Ci vuole sempre qualchecosa da bere.. (TorreSuda ’09) (II)

 

 

Li avevamo persi. Eravamo partiti con due macchine per questo lungo viaggio. E guarda caso, proprio come era nostro solito fare, ognuno faceva di testa sua. Erano finiti chissà dove. Al telefono tentavano di spiegarci la strada che stavano facendo. Ma il punto era che nemmeno noi sapevamo dove eravamo. Tecnicamente andavamo verso la direzione giusta. Verso sud. Ma se la strada che percorrevamo fosse stata giusta o meno non lo sapevamo.

-Ciro accendi il navigatore..-

-Te l’ho detto Luca.. ho l’antenna GPS scarica..-

Avevo dimenticato di ricaricare il mio GPS convinto che la batteria avesse retto tutto il giorno. Mi venne un idea. Rovistai nella mia monospalla nera alla ricerca di qualcosa. Quella borsa è sempre stata l’ultima speranza di ogni situazione. Potrei anche naufragare su un isola deserta o restare isolato su una montagna a 3000 metri.. ma se ho la mia monospalla con me mi sento al sicuro. Mentre cercavo pensavo che quella borsa ne aveva di storie da raccontare. Tra tutte le modifiche che le avevo fatto.. le aggiunte, le tasche segrete, i rinforzi.. quella borsa ne aveva passati di anni.. e di avventure…

 

 


     “Ricordo quella volta che ero a Firenze con i miei amici e decidemmo di andare agli Uffizi. Avevo la mia monospalla addosso e tra l’altro in quell’occasione c’era anche il mio giubbotto di pelle.

Mentre ero in coda non pensavo che all’entrata ci fossero stati il metal detector e i vari controlli. Pensavo a fare battute con i miei amici sull’ubriachezza molesta di certi orientali. Quando vidi il metal detector mi salì una vena di paura. Ero in una fila obbligata. Davanti c’erano i miei amici e dietro persone su persone. Osservai meglio.. c’era un poliziotto che controllava i turisti che passavano sotto al metal detector e ce n’era un altro al pc che osservava gli zaini che passavano ai raggi x. Confesso che vedere la foto della mia monospalla ai raggi x sarebbe stato divertente. Sorrisi.. ma non potevo distrarmi, dovevo trovare una soluzione. Le strategie erano: far aprire la mia monospalla al poliziotto e stari lì ore ed ore a farmi sequestrare il 90% delle cose o andarmene? Oppure, la più bella.. rischiare…

All’improvviso vidi il poliziotto al pc che si alzò e se ne andò. Colsi il momento e passai avanti ai miei amici piazzando la mia borsa sul tappeto scorrevole. Tutti espressero il loro disappunto ma il mio sguardo minaccioso li tenne a bada. Forse intimoriti dalla minaccia della notte prima di accoltellarli se non mi avessero lasciato dormire. La mia monospalla entrò sotto il canale dei raggi x.. osservavo il poliziotto davanti al metal detector. L’altro poliziotto entrò nella sala. Si sistemò la cintura dei pantaloni e si sedette alla sua comoda scrivania. Appoggiò il caffè su un lato ed osservò il monitor del pc che aveva lasciato incustodito.

Intanto.. ero già nel corridoio degli uffizi seguito dai miei amici..

Con il giubbotto sbottonato.. e la mia monospalla nera..”

                                                                                     


 

La macchina correva veloce. Luca sembrava aver dimenticato gli ammonimenti del padre. Armando dietro stava dormendo tra le valigie. Ed io ero ancora intento nella ricerca.

-Eccola!- esclamai alzando una batteria.

-Che cos’è?-

-E’ la batteria di riserva del mio cellulare..-

 

Smontai la mia antenna GPS. Tolsi la batteria e cercai di farci entrare quest’ultima alla meglio. Feci un po’ di spessore con un fazzoletto per tenerla ferma.

-Andiamo.. accenditi..- dissi speranzoso mentre tenevo premuto il tasto di accensione..

-SI! Abbiamo il navigatore!-

 

Sapevo che la mia monospalla non mi avrebbe deluso.

 

 

 

 

Quella sera..

 

 

La mia mente era distesa su un bel letto di neuroni in cancrena. Mi girava. Si svuotava di ogni pensiero maligno. Le inibizione cedevano lasciando spazio alla sfrontatezza. Non ero in me. Ero tutta un’altra persona, una persona che però mi piaceva. Mi sentivo indistruttibile con il cuore a mille, i muscoli pompati e la voglia irrefrenabile di uscire a spaccare il mondo. Dovevo farlo.. quella notte era mia. Volevo dar la buonanotte a mille ricordi e soprattutto al Ciro che ha bisogno di star male.

I ragazzi si preparavano per la serata.. chi si lavava.. chi si vestiva.. chi si dedicava all’artificeria.. chi metteva su canzoni..

Aspettavo stravaccato su una poltrona. Guardavo gli altri e sorridevo delle loro azioni. Volevo dire la mia. Volevo dire a ognuno di fare le cose in un altro modo, magari migliore. Ma in quel momento me ne fottevo allegramente. E per una volta smisi di rompere le scatole.

Il tempo correva e la mia percezione di quella sera lo sentiva ancora di più. Uscimmo.

Andammo in un pub sulla spiaggia. Scesi dalla macchina e come prima cosa mi fiondai al bar ad esigere la mia porzione di alcol. Presi la mia Tennent’s dal bancone e mi girai ad osservare il posto. Carino. Non era il solito pub. C’era un grande terrazzo in legno che dava sulla spiaggia. Sopra c’erano i tavoli e la gente che ordinava. Da un lato del terrazzo la cucina e il bar. Diedi un lungo sorso alla mia birra e adocchiai la cameriera. Riccia.. mora.. occhi chiari. Decisamente carina. Aveva un gran bel daffare quella sera mentre mi chiedevo come mai mi saltassero sempre agli occhi le cameriere. C’erano tante altre ragazze in giro, anche più carine di lei. Chissà perché l’avevo notata per prima? Chissà cosa m’intrigasse..

-Ciao Ciro!-

-Ciao Gaetano.. posso offrirti una birra?- Dissi.. dimenticando totalmente che il mio amico era celiaco.

Gaetano non ci fece caso rinunciando alla mia offerta.

-L’hai vista la cameriera?- disse.

-Certo..-

-Veramente bella..-

Sorrisi e brindai con la sua Coca-Cola pensando che non ero il solo a cui piacevano le cameriere.

 

Un ora dopo avevo il triplo delle birre in corpo. Stavo quasi per toccare il mio limite. E non sapevo se quella sera mi andava di battere il record. Intanto ero su uno scoglio a parlare con una tipa. Sembrava simpatica. Intrattenevo discorsi stupidi con battute orribili.. ma divertenti. Non si può pretendere molto quando uno ha la mente annebbiata. Veniva da Milano anche lei e subito attaccai con le mie storie. Di avventure e pazzie fatta in quella odiatissima e amatissima città. Lei non parlava molto. Le piaceva ascoltare.. ed essere quello che parlava di più in una conversazione mi faceva sentire strano, quasi importante. Lei rideva.

I miei amici erano su uno scoglio poco distante a fumare. Mi osservavano e sicuramente facevano i loro commenti. Continuavo a parlare con la ragazza non curandomi di loro. Le chiesi come mai fosse qui.. in questo posto desolato. E chissà che viaggio avrà fatto. Le raccontai il mio..

 

-…Davvero??!?!..-

-Certo!.. poi siamo finiti in un posto stile deserto del Colorado. Con tanto di terra rossa e arbusti che rotolavano. C’eravamo persi ancora! Nonostante il navigatore..-

-Divertente però..-

-Altroché.. e in ogni deserto che si rispetti poteva mancare il tizio che vede i meloni col carretto? Certo che no.. pensavamo che fosse un miraggio. Era solo.. in un angolo della strada..-

-Ed era vero?-

-Certo che era vero! Comprammo un melone. Ma non avevamo coltelli e stavamo pensando a come aprirlo. Proponevo ad ogni curva di aprirlo a morsi per la troppa sete.-

-ahahah-

-Per fortuna che trovammo una signora che ci prestò un coltello. Dovevamo proprio sembrare dei disperati.-

-Già..-

Appoggiai le labbra al freddo vetro della mia Tennent’s. La alzai di un colpo e lasciai scendere l’ultimo sorso di birra. Avvicinai la bottiglia e l’osservai meglio nella remota speranza che fosse rimasto ancora un goccio d’alcol. Niente..

-Questa è finita.. e ha deciso di non essere l’ultima..-

-Dai.. basta bere..- mi disse.

Mi girai e le feci un sorriso beffardo mentre mi allontanavo per andare al bar.  Cercavo di camminare senza inciampare tra i sassi di questa ipotetica spiaggia. Cercavo di non barcollare a destra e manca. Sentivo le gambe pesanti.

Quasi all’uscita della spiaggia mi si pararono davanti i miei amici. Volevano sapere della tipa e di come si prospettava la serata. Li mandai a cagare facendomi un varco con le mani. Ma loro non mi facevano passare.. volevano sapere.

Ad un certo punto sentii vibrare la mia tasca sinistra. Era il mio cellulare.

Lo presi e cercai di ricordarmi il codice di sblocco.

Un messaggio.. I miei amici osservavano la scena.

“chissà chi sarà a quest’ora”

Lessi il nome.. e pensai..

“Mi sa che un’altra birra non basterà..”

 

 

Vite rincorse..

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– Enzo come ti senti? –

– Non ti preoccupare Ciro… portami a casa… –

 

E dopo quella frase spinsi sull’acceleratore.Prima, seconda e terza andarono via furiosamente come colpi di pistola sparati sulla strada. Enzo era dietro… seduto accanto a me c’era Stefano che m’indicava la via. Conoscevo poco quella cittadina e nonostante ciò, correvo tra quelle strade sconosciute.

Sorpassai un Audi. Il motore andò su di giri rombando come quando si tira la frizione e l’acceleratore insieme. Misi la quinta e la macchina si riprese. La lancetta dell’acceleratore scalava il tachimetro fuggendo da ogni numero per salire a quello successivo. Stavo correndo troppo. Il rischio c’era, ma volevo portare a casa Enzo il prima possibile. E poi noi ne abbiamo fatte di corse… che male c’era a farne una alle due della notte?

– A destra Ciro! Ho detto a destra! – urlava Stefano indicando la strada giusta.

– Scusa! Ho sbagliato! Lo sai che spesso confondo la destra con la sinistra! –

– Ciro! Non vengo più in macchina con te! –

Girai a destra. Dopo un paio di strade, ma girai a destra. Passai a tutta velocità sotto un semaforo lampeggiante. Lo stesso semaforo che poco prima avevo aspettato per ben 2 minuti. Ogni tanto mi chiedevo a cosa servissero in quella piccola città. Lo stridio delle gomme risuonò in una curva troppo stretta. Eravamo quasi arrivati…

 

 

 

5 minuti dopo:

 

Fermai la macchina. Io e Stefano scendemmo. Poco prima eravamo passati da casa di Enzo. Era salito su, dopo averci salutato. “Spero non sia niente di preoccupante” pensai.

– Cì, ho una sete incredibile! – disse Ste.

– Concordo… prendiamo qualcosa a quel distributore. –

In due mettemmo insieme un euro con gli spicci che avevamo nelle tasche. Estathè alla pesca. Ci sedemmo su una panchina poco distante. In giro, solo l’aria fresca delle due della notte e qualche lampione acceso. Ogni tanto passava una macchina che, con indifferenza, ci guardava. Sembrava che ci fossimo solo noi due in quel paese. Sembrava tutto morto… tutto calmo… pace.

Il corso principale che si spiegava alla nostra sinistra era vuoto. Qualche ora prima, ragazzi di tutte le età lo avevano attraversato ed ora solo noi due gli facevamo compagnia. Io e Ste… ospiti comuni di un piccolo paesino.

– Tieni bevi tu. –

Gli passai la sua parte di thè. Stefano prese la lattina e la mandò giù di un fiato. La sete era tanta ed avevamo anche sudato parecchio perché la serata era stata molto movimentata. Guardai il cielo. Pensai che era lo stesso cielo che guardavo dalla mia casa a Milano. Sulla terra i chilometri valgono… ma lassù le cose sono ben diverse. Era sempre dura salutare tutti gli amici per rivederli chissà quando. Erano diventati la mia casa. La mia protezione dall’ambiente esterno. Erano diventati un pezzo importante della mia vita. Starne senza era come quando mangi una pizza divisa a metà… non riuscirai mai a saziarti… non riuscirò mai a non pensare a loro quando mi capiterà di fare qualcosa di “moralmente” sbagliato. Sono stati la mia scuola di vita. Ed ognuno, un po’ a modo suo, mi ha insegnato qualcosa. Sono cresciuto con loro. E con la malinconia di quegli anni felici in cui l’adolescenza ci faceva una baffo, ricordo ogni giorno stupendo passato con loro… Ogni serata… Ogni litigio… Ogni cazzata.. Ogni storia d’amore “costruita”. Ogni sabato passato alla ricerca del divertimento… Ogni volta che siamo passati “dietro al liceo” alla ricerca di quella mano alzata che ci salutava e ci imponeva di restare. Giri su giri… Vite su vite… Amici dentro e fuori quella piccola città. Amici un po’ diversi ma che hanno in comune quella voglia di vivere unica… Ed ogni attimo, ogni istante passato con loro, ne è valsa la pena viverlo…

 

– Che facciamo Ste? –

– Torniamo a casa… quando parti per Milano? –

– Domani… –

– Allora… ci vediamo… prima o poi… –

– Si… prima o poi… –

 

 

E neanche un libro potrà descriverlo mai…

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La metro scorreva veloce lungo il suo binario. Si fermava ad ogni tappa obbligata per far salire quei pochi passeggeri impazienti. Dopotutto era mezzanotte passata e la voglia di tornare a casa si faceva sentire. Un paio d’indiani un po’ brilli, facevano un casino che si sparpagliava per tutto il vagone. Parlavano ad alta voce come se fossero stati in mezzo alla strada. Fastidiosi a quest’ora. Soprattutto per il mio Tetris. Chiusi il cellulare. Ad ogni fermata salivano persone diverse… giovani… vecchi… stranieri… La metro è così: multietnica. Non potrai mai azzeccare chi si siederà accanto a te… o chi ti schiaccerà i piedi perché troppo distratto. Ormai c’ho fatto l’abitudine. Una coppia di mezz’età discuteva in piedi vicino alla porta. Sembravano avere futili problemi. Come tagliare l’erba del prato o fare la spesa. Il mulatto di fronte a me, invece, leggeva un giornale arabo. Lo si capiva dalla strana scrittura tipica di quei paesi. Si sistemò gli occhiali e mi guardò. Voltai lo sguardo da un’altra parte. Duomo. Sale sempre un mucchio di gente in Duomo… a qualsiasi ora. E quella sera non era da meno. I posti a sedere si riempirono. Qualcuno rimase in piedi appoggiato al palo con la faccia assonnata. La donna di fronte a me, guardava con insistenza il biglietto. Aveva il volto triste… sembrava che qualcosa non fosse andata a buon fine quella sera. Già… le cose spesso non vanno come vorremmo. Magari un litigio. Un apprezzamento sgarbato. Una persona che non ci si aspetta d’incontrare. Spesso ci si sente soli… e molte volte ci si ritrova su una metro a rigirare il biglietto tra le mani guardando le fermate scorrere.
Un signore di bell’aspetto in un abito elegante si sedette accanto a me. Chiese scusa per avermi urtato e iniziò a giocherellare con il cellulare. Dovevo scendere ma la mia corsa non era ancora finita. Seconda metro… secondo giro. Percorrevo la banchina da un lato all’altro nell’attesa che arrivasse il mio mezzo di trasporto. Guardavo le facce delle persone e loro guardavano me. L’una più diversa dell’altra. Chissà quante storie avranno dietro quei volti… chissà quante ne avranno da raccontare… Oppure no… perché vivevano la solita vita di routine in cui tutto è uguale al giorno prima, compresa la metro in ritardo. Arrivò.
Cercai un posto dove sedermi.  Non era difficile a quest’ora. E come al solito iniziai ad osservare. Perché mi piace osservare la gente e capirne un po’ di più su di loro. Sono fatto così…
Una coppia di ragazzi salì alla fermata successiva. Si sistemarono nei posti di fronte. Lui iniziò a parlare ma non riuscii a capire cosa dicesse. La metro certe volte fa un casino infernale… soprattutto quando fa caldo ed i finestrini sono tutti mezzi aperti. Lei imbronciò il visto e gli rispose seccata. Sembrava averlo rimproverato per qualcosa. Beh… facile strigliare gli uomini… siamo sempre noi che sbagliamo. Ma è vero anche che alle donne piace rimproverare… ci provano gusto. Insomma certe volte, vogliono mettere i puntini sulle “i” giusto per ribadire che in amore ci sono delle regole. E quelle regole gli uomini devono rispettarle. O almeno far vedere. Fingere che tutto vada bene e che niente sia successo. Ma bisogna essere dei bravi mentitori perché le donne, l’intuito ce l’hanno dalla nascita. Era una coppia di giovani. Lui con la barba incolta e lei con una copia venuta male delle converse. Un sorriso comparve sul volto di entrambi… tutto regolare. Tutto come prima. Perché l’amore è cosi… Va e viene quando vuole. Sembra che a volte non ci sia… ma è sempre lì…
Che ti avvolge in una fredda serata primaverile…

Qualche ora prima…

– Chi è? –
– Sono Ciro. –
Qualcuno mi aprì il cancelletto ed entrai in casa di Francesca. Salutai i genitori ed andai in camera sua. Doveva ancora finire di prepararsi e, cosa che non sapevo, di studiare.
– Potevi dirmelo… che venivi prima! –
Disse con una vocina leggermente altisonante, come se non fosse stata felice che io fossi lì. Ma lo era… Mancavo da tanto all’appello in camera sua. Tutto era come l’avevo lasciato… Tutto nel solito ordine disordinato ma non troppo. – Cosa devi finire di studiare? – le chiesi mentre mi accomodavo sulla sua poltroncina. – Storia… la guerra dei trent’anni… domani ho la verifica. –
Pensai per un attimo a quanto fossi fortunato ad aver finito il liceo e a non aver più queste simili scocciature. – Dai… porta il quaderno che ripassiamo insieme… è ancora presto per andare a cena… –
– Sicuro che ti va? – mi chiese in cerca di sicurezza. – Certo bambolina. –
Uscimmo da casa sua. Il sole stava tramontando dietro le case ma il cielo era ancora illuminato. La guardavo.
– Cosa c’è? Non vado bene? Non sono truccata bene? Ho i capelli fuori posto? –
Non risposi. La guardavo perché mi piaceva e sorrisi nel vederla farsi mille paranoie.
– Dove andiamo? – le domandai.
– Alla panchina… –
La panchina in questione non era una semplice panchina… era La panchina. Un luogo speciale per lei. Un posto che l’aveva vista crescere nel corso degli anni. Una panchina dove magari sono cadute le sue lacrime… dove sono nati i suoi sorrisi… dove il sole la illuminava di giorno e la Luna le teneva compagnia la notte. Era un posto speciale.
Spesso quando eravamo ancora lontani, lei mi chiamava con il cellulare e stavamo ore ed ore a parlare e parlare. Spesso lei mi descriveva quella panchina. Mi diceva che le piaceva tanto stare seduta lì. E io la immaginavo così: stesa che guardava il cielo e parlava con me. Un bel po’ di strada ci divideva all’epoca… ma non ci fece perdere la speranza. Perché tutto può succedere… come per esempio può capitare che qualcuno prenda il tuo stesso treno, in un lontano giorno di mezz’estate.

– Ci sediamo? –
Guardai quella panchina per un attimo. Era abbastanza sporca. Poi guardai lei. Il suo sguardo caporalesco mi fece capire che dovevo sedermi per forza. E così feci, pensando: “Cosa non si fa per amore!”.
Prese il quaderno di storia mentre l’abbracciavo da dietro. Ci mettemmo comodi.
– Allora la guerra dei 30 anni… capitolo primo… –
La osservavo mentre ripeteva i concetti. Lei sorrideva e si bloccava leggermente come se ci fosse stata ancora quella innocente timidezza tra di noi. – Non mi guardare! – mi disse.
– Ok ok! – risposi, ma i miei occhi tornavano sempre su di lei… sulle sue mani che gesticolavano, sui suoi occhi che guardavano il cielo per non incrociare i miei, sulla sua bocca che avevo voglia di baciare.
E il bacio ci fu ma mi staccai subito altrimenti la sua verifica di storia sarebbe stata bianca come il latte. La lasciai continuare a ripetere… ci tenevo che andasse bene a scuola… o almeno non volevo essere io la causa dei suoi brutti voti!
Ci baciammo di nuovo… colpa sua stavolta…
– Dai… devi finire… –
– Chi se ne frega studio dopo… –
La voglia saliva mentre il sole finiva il suo giro. Ci baciammo per un po’, fino a quando, stanchi di quei bambini impertinenti, ce ne andammo da lì.
La serata prometteva bene.
Fino ad allora non avevamo ancora litigato. Nemmeno per gioco.
– Dove andiamo a cenare? –
– Al Barin… –
Il Barin era un piccolo pub del suo paese. Ci andavamo spesso a trascorrere le nostre serate quando venivo da lei. Era un pub di quelli classici: lungo bancone in legno, tavolini, birre alla spina. Un classico posto in cui avrei portato i miei amici a bruciare un po’ di neuroni. Già… i miei amici. Era da tanto che non vedevo quelle canaglie squattrinate. Ecco cosa mi ricordava quel pub: Sloppy Joe’s… il nostro pub. Il luogo dove sono praticamente cresciuto. Dove ho “buttato” i miei anni migliori. In mezzo alle persone che mi riportavano a casa perché ero troppo ubriaco… dove distruggevo le bottiglie di birra… dove davo un’occhiata a Dante e lui capiva: un altro giro! Un’altra corsa prima che il tempo mi avesse strappato via da lì. Mi mancava quel piccolo pub. E dire che le prime volte che ci andavo non lo sopportavo.
– A cosa pensi? –
– Niente di che… –
– Ecco i vostri menù… – disse la cameriera.
Ma a noi i menù non servivano. Sapevamo già cosa prendere. Il nostro solito… piadina e birra.
– Perché questa volta non prendiamo una bottiglia di Prosecco? –
– No… una è troppo poco! Facciamo due… anzi no, tre! – dissi io guardando il prezzo spropositato.
Lei sorrise ritornando a sbirciare il menù alla ricerca di quei gusti che già conoscevamo.
– Allora cosa prendete? – chiese la cameriera che era tornata da noi.
Parlai io e involontariamente mi sentivo come ad un interrogazione con due donne che mi osservavano.
– Ehm… allora vediamo… ci porti due piadine… con… ehm… prosciutto cotto, mozzarella… ehm… pomodori e salsa rosa! – ce l’avevo fatta, almeno la prima era andata, guardai la mia lei negli occhi per una conferma, come fanno i bambini quando rispondono bene.
– E da bere? –
– Da bere… 2 Ceres old nine… –
Ordinazione finita. Sorrisi guardando lei che mi aveva osservato per tutto il tempo.
– Che c’è? – le chiesi.
– Sei carino quando sei imbarazzato! – mi disse prendendomi in giro.
Sapevo come vendicarmi.
– Sai, ieri Luisa mi ha detto che deve lasciare la casa. – (Luisa era una delle mie coinquiline che insieme ad una sua amica dividevano la camera doppia del mio appartamento.)
Il suo sguardo si fece severo. In fondo in fondo, non l’aveva ancora mandata giù che io vivessi con due donne. E i suoi occhi dicevano tutto. Sembravano quelli di un gatto che stava per graffiare.
– Ah si?! E quando te l’ha detto? E dove te l’ha detto? E come era vestita?! –
A quella domanda risi.
– Beh Fra… che t’importa com’era vestita? di certo non girano nude per casa altrimenti non uscirei mai! –
– Ahia! –
Con un leggero schiaffo mi colpì la testa. La sua gelosia le ribolliva nelle vene, ma sapeva che non avrei mai fatto niente con quelle due. Si fidava di me… ma un po’ meno delle mie coinquiline.
Mangiammo. La piadina, come al solito, era ottima e la birra non era da meno. Decisamente dei soldi spesi bene. Discutemmo a lungo su questo o quello, ridendo e scherzando come sempre. Come al solito prendevo schiaffi a non finire per le mie battute che a lei non piacevano. E piano piano stavo imparando a non criticare le donne o apprezzarne altre.
È dura la vita degli uomini.
La notte stava scendendo dolcemente alle nostre spalle. Eravamo usciti dal Barin e passeggiavamo lungo le strade del suo paese. Sapevamo dove andare. Al nostro parchetto. La presi per mano guidandola in quel posto che non conoscevo. Sotto sotto, era lei a guidarmi e non solo su quella strada ma anche nella vita… quella vita che era diventata un po’ più sua. Che teneva stretta, come la mia mano in quel momento.
Nel parchetto dove eravamo diretti c’era, per così dire, la nostra “casa”. Era una casettina in legno e plastica con uno scivolo per i bambini.
Salimmo sulle scale in legno e ci sistemammo lì dentro.
La calda giornata stava facendo posto ad una notte che sembrava non aver capito quanti gradi c’erano prima. Faceva freddo. Lei aveva su una leggera camicetta. Mi tolsi la felpa facendo scorrere la zip.
La mettemmo sui nostri corpi… ci riscaldava mentre l’abbracciavo teneramente. Ci baciammo. E lì, della storia ce ne fregava ben poco. Perché i baci scorrevano lunghi ed appassionati. Non curanti del tempo e delle persone che si erano fermate poco distante… non curanti di niente se non dei nostri cuori che battevano, le nostre anime che s’intrecciavano, i nostri capelli che si mischiavano. Lei era bella come non mai. E io mi sentivo fortunato ad essere tra le sue braccia quella sera.
Il mio cuore riprese a battere più forte… Come se il passato non fosse mai esistito. Come se tutte quelle storie che l’avevano distrutto, fossero scomparse. Ora c’era lei che ricostruiva pezzo dopo pezzo un cuore malandato. Quello stesso cuore che volevo strapparmi perché troppo amaro. Troppi addii aveva dovuto sopportare… e troppe lacrime aveva fatto cadere…
Lei mi aveva reso più forte… mi aveva ridonato la vita…
Spero che forse… anche io per lei abbia fatto qualcosa…

..Buonanotte Bambolina..

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