Ci siamo persi ma… (parte I)

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Milano, Stazione Centrale

Due occhi color nocciola mi osservavano dal finestrino. Appartenevano a una ragazza in un elegante vestitino blu che aspettava che il mio treno partisse. Voci d’interfono, rumori confusi e un gran scalpitio di persone, passeggeri in attesa e molti che partivano. Osservavo quegli occhi seduto al mio posto 64. Sapevo che al di là del vetro c’era un cuore che batteva, ansioso e malinconico per la mia partenza. E anche il mio si associava al suo. Per un istante pensai di non partire più. Di gettare il biglietto che avevo tra le mani e fuggire con lei ovunque… lontano da qui. Quella ragazza respirava con parsimonia, intravedevo una lacrima e gli angoli della bocca tendevano al basso. La sua espressione triste si rifletteva su di me. Mi entrava dentro e mi spolpava, frammentando l’orgoglio. Quelle labbra un tempo amate e quelle guance che solo le mie mani accarezzavano con piacere. Tutto perso… tutto finito nell’oblio di una fredda scatola.

E il mio cuore? Anch’esso giace tra lettere e fotografie dimenticate? Lo ritroverò un giorno. Batterà come prima. Dimenticherò tutto… riuscirò a non farti più del male… Pensami… Ed anch’io lo farò. Prometto di pensare alla nostra storia o quello che n’è rimasto. Ora che s’interrotta per un mio capriccio. Per quella testa bacata che governa il mio corpo, comanda l’anima e ripudia il cuore. Vedrai che un giorno i tuoi occhi torneranno a specchiarsi nei miei; sentirai il mio respiro sulle labbra che anticiperà un casto bacio; e le mani stringere le tue come il tempo in cui solo con quelle ci amavamo già. Baciami mia bella. Vorrei un bacio ora, prima che il treno parta. Vorrei sfondare il finestrino e raccogliere i tuoi capelli tra le mani. Vorrei averti per sempre e non rimpiangere gli attimi in cui eravamo felici. A volte penso che ormai non sia più in grado di amare. Poi vedo te… e dimmi come cavolo faccio a non amarti? Come faccio a dimenticarti? Solo la distanza può sbrigare questo compito… e questo treno è il mezzo che mi porterà lontano. Questo treno mi separerà da te… e dal mio cuore che resta chiuso in una scatola della mia camera. Resta il mio corpo freddo che si riscalda solo con la sua presenza.

La guardavo cercando di capire i suoi pensieri.
Un fischio destò l’attenzione di entrambi poi tornammo su di noi. Strinsi le labbra in un misero sorriso mentre il treno lentamente si smuoveva. Con due dita le lanciai un piccolo bacio. Lei mi salutò delicatamente con una mano. E non la vidi più… perché il treno, incurante dei sentimenti, abbandonò la stazione.
– È la tua ragazza? – mi chiese un tipo a fianco a me che aveva osservato la scena.
– No… o meglio, non più… –
– Strano… –
– Già… è una strana storia… –
Il treno viaggiava veloce. Le stazioni cambiavano nome in tempi costanti. Lodi, Piacenza, Parma…
“Ho fatto bene a prendere l’intercity…” pensai, “così ho più tempo per riflettere sulla mia vita…”.
Presi un libro dalla borsa e ne lessi qualche pagina. M’immersi nella storia estraniandomi dal mondo. Ma lentamente mi assopivo sulle parole. Le frasi scorrevano lente, fino a quando chiusi gli occhi e mi addormentai…
– Che cosa è successo? –
– Perché siamo fermi? –
– Il treno è guasto? –
– Capotreno! Chiamate il Capotreno! –
Con gli occhi chiusi e ancora assonnato, ascoltavo delle voci che si facevano sempre più vicine. Non capivo ancora cosa stesse succedendo. Ero tra sogno e realtà. Aprii gli occhi e vidi un treno in fermento. Persone che andavano e venivano. Chi urlava, chi parlava, chi si lamentava. Cercai di capire e notai che eravamo fermi. Niente stazioni, nel bel mezzo del nulla. Mi destai alla svelta e presi piena conoscenza di me. Mi alzai e uscii dalla cabina scostando le persone sedute. Intravidi dal finestrino alcuni passeggeri che erano scesi sui binari. Chiesi informazioni a un ragazzo che passava dietro di me e sinteticamente mi disse che c’era un treno rotto davanti a noi. Non potevamo passare. Guardai l’orologio.

20:30

Troppo tardi per prendere il regionale che mi avrebbe portato fino a casa. Dovevo darmi da fare e organizzare qualcosa. Cacciai il mio netbook dalla borsa.
– Dov’è quel maledetto cavo usb! –
Con il cavo attaccai il cellulare ed ebbi la connessione. Cercai di capire dov’ero.
– Formia… 100 chilometri da Napoli… –
Mi grattai la testa pensieroso. Chi poteva darmi una mano? I miei genitori erano beatamente in vacanza e i miei amici erano chissà dove. L’ultima speranza erano i miei fratelli. Quei due marmocchi viziati che non sanno fare un cavolo. Sarebbero riusciti a fare tutti quei chilometri per venirmi a prendere?
Sbuffai e sentii il mio cellulare vibrare.
Un messaggio, era Enzo:
We Ciro dove sei? Io sto tornando da Roma con Eva!
Risposi: A meno che il tuo treno non abbia le ali da Formia non si passa…
Io sono in treno bloccato qui…

Intanto un gruppo di napoletani aveva alzato il volume delle loro proteste. Cercavano il controllore per cantagliene quattro. Erano stufi dell’attesa, un po’ come tutti. Per quell’ora dovevamo essere già arrivati da un pezzo e invece…

Messaggio, Enzo:
Cazzo! Vuol dire che perderemo la coincidenza? Come si fa?
Risposi: Non ti preoccupare… penso a tutto io!

Chiamai mio fratello più piccolo. Rispose svogliato e un po’ nervoso.
– Graziano! Mi serve una mano. –
– Dai Cì… devo uscire mo’ –
– No! Mi devi venire a prendere! Ti ricordi quando ti ho insegnato a usare Google Latitude col cellulare? –
– Certo… –
– Ecco… usalo per trovare la mia posizione e poi col navigatore raggiungimi… –
– Che palle Cì! –
– Muoviti! E fai guidare Davide! –
Click
Strinsi in mano il cellulare. Guardai gli alberi dal finestrino ondeggiare al suon di un vento caldo. La sera calava lentamente sulle nostre teste in attesa.

Questo viaggio sarà più lungo del previsto… pensai mentre riaprivo lo schermo del mio pc.

Parte II –>

Stuck in a station…

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Non conosco il cielo… non so quando piange… quando ride… quando ha voglia di fermarsi a pensare. Non so quando è arrabbiato… quando ha voglia di farsi coccolare… quando è fermo e incapace della realtà. Quando si guarda il cielo ogni convinzione svanisce… e si sogna. Soprattutto ora che questo tramonto sovrasta la città. Ero seduto su una sedia sul mio balcone. Al quinto piano si godeva di una bellissima vista. Le nuvole e il cielo sembravano più vicini da qui. E questa sera faceva al caso mio… un tramonto così chi poteva perderselo? Il mio stomaco cominciò a brontolare proprio quando il sole scomparve tra le case. Con svogliatezza guardavo la porta del balcone… come se il mio sguardo volesse entrare ed arrivare alla cucina per vedere cosa ci fosse nel frigo. “Sarà vuoto” pensai. Ma anche se fosse stato pieno, la voglia di cucinare era pari a zero. Incrociai le mani dietro la testa e mi misi comodo dondolandomi sulla sedia. Le luci della città si accesero una dopo l’altra. I fari delle macchine divennero più visibili e l’oscurità iniziava a farsi sentire. Mi appoggiai alla ringhiera. Guardai giù sfidando quel vuoto sotto di me. Le macchine erano piccoline da qui su. Sembravano tanti piccoli giocattoli con cui un bambino si sarebbe divertito a giocare. Per non parlare delle motociclette… quelle si che erano carine. Le persone invece si facevano più rare e quei pochi che rimanevano in giro, si affrettavano a tornare a casa… chissà perché poi… chissà per cosa.. chissà per quale vita. Forse magari andavano a cenare. “Eccolo lì”, il mio stomaco tuonò di nuovo. “Ok, va bene… troviamo qualcosa da mettere sotto i denti!”. Mi alzai dalla sedia e tornai dentro. Spensi lo stereo e cercai le scarpe.
“Una è qui… e l’altra?”
Sembrava impossibile. Quando cercavo le scarpe ne trovavo sempre una sola. Non le perdevo mai insieme! Chissà per quale regola statistica o per quale caso sfortunato. Sempre e solo una.
“Eccola!”
M’infilai le scarpe cercando con lo sguardo la mia sveglia digitale. I numeri rossi segnavano le otto e mezza. Faceva un po’ freschetto quindi presi dall’appendiabiti il mio giubbotto di pelle. Nel staccarlo dal gancio cadde da una tasca l’ombrello portatile. Lo presi in mano… “Non penso mi servirà…” e lo poggiai su un ripiano della libreria.
Portafoglio… cellulare… anello… “Credo di aver preso tutto” Andai verso la porta e: “le chiavi!! Dannate chiavi!” Tornai indietro e le afferrai per il portachiavi di Ligabue che avevo comprato al concerto al forum di Assago. Due mandate e giù con l’ascensore al piano terra.
Ero fuori. M’incamminai per la strada che facevo tutte le mattine per raggiungere la stazione e da lì prendere il treno che mi avrebbe portato in università. Questa volta però, dovevo solo raggiungere il piazzale. Guardai il cielo. Era ricoperto di nuvole grigie che da un lato si dipingevano di un colore rossastro.
Raggiunsi la piazza ed era notte. Alcune persone aspettavano il 93 alla fermata mentre altre uscivano frettolosamente dalla metro. Un passante distratto mi urtò la spalla. Continuò a correre e girandosi mi chiese scusa. Gli feci un cenno con la mano e lo osservai andarsene con non troppo rancore. Il lampione accanto a me, m’inondava con la sua luce attirando schiere di moscerini. Mi guardai intorno decidendo dove andare a mangiare. Le opzioni sono due: Pizza Mundial alla mia sinistra o il messicano con il suo camioncino ambulante fermo dall’altra parte della piazza. Scelsi il panino del messicano e lo raggiunsi. Mentre camminavo, guardavo la stazione. Il grande orologio digitale era perennemente rotto. Segnava numeri a casaccio come a fregarsene del tempo. Lo adoravo. Sotto c’era la grande scritta “Milano Lambrate” e poi l’ingresso principale. Il messicano era parcheggiato poco dopo la fermata dell’autobus 54. Un’anziana signora con una busta di plastica mi osservò mentre le passai davanti. “Forse assomiglierò a qualche suo nipote”… tirai diritto e arrivai al camioncino.
– Ciao! – mi disse una ragazza dai tratti somatici dell’America latina.
– Ciao… mi fai un panino con la salsiccia? –
S’infilò i guanti in lattice e passò una salamella all’uomo che stava alla piastra. Il messicano stava preparando un altro panino per un ragazzo che aspettava con me.
– Cosa ci metto dentro? – mi chiese con un accento leggermente spagnolo.
– Formaggio e peperoni. – dissi, cercando di non pensare alla salute del mio povero fegato.
– Ci vuoi anche la cipolla? –
– No… grazie. –
Il messicano aveva finito le sue domande di routine e si era messo all’opera sulla mia salsiccia con la spatola di ferro. Gira, rigira e la mise nel panino con il suo contorno di peperoni e formaggio. E il messicano in fondo in fondo, mi voleva bene perché ci aggiunse anche la cipolla. Non dissi niente… perché, del resto, la cipolla mi è sempre piaciuta. Però, chissà come faceva a saperlo?
– Ecco a te. –
Presi in mano quel panino bollente e sborsai i miei tre euro.
– Vuoi qualcosa da bere? – mi chiese la ragazza.
Pensai se prendere o no la mia solita Fanta. Dissi di no… e mi girai dando un morso al mio panino.
Una goccia cadde dal cielo e grande e grossa si schiantò sul marciapiede. Non gli diedi troppo peso e soffiai sul mio panino cercando di fargli raggiungere una temperatura più bassa. Ma a quella goccia ne seguirono altre due… e poi tre… e poi altre ancora. Pioveva.
E pioveva forte. Non una di quelle pioggerelline leggere primaverili. No… un bel temporale estivo. Di quelli che di acqua ne mandava. E il cielo sembrava non voler smettere.
Ero al riparo sotto la piccola tettoia del camioncino. Continuai a mordere il panino. Le persone correvano qua e là. Passò un motorino poco distante. Andava piano perché il ragazzo stava prendendo un bel po’ d’acqua ed ogni tanto frenava perché le pozzanghere si stavano riempiendo ad un ritmo impressionante.  Diedi l’ultimo morso al panino e piano piano mi stava salendo la sete. Pensai alla Fanta a cui prima avevo rinunciato. Mi volsi indietro a guardarla da dentro il piccolo frigorifero sul camioncino.
“Na… chissà quanto me la farà pagare.” E me ne andai passando sotto la piccola tettoia fino ad arrivare alle scale dell’ingresso laterale della stazione. Era buio anche qui e il sottopassaggio era deserto. Si udiva solo il rumore dei miei passi che s’infrangeva contro le pareti creando un eco spettrale. Nessuno saliva o scendeva le scale dei binari. Nessuno correva… aspettava… leggeva… Un vuoto inimmaginabile. Dal binario 12 percorsi tutto il sottopassaggio fino al binario 1 dove c’era la biglietteria e il bar. Qui ogni mattina, se mi svegliavo con un po’ d’anticipo, venivo a prendere il caffè. Un caffè di merda… ma pur sempre meglio delle macchinette automatiche. Arrivai davanti alla porta a vetri del bar. Le luci erano ancora accese ma la porta non si smuoveva. Un ragazzo all’interno poggiò una sedia sul tavolino e mi fece segno che era chiuso. “Addio Fanta”. Mi toccava andarla a prendere ai distributori lungo i binari. Riscesi nel sottopassaggio.
“Vediamo… il binario 1 non ce l’ha… il 2 non mi piace… binario 3!”
Salii le scale e andai diretto al distributore, alla disperata ricerca della Fanta perduta. Cercai nella tasca qualche moneta ma mi accorsi che l’affare per inserirle era bloccato. “Eccheccavolo” pensai, per non scrivere qualcosa di più volgare. Tornai indietro e vidi che sulla panchina stava dormendo un barbone. Chissà come avevo fatto a non notarlo.
Binario 4… “Speriamo che almeno qui non mi vada male.” La sete aumentava come le gocce che cadevano sulla tettoia in lamiera che proteggeva la banchina. Il rumore che provocavano era assordante. Sembrava una mitraglietta che sparava sulla mia testa.

La mia lattina scese giù di colpo. La presi e l’aprii placando la mia sete con un sorso. Mi sedetti sulla panchina. Su questa non c’era nessun barbone. La pioggia si stava facendo più violenta e alcune gocce riuscivano a colpirmi nonostante la tettoia. Alcune persone sull’altro binario attendevano un treno. Bergamo… lessi sul tabellone. Infreddolite e spaesate… chi guardava l’orologio e chi leggeva il city di stamattina. Scesi di nuovo nel sottopassaggio. Questa volta in quello principale, dove c’era luce e qualche persona che si riparava dalla pioggia. Raggiunsi l’altro lato della stazione. Quello da cui ero venuto e mi fermai sedendomi sulle scale dell’ingresso principale…
Pioveva forte…
Neanche il mio giubbotto di pelle avrebbe potuto ripararmi. Davanti al marciapiede c’era una pozzanghera di dimensioni bibliche che i passanti non riuscivano a oltrepassare senza bagnarsi i piedi.

Pioveva… sulle case… sui negozi… sulle vetrine… sul messicano ed anche su Pizza Mundial. Pioveva… pioveva sui passanti con gli ombrelli e quelli che si riparavano sotto le fermate. Pioveva sul punto Snai perennemente aperto, con le persone che guardavano gli schermi e facevano scommesse impensabili. Pioveva e non smetteva… perché Dio voleva bloccarmi qui in stazione. Ad osservare la città dal basso di un gradino. A fermarmi per un minuto a scattare una foto di quella vita che conducevo di corsa… a quei treni che prendevo al volo… a quegli odiati ritardi che si riversavano in una pagina di un libro. Seduto qui, su questo gradino che non toccavo nemmeno, quando ero di corsa saltando direttamente sull’altro. Ero un passante… un semplice passante di questo mondo che viaggiava veloce… che prendeva treni, evitava controllori… e si affacciava dal finestrino quando non avrebbe dovuto. Mi sentivo come l’ignoto spettatore di Seduto in riva al fosso… a guardare l’acqua che va… che ha il biglietto ma la corsa la lasciava fare agli altri. Agli altri spettatori distratti che mi passavano davanti… che, forse in fondo, quella pioggia non la meritavano. L’unico a meritarla ero io…

  Perché Dio ha voluto che mi fermassi in stazione…
ad osservare la vita…

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