Rimini… (Ricordi di Rimini 2004)

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Ho quasi diciassette anni. Diciassette anni e già il peso della valigia si fa sentire. La valigia dei pensieri, delle preoccupazioni e dei disegni del futuro. Mi sento già oppresso da tutto ciò. Per fortuna che la scuola è finita e ho tirato un bel sospiro di sollievo alla vista della mia pagella. Ma i giorni di questa estate corrono veloci. E mentre assaggio la mia fetta di libertà è già arrivato agosto e si sente il profumo dei banchi di scuola di settembre. Non voglio tornare a scuola.. voglio la mia parte di vita. Voglio chiudere gli occhi e non pensare a niente. Voglio respirare mentre canto che Questa è la mia vita. Voglio che la mia Vespa corra di più per arrivare in paese perché i ragazzi sono in giro. Non voglio più amare.. perché ho scoperto che amare fa male.. come il fuoco a chi non lo sa usare. E sono sopravvissuto.. e sopravvivo sapendo di poter dimenticare.. di poter riiniziare..

Come io vorrei..

Voglio il mio bel 10..

E se il mio futuro è da 4 o da 9 poco importa..

Perché domani vado a Rimini..

 

Un treno espresso viaggiava nella notte. A bordo, oltre a un migliaio di persone, c’eravamo noi. Stipati come solo Dio può saperlo. Erano le due della notte ed eravamo stesi per terra. Tra le due carrozze. Avevamo bloccato le porte “automatiche” con una valigia e allungato i piedi nello spazio di interconnessione dei vagoni. Il treno era affollatissimo. E si potevano ammirare le scene più bizzarre che avessi mai visto in vita mia. Per esempio c’era una persona che dormiva per il lungo sul porta-valigie su in alto. Lo guardavamo con tantissima ammirazione cercando di capire come avesse fatto a salire fin lassù. C’era un signore di mezza età che dormiva seduto per terra nella carrozza affianco. Aveva la bocca aperta da circa 2 ore e noi li a ridere cercando di buttargli dentro qualcosa. Era diventato il nostro mito. Poi vedemmo il controllore che rincorreva due stranieri. Vedemmo i due stranieri tornare e cambiarsi le magliette proprio davanti a noi. E mentre il controllore tornava.. loro facevano finta di niente. Non furono riconosciuti grazie ai colori nettamente diversi da quelli che avevano prima. Da li capii che il biglietto del treno poteva anche non essere pagato. Che furbata.

La notte era ancora lunga davanti a noi. E nonostante la stanchezza non riuscivo a dormire. Mi succede spesso quando sono in viaggio. Difficilmente prendo sonno. Ero impaziente di arrivare e tentavo d’immaginare le mille avventure che mi stavano aspettando. Era la prima volta che mi spingevo così tanto lontano da casa. I miei amici qui per terra erano tutti più grandi di me. E potevano permettersi di fare certe cose senza litigare con i propri genitori. E io guardavo il cellulare cercando di non pensare a quanto insistetti per andare a quella vacanza. Per fortuna che nella dura lotta con mio padre l’avevo spuntata. 

Il dondolio del treno mi stava cullando. Un occhio stava per cedere alle insistenze di morfeo. Guardavo i miei amici. Sembravano profughi in cerca di fortuna. Mario aveva da poco fatto i capelli stile rasta e li teneva raccolti sul capo con una fascia nera. Luca indossava una maglietta dei Pantera che non cambiava da almeno tre giorni e a guardarlo sembrava che sognasse di bucare chissà quale server di mirc. Enzo dormiva abbracciato alla sua chitarra.. la musica è la sua passione. Pasquale invece.. era famoso per dormire nei modi più strani possibili!

Mi sistemai il cappello sulla testa. Mi alzai.. e andai al finestrino. Il paesaggio era fantastico. Era mattina.. e il mare s’intravedeva da lontano. Sorridevo..

Eravamo arrivati a Rimini.

Certe volte ho voluto essere grande più di lui…

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Anche se  molte volte mi hai fatto soffrire… Grazie Papà

31 gennaio…
Napoli..
Stazione centrale.

Trascinavo a fatica il mio pesantissimo trolley tra la gente che mi tagliava la strada e gli enormi cartelloni pubblicitari che si stagliavano come grattacieli all’interno della stazione. L’altra borsa l’aveva mio padre. Quella mattina mi aveva accompagnato fin lì evitandomi un noioso viaggio a bordo di un pullman che sicuramente mi avrebbe fatto perdere il mio treno programmato. Così s’era svegliato di buon ora durante il suo giorno di riposo che, per chi conosce mio padre, era una definizione irrilevante. “Non si smette mai di lavorare!” era uno dei suoi pensieri più persistenti.
Entrai nella porta secondaria della stazione, che forse era quella principale, non saprei. Entrai dalla zona in cui erano disposti gli interminabili sportelli della biglietteria e le altrettanto interminabili code di persone davanti a loro. Le macchinette automatiche, come al solito, erano vuote o con una o al massimo due persone. “Chissà perché?” mi chiedevo sempre. “Come mai non le usano. Sono più veloci e comode e scegli ciò che vuoi…”. Oramai le conoscevo a memoria. Avrei potuto anche utilizzare una lingua diversa per fare il mio biglietto. Magari il giapponese così almeno capirei quando un turista di quella nazionalità mi chiede informazioni mostrandomi il suo biglietto incomprensibile. (Non sapete quante volte mi sia capitato!)
Dopo aver zigzagato tra le file di macchinette, procedetti a passo svelto, diretto al solito binario 16. Oramai non guardavo più il tabellone per sapere da dove partiva il mio treno. Perché avevo imparato per esperienza che i treni in partenza per la mia solita meta li trovavo sempre lì. Tra il 15 e il 17. La solita banchina sempre colma di gente in attesa.
Mi fermai un attimo. Per sicurezza volli controllare il grande tabellone delle partenze per essere certo che il mio treno non sia stato cancellato o spostato. Beh… sarebbe stato molto stressante prendere un treno sbagliato con un trolley che pesava quasi quanto me. Ma eccolo lì. Sempre lui. Solita ora… solito binario… e… solito ritardo! Vabbè… c’avevo fatto l’abitudine. Quei 5, 10 minuti ormai erano ordinaria amministrazione. Diedi un’occhiata a mio padre e gli indicai il mio treno. Lui guardò il tabellone per una manciata di secondi e finse di aver capito ma sapevo che senza occhiali non riusciva a leggere molto. E in quel momento pensai che se fossi partito per le Maldive, lui non se ne sarebbe minimamente accorto. Ciò che però mi avrebbe fregato sarebbe stato quel binario. Beh… anche lui conosceva quel binario. Gliel’avevo insegnato io una volta che mi chiese dove sarei arrivato con il mio treno.
“Binario 16 papà… salvo complicazioni… è sempre quello.”

Ma ora si trattava di partire. Partire per un altro viaggio. Il solito viaggio con le solite tappe intermedie che il capotreno scandiva ad ogni fermata, ricordando dove fosse diretto quel treno. Verso la mia meta.
Stringevo nella mano il mio biglietto mentre camminavamo lungo il binario.
Mio padre dopo dieci metri mi chiese che carrozza avessi.
– La 8… – risposi, ma questo non gli disse niente e quindi aggiunsi.
– Dobbiamo arrivare a circa metà del binario… lì dovrebbe fermarsi al mia carrozza. –
E dopo una decina di metri…
– Fermiamoci qua… dovrebbe andare bene… –
Mio padre non disse niente. Come al solito non siamo stati mai molto loquaci. Così passarono 5 minuti e mi disse: – Vabbè… tanto ormai devi aspettare solo il treno… Vado a casa… ci sono un mucchio di cose da fare… Mi raccomando giovane… sta attento. –
– Certo papà… ci sentiamo… ciao. –
E dopo questo saluto ed un veloce abbraccio mio padre mi voltò le spalle diretto verso l’uscita. Sapevo che odiava aspettare senza far nulla. Quindi se non se ne fosse andato lui gliel’avrei detto io che non serviva aspettare.
Mio padre avanzava lento scansando le persone in attesa del treno. Le superava una ad una, come ostacoli di una vita già vissuta. Chissà cosa starà pensando… Forse a me… forse ai miei fratelli… Molto probabilmente al lavoro… nessuno potrebbe mai scollarlo dal lavoro. Ha fatto moltissimi sacrifici. Per me… per la famiglia… Chissà dove sarei ora senza l’aiuto di quell’uomo che ora camminava via da me. Era merito suo se ero lì, su quel binario, diretto in quella città. Era merito di tutte le volte che mi diceva che dovevo mettercela tutta. Era merito di quando mi urlava ostinatamente che dovevo provarci. Era merito della sua vita e di quello che ha costruito con i suoi sforzi e il suo sudore.
Ed io ero lì ad osservarlo… inerme. Chiedendomi se mai un giorno sarà fiero di me. Se mai potrò ripagarlo dei giorni di lavoro necessari a farmi comprare tutti quei libri su cui ho studiato anno dopo anno… E degli sforzi che ha fatto per comprarmi tutte quelle cose inutili che volevo a tutti i costi… solo perché gli altri ragazzi le avevano. E mio padre, per non farmi sentire inferiore a nessuno, me le comprava. Magari dopo mille richieste, ma alla fine riuscivo a convincerlo. Perché in fondo non avrebbe voluto mai negarmi niente… ma solo farmi capire quanto costi la vita e quanto costi svegliarsi per 40 anni e avere turni a tutte le ore, tutti i giorni e spesso anche la notte. E quando ritornava a casa, non sempre era felice e rilassato. Ed io… invece di capirlo, giravo i tacchi e correvo nella mia stanza… solo per non sentirlo ripetere le solite frasi dettate dalla stanchezza.
Ora quelle frasi non le sentivo più… Ora molte cose sono cambiate… Forse avrà capito che sono cresciuto, che in un certo senso sono maturato. Insomma ho pure 20 anni! Ma secondo me, per lui rimarrò sempre il suo figliolo. Il suo primogenito. Quello a cui insegnava le cose. A cui dava spiegazioni che duravano delle ore perché voleva farmi capire bene i miei “perché?”. Quello a cui ha insegnato a sapersela cavare sempre e comunque in qualsiasi situazione. E solo ora capisco perché molte volte mi costringeva a seguirlo al lavoro, nei lavoretti di casa, o a vedere il telegiornale. Ho imparato tantissime cose. Mi ha insegnato a vivere senza aver bisogno degli altri. Inconsciamente mi ha fatto capire come potermi rialzare dopo una caduta e che quando una cosa si rompe, col tempo e la pazienza si può aggiustare. Ma soprattutto… che una vita si costruisce passo dopo passo.
Ed eccolo lì… che passo dopo passo si dirigeva verso l’uscita della stazione. La folla si fece più fitta e lui si mescolò alle persone come una anima comune. Riuscivo ancora a distinguere la sua figura in lontananza. Aveva le mani in tasca e lo sguardo rivolto verso il basso. Come se avesse sbagliato qualcosa nella sua vita ed ora se ne pentisse. Ma nessuno sa… che lui è l’unico, in mezzo a queste persone, a poter camminare a testa alta… sempre. Tra chiunque e in qualsiasi luogo. Lui è riuscito a creare qualcosa dal nulla. Da quel nulla in cui molte persone sono ancora presenti e pigramente si adagiano su quel poco che hanno fatto. Ma lui no… ogni giorno della sua vita ha sempre compiuto uno sforzo in più… per dare a me le migliori possibilità per il futuro.
Ho sempre pensato che mio padre fosse egoista ma vedendo il disegno del mio futuro, in buona parte costruito da lui, mi sono ricreduto delle mie parole.
Ho capito… che se un giorno mi negava qualcosa, era perché il giorno dopo me l’avrebbe data il doppio.
Ho capito… che se qualche volta dormiva invece di accompagnarmi dai miei amici era perché era veramente stanco.
Ho capito… che se mi sgridava e mi sgrida ancora… è per il mio bene.

Un ultima occhiata…
E poi scompare…
Venendo da dove è venuto. Ritornando al suo presente… Ritornando alla sua macchina… Negando come al solito la mancia al parcheggiatore (mentre io sorridevo guardandolo dal lato passeggero). E mi ripeteva che lui quei 50 cent se li era guadagnati lavorando e non stando davanti ad un parcheggio a guardare le macchine! Su certe cose non cambierà mai. Testardo come pochi… Fermo sulle sue idee… Autoritario e tenace. Instancabile e assiduo. Intramontabile… imbattibile anche dal tempo…
Continuavo a guardare oltre il binario anche se sapevo che non avrei più potuto vederlo. Oramai avrà già messo in moto la vecchia focus dimenticandosi di allacciare la cintura di sicurezza… diritto verso casa… la sua casa…

E ripenso alle tante volte che avrei voluto essere più grande di lui…
Per gustare il potere della decisione…
Per poterlo sovrastare…
Per poterlo mettere a tacere dopo una discussione…
Tutte quelle volte in cui avrei voluto che ritornasse al lavoro perché così non rompeva le scatole in casa.
Tutte quelle volte che, da piccolo, avrei voluto che giocasse un po’ con me.
Ripenso a tutte le volte che mi ha accompagnato dovunque desiderassi e a qualsiasi ora.
Tutte le volte che ha risolto i miei problemi con la scuola.
Quelle volte quando lo chiamavo a notte fonda perché magari avevo fuso il radiatore della Punto con le mie bravate.
E lui era lì…
E solo ora che sono solo…
capisco quanto sia difficile il mondo là fuori…
Senza il suo costante appoggio… e la sua immancabile presenza.

Grazie papà…

– Scusi… Scusi giovanotto… –
Una vecchietta mi distolse dai miei pensieri.
– Mi dica… –
– Dove porta questo treno? –
– A Milano signora… a Milano… –

Dolce… e un bicchiere di Thè alla pesca…

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Il treno scorreva talmente veloce che le luci dei lampioni sembravano percorrere un’unica scia. All’improvviso una leggera frenata, forse una piccola distrazione del macchinista che magari adocchiava l’ultimo inserto di Repubblica. In prima classe vi era un forte odore di ammoniaca mista a chissà quale altra soluzione pulente. Eppure non sembrava poi così pulito. Erano ancora presenti tracce di polvere e piccole cartacce sparse un po’ in giro. Del resto, non potevo lamentarmi. Avevo viaggiato su treni peggiori che spesso l’ammoniaca non l’avevano mai sentita nominare.
Il forte odore andava via via attenuandosi man mano che l’olfatto s’abituava a quell’ambiente. Pian piano cominciavano a ricomparire tutti gli odori “normali”: l’inchiostro di un giornale spiegazzato, il profumo di una donna che attraversava la carrozza, l’odore di un panino appena scartato, la puzza di un lucido da scarpe di un signore distinto… e così via in questa giostra d’odori dalle mille intensità.
Uno scossone mi destò dalla lettura del mio Sole24ore. Pensai che il treno avesse attraversato uno scambio e mi rimmersi nell’attenta lettura di titoli azionari, fusioni d’aziende e tasse di vario genere. Beh… per uno che studia economia, questo dovrebbe essere il “pane quotidiano”, ossia la fonte primaria da cui attingere la propria cultura generale economica, in modo da trovare un riscontro pratico delle nozioni che spesso s’imparano a memoria tra i banchi dell’università.
Indici, grafici a barre, aerogrammi, sono le uniche figure di questo giornale un po’ troppo scomodo da leggere. Non so perché abbiano scelto questo colore arancio-rosa, posso solo ipotizzare ironicamente che la bozza della prima copia in assoluto sia caduta in un secchio di diluente rosso o che è stampato su carta talmente riciclata che gli alberi ormai sono tagliati solo per gli stuzzicadenti. Fatto sta che questo colore particolare lo rende riconoscibile tra gli altri giornali e prontamente individuabile, soprattutto quando hai un treno che sta partendo e niente da fare per le prossime 6 ore e mezza. Meno male che in tutte le stazioni metropolitane c’è almeno un’edicola. Per non parlare degli extracomunitari che ti vendono i giornaletti che danno gratis al mattino! Mi chiedo spesso, chi sia talmente stupido da comprarsi il “City” o il “Leggo” o il “Metro” da uno che non sa nemmeno leggere l’italiano. Beh… ce n’è in giro di gente strana. Come il signore seduto poco distante da me. Aveva in mano l’ultima copia di “Dylan dog” e la sfogliava attentamente gustandosi le figure dei fumetti. A prima vista sembrava un uomo dall’aspetto serio. Magari un professore universitario di quelli tosti. Ma a vederlo sorridere mentre leggeva alcune vignette, mi faceva pensare che nella vita ognuno aveva i propri vizzi, e quando si vuole, ognuno da sfogo ai propri piccoli piaceri.
Invece la signora che mi stava seduta di fronte dormiva. Si sarà stancata dalla lunga camminata sui tacchi fatta dal binario 3 al 15. Le donne… Le donne odiano camminare… e ogni volta che possono, si spostano in macchina incasinando il traffico delle maggiori città. Ok ok… lasciamo perdere la mia vena maschilista almeno su questo treno. Dopotutto, quando dormono sono innocue come tutte le specie viventi. (o così sembra). Vabbè, umorismo a parte, la prima tappa di questo diretto per Napoli era stata da poco abbandonata con commozione di tutti i passeggeri comunisti di questo treno che non credo siano molti in prima classe, anche se le poltrone rosse si addicano di più al loro schieramento. Comunque Bologna era andata e ne restavano solo altre due prima del capolinea.

Una ragazza mora con una camicetta bianca, un gilet verde ed una spilletta FS all’occhiello, si faceva strada attraverso le poltroncine con il suo carrellino carico di roba, ripetendo le stesse frasi ad ogni persona.
– Buona sera… gradisce uno snack? –
– Si… –
– Dolce o Salato? –
– Dolce… –
– Qualcosa da bere? –
– Si… un bicchiere di Thè alla pesca… –
– Ecco a lei… buon viaggio… –
Così la signorina lasciò sul tavolino lo snack e il bicchiere di Thè insieme alla salvietta rinfrescante e al tovagliolino di carta rosso. Se ne andò e ripetette lo stesso copione al passeggero successivo. Purtroppo questo era il suo lavoro e sperai che non la pagassero anche per sorridere ogni volta, ma che lo facesse di sua spontanea volontà.
Il capotreno intanto annunciava che nella carrozza ristorante si stava servendo la cena ed invitava tutti i pendolari con prenotazione ad avviarsi verso il centro del treno. Sarei andato anche io se solo quel misero pasto non costasse quasi quanto il mio biglietto. Un ulteriore motivo era che non avevo molta fiducia nel mangiare qualcosa cucinato su un treno. Già i ristoranti chissà cosa ti rifilano di surgelato. Qui avrei l’imbarazzo della scelta su cosa vomitare per prima!
Un po’ di fame però, mi stava salendo. Così mi alzai lasciando il mio giornale sul seggiolino, un po’ come fanno i ragazzi alla mensa per occupare il proprio posto nell’attesa di andare a prendere qualcosa da mangiare. Mi diressi verso la vettura bar incrociando la signorina del carrellino che risaliva la carrozza pronta per andare in scena alla prossima stazione. Il passaggio fu difficoltoso e mi sorrise per il piccolo disturbo che mi aveva procurato. Ricambiai il sorriso e ripresi la strada per il bar. Nel mio tragitto passai davanti all’ufficio del capotreno. Era vuoto e volli sperare che almeno lui non stesse sfogliando l’ultimo inserto di Repubblica, ma che fosse solo andato in bagno temporaneamente (e non con l’inserto!). Passai oltre la Business class, con i suoi manager in giacca e cravatta seduti comodamente nelle poltrone in pelle nera. Finalmente arrivai al bar constatando che statisticamente una persona su due aveva un pc portatile mentre l’altra probabilmente ce l’aveva in borsa, come me. Il bar stranamente non era strapieno di gente. Chissà, forse la fame era venuta solo a me e a queste tre o quattro persone. Oppure la cassiera era molto brava a non fare inceppare lo scontrino nel registratore così da non creare code stancanti.
– Un panino… – dissi.
– Come lo vuoi? –
– Opzioni di scelta? –
– Speck, Prosciutto e mozzarella, Crudo e formaggio… – e bla bla bla… continuava nella sua lunga lista di gusti mentre io fissavo quell’invitante panino “crudo e formaggio” nell’attesa che finisse di parlare.
– …Allora? –
– …mmm… Crudo e formaggio… grazie… –
– Riscaldo? –
“Mi sembra il minimo” – Si… –
Pagai e ritornai al mio posto con il mio panino fumante di freschezza. Lo mangiai in tutta tranquillità mentre un “Dlin Dlon” destò l’attenzione di tutti i viaggiatori.
Firenze. Il treno era arrivato perfettamente in orario. Ora però si ripartiva nell’altro senso poiché la stazione di Santa Maria Novella è chiusa da un lato. Da seconda carrozza del treno passai a penultima e sperai che a Roma cambiasse di nuovo rotta perché non volevo farmi tutto il binario della stazione di Napoli per uscire. Beh… anche io certe volte metto i “tacchi”. Comunque, stazione dopo stazione, si ripetevano le stesse e solite cose: il capotreno che annunciava che questo treno era diretto a Napoli con le relative fermate intermedie, il controllore che ripassava e controlla i biglietti e la solita signorina mora con il suo simpatico carrellino…
– Gradisce qualcosa? –
– Si… un bicchiere di Thè alla pesca ed uno snack dolce… –
– Ecco a lei… –
– Grazie. –
Avevo snellito un bel po’ il suo copione sapendo già cosa mi avrebbe chiesto. Così lei riprese il suo cammino e io scartai il mio piccolo snack. Intanto guardavo fuori dal finestrino quel poco di paesaggio che riuscivo a intravedere alle 8 di sera. Si riuscivano a distinguere bene solo le luci delle case, o i fari delle fabbriche o magari qualche piccola auto con gli abbaglianti accesi.
Pensavo…
Pensavo a quante volte avevo preso questo benedetto treno nell’ultimo giro di mesi.
Pensavo alla prima volta che avevo preso la prima classe con il mio portafogli che mi urlava “pietà”. E coincidenza assoluta, era proprio questo giorno, questo mese… di un anno fa. Il 31 ottobre 2005 solo che allora viaggiavo in direzione opposta ma alla stessa identica ora e con le stesse identiche fermate…
Allora viaggiavo verso una storia che aveva solo un inizio…
Questa volta era diverso…
Questa volta non dovevo scappare via da nulla. Questa volta, la prima classe l’avevo comprata apposta e non perché era finita la seconda. Questa volta avevo una casa dove tornare se volevo. Questa volta…
E’ strana la vita…
Se magari tutto questo fosse accaduto prima, forse le cose ora sarebbero diverse. Decisamente diverse. E dire che bastava solo un anno. Un misero ciclo di mesi e il futuro poteva essere diverso. Sicuramente ora non starei qui a pensare invece di finire di leggere il mio giornale…
L’amore a volte non sa aspettare…
E’ strana la vita…
E non finirò mai di dirlo…

– Gradisce qualcosa? Dolce o salato? –
– …Dolce… e un bicchiere di Thè alla pesca… –

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