevano persone che non volevano essere disturbate. Non c’erano nomi ma solo numeri; e la porta si apriva con un portachiavi magnetico rotondo. Entrammo nell’anti-atrio. Un fine tappeto coccolava i miei piedi e una splendida porta a vetri ci separava dagli appartamenti. La casa era al primo piano. Niente scale o ascensori. Molto comodo.
Giro di chiavi…
– Eccoci qua! Casa mia! –
Entrai in quell’appartamentino seguendo mio cugino Ciro. C’era odore di chiuso e polvere in giro. Era evidente che quella casa non vedeva luce da tempo. Era un monolocale parquettato con due eleganti divani-letto in fondo alla stanza. La cucina era in un angolo e ovviamente non mancavano armadi e Tv.
Antonio si diede subito da fare. Aprì le finestre e spazzò per terra. Io e Ciro aprimmo i trolley e sistemammo qualche vestito spiegazzato. Salutai la mia pallina rossa che, ovviamente, avevo portato con me in questa insolita trasferta. Mi sedetti sul divano e feci due conti osservando quella casa. Antonio tra una battuta e l’altra aveva rivelato che valeva 13000 euro al metro quadro. Ebbi una strana sensazione nel pensare che il mio culo fosse poggiato su così tanti soldi. Feci una rapida moltiplicazione per le dimensioni dell’intera casa. Deglutii al risultato. Beh… del resto… eravamo sugli Champs Élysées!

Cacciai dalla borsa la cartina di Parigi che avevo comprato alla Feltrinelli. Antonio aveva da poco finito le pulizie e si era seduto sul divano.
– Guarda Antò! –
– Grande! –
Aprii quella cartina che a dimensioni faceva invidia al catasto comunale. La stesi per terra e ci sedemmo ai lati ad osservare la città.
– Allora, vediamo se mi ricordo qualcosa… – disse Antonio, sforzandosi di ricordare delle sue precedenti vacanze con i genitori.
– Noi siamo qui: Champs Élysées, qui c’è l’Arc de Triomphe, qui vicino c’è la Tour Eiffel, non è lontano… ci possiamo andare anche a piedi. Qui c’è Notre dame e il Louvre, anche lì potremo andare a piedi… poi… –
Mentre osservavo Antonio che indicava luoghi e percorsi sentii picchiettare sul muro.
– Di chi è la pallina? – chiese Ciro che stava giocando.
Lo osservai con terrore.
– È mia! Posala subito! – gli intimai.
– Ok ok! Calma! La poso! – rispose Ciro.
– Ragazzi! Allora usciamo o no? –

Scendemmo in strada; tre ragazzi improvvisati turisti. Percorremmo tutta Avenue des Champs Élysées con la stessa tranquillità delle passeggiate in corso Buenos Aires o Vittorio Emanuele a Milano. Tutta la mia ansia era svanita… e mi stavo preoccupando… mi stavo preoccupando di non avere ansia! Che buffa la vita.
Arrivammo in una strada che costeggiava les Jardin de Tuileries, dall’altro lato invece avevamo la Senna. Più avanti, dopo aver oltrepassato il Louvre con un immenso desiderio di entrarci, arrivammo al Pont Neuf, che a discapito del nome, (Ponte nuovo) è uno dei ponti più antichi della città. Collega le due rive della Senna passando per l’Île de la Cité. E proprio quest’ultima era la nostra meta. La mitica isola nel cuore della città. Vista dalla cartina sembrava così piccola ma appena fui dentro mi sembrò immensa.
E mi fermai un attimo… quando da lontano vidi le due immense torri della cattedrale di Notre-Dame.
Che fantastico spettacolo! La mia mente abbandonò il mondo reale per catapultarsi in un medioevo ancora agli albori. Quando le case a stento superavano i due piani e le macchine e il frastuono dei motori non tormentavano la città. Solo lo scalpitio di zoccoli e carrozze poteva essere udito per le strade; e le voci delle persone… i viandanti e i mercanti con le loro bancarelle; e i preti… che, con i loro canti gregoriani, riempivano le immense navate delle chiese. Quanta storia hai visto Notre Dame? Quante guerre e sangue piangesti? E chissà cosa pensasti quando Napoleone s’incoronò re dei Francesi tra le tue mura… Quante storie hai visto raccontarsi? Come quella dei Gargoyles, quelle strane creature che spuntano in alto dalle tue pareti esterne. E perché non ricordare Quasimodo, comunemente detto il gobbo di Notre Dame, che Victor Hugo descrisse nel suo celeberrimo romanzo.
Notre Dame de Paris.

Entrammo. Il grande Rosone nero, che dominava la facciata esterna, all’interno si dipingeva di colori. Le sue vetrate raccontavano le più comuni storie Bibliche. Sembrava un immenso diamante dalle sfaccettature colorate. Ero incantato nel vedere una così grande e minuziosa opera d’arte. Mi girai e i miei occhi spaziarono nell’immensa navata centrale. Guardai in alto e notai le croci che formavano gli archi a sesto acuto che sorreggevano il soffitto. Ed anche vedendo e toccando quelle mura non riuscii a spiegarmi come delle persone con semplici utensili e nessuna gru, avessero potuto costruire una volta così alta, sorretta solo da massicce colonne e archi rampanti… che, per di più, ha resistito per quasi un millennio, mentre al giorno d’oggi i palazzi con più di 100 anni son da demolire.
Percorremmo la navata laterale. Eravamo nella penombra di candele e qualche faretto. Camminando tenevo d’occhio il centro della chiesa, e la mia mente, come al solito, viaggiò nella fantasia. M’immaginai di essere tra gli spettatori che assistevano all’incoronazione di Napoleone come nel dipinto di David. Vedevo la scintillante corona tra le mani del futuro re; il papa, seduto dietro, che osservava la scena con un po’ di rancore. L’immenso mantello rosso… la corona d’alloro… e la moglie Giuseppina inginocchiata. Stemmi ovunque e tantissime persone. Candele… tante candele… e alla fine, un immenso applauso…
Che magica scena… avrei desiderato viverla in prima persona. Avrei rinunciato a tecnologia e mondo moderno per vivere in quel tempo; e magari essere uno dei generali di Napoleone per avere un posto nella storia. E invece la mia storia è ben diversa… è una storia da spettatore che si diletta a descriverne qualche pagina quando ha tempo. Ma il tempo sembra non bastare mai…

Biiiip
Il cellulare di Antonio squillò. Era un messaggio.
– Ragazzi! Fra poco avremo compagnia! –

 

 

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