##11

 

 

11.

Quella mattina, come ogni mattina, la mente si svegliò carica di pensieri. Sembrò che la notte non fosse passata e che i pezzi di ieri diventassero oggi. Pioveva. Con una mano tenevo l’ombrello e con l’altra il giornale. I miei passi scansavano piccole pozzanghere. L’inverno si sentiva in tutta la sua freddezza che materializzava sul mio corpo. Entrai nel bar e magicamente tutto passò, come se avessi attraversato un portale che mi trasportasse su un altro mondo.
Rocco mi salutò chiamandomi per nome.
– Ciao Ciro! – disse – Caffè? –
– Sì, caffè… – risposi.
Quel posto diventò più accogliente dal momento in cui Rocco conobbe il mio nome. Passare da un semplice Ciao a un Ciao Ciro, sembrava una banalità, una cosa da niente, ma aveva un piacevole effetto sul mio umore. Rendeva quel piccolo posto ancora più familiare, come se un pezzo di città cambiasse colore. A Milano sono tutti un po’ freddi e chiusi, e trovare un posto che ti facesse sentire a casa, non aveva prezzo.
Mi sedetti al solito tavolino in attesa del caffè. Aprii il giornale e cercai di leggere qualche notizia.
Rocco era in piedi vicino al bancone. Raccontava di un film a un signore che forse era suo amico.
Ascoltai qualche parola del suo discorso.
– …la scena finale è che lui, seduto… che fuma dell’oppio, da vecchio… Gli chiedono: “Cosa hai fatto in questi anni?” E lui risponde: “Niente!” e poi fa vedere tutto a ritroso… tutta la storia… e di com’è arrivato fin lì… –
Rocco continuava a raccontare. Si vedeva che il film gli era piaciuto. Ero curioso di saperne il titolo ma per timidezza non volli interrompere il suo discorso.
Giovanna mi portò il caffè e la ringraziai. Allentai un po’ la sciarpa, presi una bustina di zucchero, la svuotai all’interno e mescolai. L’odore del caffè era piacevole all’olfatto, la tazzina scaldava le mie dita fredde e la musica mi rilassava. Tornai a osservare Rocco. Gesticolava e raccontava.
– Bello… Carino… lo devi vedere… ha una bella storia. –
Bevvi il caffè, e con quel gesto iniziò la mia giornata. Pensai al film. Pensai alla storia, alla mia storia.
Quella ancora da scrivere.

 

Quatre-vingts! (la nouvelle de Paris VII)

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Quella mattina il sole entrò con una certa resistenza in quella casa parquettata sugli Champs-Élysées. S’insinuò tra le fessure laterali che la fitta tenda plastificata non riusciva a coprire. E una volta dentro, la scena che gli si presentò davanti aveva qualcosa di grottesco e innaturale che gli sembrava aver visto solo in Vietnam ai tempi della guerra. Quel sole rise di noi… delle nostre facce stanche e assonnate; delle posizioni strane in cui dormivamo; dei vestiti sparsi e dei resti di cibo ovunque; rise di noi, perché non c’era nessun altro in città di cui poter ridere. Rise di noi e poi, con la sua potente luce, ci svegliò.
Avevo la bocca impastata e lo stomaco più arido del Sahara d’estate. L’alcol aveva fatto il suo corso lasciando un gran mal di testa e una sete inappagabile.
Ci alzammo tutti e in un’ora fummo arzilli e ben svegli, pronti, per la prossima avventura parigina. Ci catapultammo in strada con lo stesso sole che ci aveva svegliato.
Facemmo colazione in un bar a caso. Con non poche difficoltà a ordinare una brioches e un cappuccino. Sedemmo a un tavolino all’interno e cercammo di radunare quanti più ricordi possibili della serata precedente. Cercai di capire cosa avevano fatto gli altri e scoprii che non era molto differente da ciò che avevamo fatto Rafael ed io: bere e provarci con le ragazze.
Concordammo tutti che cantare Con te partirò di Bocelli a Parigi, era una delle cose da fare per forza nella vita. Fu l’apoteosi della serata, e soprattutto, totalmente imprevista. Imprevista… come la chiamata che ricevette Alberto in quell’istante.
– Pronto! Hi Yann! How are you? –
Alberto parlò con questo tizio dal nome difficile per un paio di minuti. Gli dette appuntamento nel primo luogo che gli venne in mente: la Tour Eiffel.
“Un genio… decisamente una persona molto intelligente!” pensai.
Dare appuntamento a una persona, sotto uno dei monumenti più famosi del mondo, visitato da quasi 7 milioni di persone l’anno, di sabato, ci vuole coraggio.
Gli feci un grande elogio e c’incamminammo.

Percorremmo avenue George V osservando macchine di lusso e ristoranti eleganti. Attraversammo la Senna su Pont de L’Alma e qualcosa s’iniziò a vedere da lontano. La Torre. Restai fermo un istante a osservarla. Non perché fossi estasiato o meravigliato, al contrario, quella bizzarra piramide ferrosa, non mi diceva niente. Mi dava l’impressione di essere un grosso traliccio della corrente elettrica e niente più. Cercavo nel mio corpo qualche emozione da sprigionare. Ci riflettevo… osservavo ancora… pensavo… ricordavo… Niente! Per me, quella rinomata Tour Eiffel, era solo un ammasso di ferraglia ben costruito. Rendeva meglio nelle foto da cartolina.
Dopo aver passeggiato per rue de l’université, finalmente ci fummo sotto. Proprio al centro, circondati da migliaia di persone in fila per salire. C’erano due ascensori che partivano da due piloni opposti e all’interno degli altri c’erano le scale per permettere alle persone di scendere. Mi posizionai al centro e alzai lo sguardo osservando il grosso quadrato metallico. Il culo della torre in pratica. Non mi diceva niente neanche quello. Solo ferro! Ganci, bulloni, travi… innesti, giunture, fili… cose non molto diverse da un cantiere di un grattacielo. E osservando le facce delle persone incantate dal metallo, ero invidioso e curioso di sapere il perché. Anch’io volevo provare una bella emozione… sognare e liberare un wow dalla mia bocca. Ma non riuscivo a mentire…
– Yann! My friend! –
Un normalissimo ragazzo con una normalissima borsa venne incontro ad Alberto. Era francese senza alcun dubbio. Il suo viso già parlava di per sé. Era un Vincent Cassel con vent’anni di meno e un fisico asciutto.
Ci presentammo, ovviamente in inglese, e anche a lui spiegai che Ciro ed io avevamo lo stesso nome. Iniziammo a camminare. Non chiedetemi per dove né perché. Camminammo e basta. Alberto, che conosceva questo Yann, parlò con lui per un po’, poi lo lasciò libero e subito passai all’attacco. Quel volto, quei movimenti e quel fisico, erano pressappoco interessanti per la mia fervente curiosità. Dovevo sapere di più.
– Yenn… – dissi cercando di richiamare la sua attenzione. Non si voltò e dopo capii il perché. Il suo nome andava pronunciato in maniera corretta. Nemmeno io mi sarei girato se qualcuno avesse urlato “Cero” invece di Ciro. Chiesi l’aiuto del pubblico e mi suggerirono la corretta pronuncia.
– Yann! – si girò e mi sorrise.
Mi affiancai a lui mentre camminavamo. Mi raccontò un po’ di sé. Aveva ventun anni e studiava economia come il sottoscritto. Gli piaceva la borsa e gli investimenti e mi s’illuminarono gli occhi quando me lo rivelò. Gli domandai qualcosa sull’economia francese e mi lamentai con lui perché la borsa di Parigi aveva subito un black-out causando notevoli perdite agli investitori.
In quel momento, per me, questo Yann rappresentava la Francia e Parigi. Anche se non era della città ma di un paesino a 300 chilometri di distanza. Aveva preso un treno e ci aveva messo meno di un’ora ad arrivare. E mi prese in giro dicendo che in Italia, con una buona fortuna, ne avrebbe impiegate almeno 4. Per lui, io impersonificavo l’Italia. E il problema era che non potevo dargli torto pur volendo difendere a spada tratta il mio Paese.
E così si aprì una sfida non dichiarata. Dibattemmo a lungo, senza tregua. Gli dissi che i francesi erano così stupidi da mangiare le lumache! Lui mi rispose che gli italiani erano così stupidi da non riuscire a raccogliere l’immondizia!
Il ragazzo lì, mi toccò nel vivo. Non mollava e aveva la risposta pronta. Eccitante dibattere con lui.
Gli dissi che L’Arc de Triomphe, altro non era che una banalissima copia dell’Arco della Pace di Milano. Di rimando, mi fece notare che lo spumante era una banalissima copia dello champagne.
Eravamo testa a testa come due pugili al primo round. E con una mossa non molto regolare gli dissi che la Francia era un paese di checche. Mi rispose che il Gay Pride Europeo si era svolto a Roma. Colpito e affondato. Era come duellare contro un avversario di eguale potenza.
In un impeto di rassegnazione tirai fuori l’ultima chance: – Voi francesi non avete una parola sola per dire il numero ottanta! Dovete dire per forza quattro volte venti! –
Yann ci pensò un attimo. Roteò gli occhi titubante. Si morse il labbro pensieroso. Alla fine però… mi diede ragione!

Italia – Francia = uno a zero.

 

 

##10

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10.

Il sole era già alto nel cielo quando mi svegliai. Finalmente mi ero fatto una dormita come dio comanda. Aprii un occhio e poi anche l’altro. Volevo starmene un altro po’ nel letto ma pensai che così facendo non avrei trovato le brioches alla marmellata da Rocco. Mi alzai e mi vestii in fretta. Ovviamente accesi prima il pc e misi un po’ di musica in sottofondo. Lo specchio mi mostrava un bel paio di occhiaie che ancora si ostinavano a sopravvivere. Mi sciacquai più volte la faccia e fui pronto.
La portinaia stava pulendo le scale. Mi salutò con confidenza e con un sorriso, quasi fossi stato suo figlio. Mi faceva piacere.
In strada trovai la solita gente. I soliti studenti e i soliti stranieri. Un vociare confuso… rumore di passi… macchine… biciclette. Il sole mi riscaldava al pelle. Ormai l’estate era formalmente arrivata. Con il caldo le maniche corte e vestiti leggeri erano diventati d’obbligo. Girai l’angolo e già sentii il rumore delle tazzine. Rocco era a lavoro. Entrai nel bar e lo salutai. Lui, dopo aver salutato un altro cliente, si accorse di me e mi rispose.
– Cappuccio? –
Annuii col capo e Giovanna mi chiese se volessi anche la brioches.
– Si, grazie. –
Non servì che gli specificassi il gusto, lo ricordava da se.
Mi sedetti e accesi il cellulare per controllare le email. Aspettavo il mio cappuccino e osservavo la mia brioches con impazienza di mangiarla. Mai senza cappuccino davanti!
Entrò un signore che avrà avuto su per giù una quarantina d’anni. In braccio portava una bambina. Si sedette al tavolino a fianco al mio. La baciò sulla fronte. Mi fece un’infinita tenerezza quel gesto. Perché fatto da una donna può essere normale… ma da un uomo, che per antonomasia dev’essere rude e burbero, ha un non so che di particolare. Forse perché sono cresciuto con il modello di genitore distante e rispettoso che educa ma non eccede. Un giorno mio padre mi disse che mi voleva bene. Ok, era in forma indiretta “tuo padre ti vuole bene” ma detto da lui, dopo vent’anni, quasi mi scesero le lacrime. Sicuramente un giorno anche io avrò un figlio o una figlia e credo che sarò iperprotettivo. Forse anche troppo… Forse sarei anche capace di uccidere se qualcuno gli torcesse un capello.
Arrivò il mio cappuccino. Ringraziai Rocco e lo zuccherai. Il padre cercava di far star ferma la bambina che, cogliendo la sua distrazione, aveva intinto le dita nel cappuccino. Che maldestra.
Non deve esser facile allevare dei figli… e se mio figlio prenderà da me ci sarà da divertirsi!
Chi lo sa cosa mi riserverà il futuro… Dovrei mettere un po’ a posto questa testa bacata e schizzata affinché la mia vita prenda una strada “normale”.
Per quanto potrò continuare così? Giocare in borsa… non dormire… imbottirsi di eccitanti…
Basta… da domani, un po’ di tranquillità…
Ho bisogno di un po’ di tempo per me…

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##9

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9.

Stress. Mal di testa a chiazze e vene gonfie sul collo. Non ne potevo più. Chiusi il libro… silenzio. In casa non si sentivano rumori. Una mia coinquilina era partita per Roma mentre l’altra stava ancora dormendo. Guardai le pareti e i miei poster mi fecero notare la mia solitudine e i miei scarsi rapporti sociali di quel periodo. Colpa tua! Pensai mentre guardavo la copertina del libro. Mi stava tenendo incollato su quella sedia da giorni e più andavo avanti e più i giorni sembravano pochi. Guardai l’orologio e pensai che non avevo ancora fatto colazione…
Scesi in strada dopo aver salutato la mia gentile portinaia e aver gentilmente mantenuto la porta ad una vecchietta che stava entrando. Colmata la mia dose di buone azioni mi diressi verso il bar. Scansavo la fiumana di studenti che a sgoccioli procedevano verso il politecnico. Alcuni avevano facce felici… altri un po’ meno. Alcuni portavano grosse cartelline e altri un malloppo di libri in mano.
Ah! La vita da studente… quale strano mondo!
In preda alle mie divagazioni, non feci caso ad un ragazzo che mi salutò con la mano. Misi a fuoco e riconobbi Andrea, l’ex ragazzo della mia ex coinquilina, che non vedevo da secoli. Andava nella mia stessa direzione, con la mia stessa voglia.
– Ciao Andrea! –
– Ciao Ciro… –
Entrammo nel Bar ed entrambi salutammo Rocco. Lui lo conosceva meglio di me perché erano anni che lavorava nella pizzeria di fronte. Rocco mi guardò indeciso sul da farsi. Erano un po’ di giorni che alternavo tra caffè e cappuccino rompendo i suoi schemi.
– Cappuccio… e un brioches alla marmellata. –
Andrea mi guardò. – Allora come va? – mi chiese.
– Mah… sostanzialmente bene… sto studiando in questo periodo… –
– Spero che vadano bene gli esami… – disse mentre arrivarono i nostri cappuccini.
– Perché non ci sediamo al tavolino? – aggiunse guardandosi alle spalle.
– Certo… mi siedo sempre qui la mattina. – dissi con un pizzico esultanza.
Diedi un morso al mio cornetto. Come al solito mi girava in testa la domanda se fosse buona educazione o meno inzupparlo nel cappuccino. Un prassi normale quando ero da solo, ma quando avevo qualcuno che mi osservava non sapevo come comportarmi.
– Quando hai le ferie? – gli chiesi.
– Veramente ho già dato… sono stato a Miami due settimane. –
Lo guardai negli occhi desideroso di sapere qualche dettaglio in più. Lui mi accontentò. Mi raccontò del suo viaggio e delle città che aveva visitato.
Lo ascoltavo cercando d’immaginarmi la vita oltre i confini di questo paese. Difficilmente, dato che non ero mai stato all’estero.
– …e poi abbiamo affittato anche una macchina… –
– Bello… dev’essere stato stupendo girare la Florida in macchina… –
Di solito non invidio mai nessuno… ma lì, di fronte a quella storia, ammetto che peccai.
Ci alzammo e Andrea buttò una banconota da 10 sul banco. Fece segno a Rocco di pagare entrambe le consumazioni, nonostante il mio diniego.
– Però la prossima volta offro io! – gli dissi.
– Non ti preoccupare… –
Ci stringemmo le mani e prendemmo vie diverse.
Lui al lavoro, io allo studio…

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##8

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8.

Sabato mattina.
Il sole d’aprile entrava dalla finestra e illuminava la mia stanza. I suoi riflessi facevano brillare il mio portatile laccato nero. L’osservavo pensando che di lì a poco sarebbe finito anche lui nella valigia vuota sul pavimento. Prima però…
– Martì, io scendo… vado a fare colazione! –
La mia coinquilina era in cucina che preparava il caffè in pigiama. Chiusi la porta e scesi.
In strada non c’era nessuno. Normale… Un sabato normale. Forse non ci sarebbe stato nessuno anche al bar. Meglio, così potevo prendere il mio cappuccino in santa pace.
Aprii la porta a vetri del bar e subito buttai un occhio ai tavolini… tutti occupati. Anche il bancone era semioccupato e mi piazzai in uno spazio davanti alla cassa. Giovanna capì subito che volevo un cappuccino e si ricordò che preferivo la brioches alla marmellata.
– …attento che è un po’ calda… – mi avvertì.
– Non ti preoccupare… –
Presi la mia brioches e Carmelina mi lanciò una lunga occhiata come a volermi chiedere qualcosa. Non ressi il suo sguardo e finsi di controllare qualcosa al cellulare.
Rocco era alla macchina del caffè. Mi aveva salutato quando ero entrato. Avevo il sospetto che Giovanna non l’avesse avvertito e mi stesse preparando il solito caffè. Quando mi porse il cappuccino sorrisi. Devo imparare a fidarmi un po’ di più delle persone e smetterla con le inutili raccomandazioni.
Visto che avevo il cellulare in mano controllai il messaggio di Trenitalia. Il mio animo s’incupì. Tra circa un ora sarei partito per tornare a casa. Quella vera… quella in cui sono nato. Tra i miei genitori e i miei fratelli che non vedevo da natale. E anche se una parte di me volveva a tutti i costi tornare, l’altra aveva messo salde radici in quell’appartamento di Lambrate. Tra libri e pc, palline e poster polverosi. Tornare giù voleva dire immergersi di nuovo in una vita che avevo interrotto 5 anni fa. La mia cameretta, anche se abitata da un nuovo inquilino, era rimasta come l’avevo lasciata e osservarla mi riportava alla mente un Ciro diverso. Un Ciro che tirava freccette al muro e lasciava che la musica facesse vibrare i vetri delle finestre. Un Ciro che ora è cambiato. Un Ciro che chissà come non aveva mai preferito il cappuccino al bar… Ed ora, mi trovo qui, in una città che fatico a far diventare mia, con piaceri e peccati da evitare, cibi e pietanze da scoprire… un mondo nuovo che in cinque anni continua a stupirmi…
Per fortuna direi…

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