A Neverending Summer (III)

Perché mi danno sempre del bravo ragazzo? E’ odioso…

Buio… luci intermittenti… persone.
Ragazzi e ragazze in ogni luogo ballavano, strusciandosi gli uni sugli altri. La procace deejay della serata, metteva su, pezzi ritmati dal gusto prettamente estivo.
Guardai tra le mie mani e ci trovai un cocktail.
Direi proprio che dovresti smetterla! Dissi alla mia mano. Purtroppo, non mi sentivo ancora sazio di alcol e continuavo a bere. Avevo quella strana e ossessiva sensazione che mi spingeva a continuare a prendere drinks. Chissà dove sono gli altri… pensai.
Una mano mi toccò la spalla. Era Gianni che mi sorrise. M’indicò un punto tra la folla che difficilmente misi a fuoco. C’era il piccoletto che avevamo portato con noi, che ballava con tre e ripeto 3, ragazze attorno a lui.
–       Ci sa fare il ragazzino! – dissi a Gianni.
–       Già! –
Il ragazzetto moro di certo non faceva complimenti. Elargiva toccate e contatti fisici a destra e manca. Le ragazze ridevano di tanta spontaneità. Vedendolo in quegli atteggiamenti, quasi lo invidiai pensando a tutti i ceffoni che mi sono preso per fare soltanto la metà delle cose che stava facendo lui. Afferrò una ragazza per il collo e cercò di baciarla. Lei rise e lo allontanò. Gianni ed Io decidemmo d’intervenire, per evitare future discussioni. Ci avvicinammo al gruppetto delle ragazze. Ci presentammo e subito ci scusammo per i comportamenti eccessivi del nostro compagno. Le ragazze però, non sembravano turbate, anzi, erano molto divertite per la strana serata. Scambiai due chiacchiere con tutte e mi meravigliai quando mi dissero che avevano passato tutte i trent’anni. Mi sentii stranamente piccolo nei miei 26, per la prima volta dopo molto tempo. Il ragazzetto intanto, si comportava peggio di una scimmia imbizzarrita. Ballava, toccava, strusciava. Non perdeva un colpo.
Poi… Arrivò la schiuma dal cielo e fu blackout.
Le luci si fecero più scure e l’aria diminuì in un colpo solo. In un attimo, la pista si riempì di corpi inzuppati che tentavano di danzare nel poco spazio disponibile.
Tra la schiuma, la forte musica e la poca aria, non so descrivere cosa mi reggesse in piedi. Smisi di ballare e cercai un varco verso l’uscita. Mi sedetti su un cubo per poi scoprire che era una cassa dalle forti vibrazioni che emanava al mio culo.
Mi guardai le gambe e i vestiti. Fradici. Tirai fuori dalla tasca il mio cellulare per controllarne lo stato. Zuppo anche lui. Nell’altra mano avevo stranamente un cocktail.
Ora tu dimmi come cavolo sei finito qui! Gli dissi.
Subito dopo il diverbio tra me e il mio cocktail, si sedette una ragazza di fianco a me.
La guardai… mi guardò.
–       Ciro… piacere… – le dissi.
–       Monica… – mi rispose.
–       Vuoi? – le chiesi porgendole il mio cocktail.
–       Sì, grazie! – mi sorrise.
Scambiamo due chiacchiere e mi disse che studiava Sociologia. Alche, inarcando un sopracciglio, le mostrai il mio volto interrogativo. Non ho mai saputo bene cosa studiasse un sociologo… quindi glielo domandai e lei gentilmente me lo spiegò. Anche se il luogo per certi discorsi era il meno adatto, fu una spiegazione impeccabile. Purtroppo però, colpa del troppo alcol di quella sera, continuerà a restare una facoltà misteriosa per me, fino a quando non incontrerò qualcun altro che studi sociologia…

Da sobrio!

A Neverending Summer (II)

Luci soffuse Discoteca

“Palinuro personifica il caro nocchiero di Enea che perde la vita perché il Dio del sonno lo fa addormentare con musica e dolci parole e poi lo butta in acqua.”

 

I freni della Fiesta stridettero nel fermarsi in cima a una piccola salita. Non trovammo parcheggio più a valle perché il piccolo paesino di mare era completamente sommerso di persone. Gianni ed Io, guardandoci negli occhi, impugnammo le maniglie delle relative portiere. – Iniziamo la serata? – dissi e a un suo cenno del capo, scendemmo dalla macchina.
Palinuro si estende su due vie che s’incontrano in due piazze principali. Da un lato s’intravede il mare tra i palazzi e dall’altro vi è una piccola altura. In quelle due strade si concentra il cuore della movida giovanile della costiera. Si radunano lì per passare il preserata, parlare con i PR delle discoteche e bere qualche drink.
Appena arrivati nella piazza, ci trovammo di fronte a una folla incredibile. Ragazzi e ragazze di ogni tipo che si ammassavano e conversavano tra di loro, generando un fitto vociare. Guardai l’orologio, erano le 11,30 di sera.
C’intrufolammo tra la folla nella speranza di raggiungere un bar. Arrivati alla cassa, iniziammo il primo giro di Corona. Ne sarebbero serviti almeno 3.
Guardai la mia birra e pensai a quanto fosse stato facile arrivare fin lì. Il viaggio, grosso modo, era stato divertente, eccetto per le eccessive urla di Gianni. Cosa avremo fatto ora? Mi chiesi, dopo aver preso l’ultimo sorso della mia birra. L’alcol iniziava a sfondare le dure pareti del cervello, bussando con insistenza alla porta della ragione, pregandola di smettere di rompere le palle. La vista, già poca di per sé, iniziò ad offuscarsi, riducendosi a un cerchio sfocato. Cercai Gianni tra la folla. Vidi che era già passato all’azione. Aveva adocchiato una ragazza in un gruppetto di ragazzi. S’era avvicinato, aveva rotto il ghiaccio e ci parlava con disinvoltura. Anche i suoi amici erano simpatici. Così m’avvicinai anch’io.

Circa un’ora dopo eravamo in macchina in direzione della discoteca che ci aveva consigliato un’avvenente PR. Non so come avesse fatto a convincerci… ma aveva davvero due belle tette. Gianni come al solito guidava. Non mi avrebbe mai lasciato guidare nello stato in cui mi ritrovavo. Guardai dietro, nei sedili posteriori e vidi un ragazzo. Distinguevo a fatica i lineamenti a causa dell’alcol. – Piacere, Ciro. – gli dissi. Lui rise pensando che stessi scherzando. – Ci siamo presentati mezz’ora fa! – rispose.
–  Ah… – pronunciai meravigliato.

Mi rivolsi sottovoce a Gianni cercando di non farmi udire dal nostro ospite, come solo un ubriaco in macchina potrebbe pensare.
–  Chi è? E perché è qui? –
–  E’ un amico di Anna… la ragazza che ho conosciuto… voleva venire. –
–  Ma sei matto? Chi lo conosce questo?! Magari volevi anche farlo guidare?? – dissi stizzito.
–  No ragazzi! Non posso ancora guidare… ho 17 anni – disse il ragazzo ridendo dai sedili posteriori.

Gianni ed Io ci guardammo stupiti negli occhi. E la sua faccia mi disse che neanche fosse a conoscenza dell’effettiva età del ragazzo. Insomma, eravamo ubriachi e avevamo la responsabilità di un minorenne sconosciuto sulle spalle.
Mi toccai la fronte e maledissi il momento in cui ho permesso alla ragione di abbandonare la sua sede natale.

Quatre-vingts! (la nouvelle de Paris VII)

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Quella mattina il sole entrò con una certa resistenza in quella casa parquettata sugli Champs-Élysées. S’insinuò tra le fessure laterali che la fitta tenda plastificata non riusciva a coprire. E una volta dentro, la scena che gli si presentò davanti aveva qualcosa di grottesco e innaturale che gli sembrava aver visto solo in Vietnam ai tempi della guerra. Quel sole rise di noi… delle nostre facce stanche e assonnate; delle posizioni strane in cui dormivamo; dei vestiti sparsi e dei resti di cibo ovunque; rise di noi, perché non c’era nessun altro in città di cui poter ridere. Rise di noi e poi, con la sua potente luce, ci svegliò.
Avevo la bocca impastata e lo stomaco più arido del Sahara d’estate. L’alcol aveva fatto il suo corso lasciando un gran mal di testa e una sete inappagabile.
Ci alzammo tutti e in un’ora fummo arzilli e ben svegli, pronti, per la prossima avventura parigina. Ci catapultammo in strada con lo stesso sole che ci aveva svegliato.
Facemmo colazione in un bar a caso. Con non poche difficoltà a ordinare una brioches e un cappuccino. Sedemmo a un tavolino all’interno e cercammo di radunare quanti più ricordi possibili della serata precedente. Cercai di capire cosa avevano fatto gli altri e scoprii che non era molto differente da ciò che avevamo fatto Rafael ed io: bere e provarci con le ragazze.
Concordammo tutti che cantare Con te partirò di Bocelli a Parigi, era una delle cose da fare per forza nella vita. Fu l’apoteosi della serata, e soprattutto, totalmente imprevista. Imprevista… come la chiamata che ricevette Alberto in quell’istante.
– Pronto! Hi Yann! How are you? –
Alberto parlò con questo tizio dal nome difficile per un paio di minuti. Gli dette appuntamento nel primo luogo che gli venne in mente: la Tour Eiffel.
“Un genio… decisamente una persona molto intelligente!” pensai.
Dare appuntamento a una persona, sotto uno dei monumenti più famosi del mondo, visitato da quasi 7 milioni di persone l’anno, di sabato, ci vuole coraggio.
Gli feci un grande elogio e c’incamminammo.

Percorremmo avenue George V osservando macchine di lusso e ristoranti eleganti. Attraversammo la Senna su Pont de L’Alma e qualcosa s’iniziò a vedere da lontano. La Torre. Restai fermo un istante a osservarla. Non perché fossi estasiato o meravigliato, al contrario, quella bizzarra piramide ferrosa, non mi diceva niente. Mi dava l’impressione di essere un grosso traliccio della corrente elettrica e niente più. Cercavo nel mio corpo qualche emozione da sprigionare. Ci riflettevo… osservavo ancora… pensavo… ricordavo… Niente! Per me, quella rinomata Tour Eiffel, era solo un ammasso di ferraglia ben costruito. Rendeva meglio nelle foto da cartolina.
Dopo aver passeggiato per rue de l’université, finalmente ci fummo sotto. Proprio al centro, circondati da migliaia di persone in fila per salire. C’erano due ascensori che partivano da due piloni opposti e all’interno degli altri c’erano le scale per permettere alle persone di scendere. Mi posizionai al centro e alzai lo sguardo osservando il grosso quadrato metallico. Il culo della torre in pratica. Non mi diceva niente neanche quello. Solo ferro! Ganci, bulloni, travi… innesti, giunture, fili… cose non molto diverse da un cantiere di un grattacielo. E osservando le facce delle persone incantate dal metallo, ero invidioso e curioso di sapere il perché. Anch’io volevo provare una bella emozione… sognare e liberare un wow dalla mia bocca. Ma non riuscivo a mentire…
– Yann! My friend! –
Un normalissimo ragazzo con una normalissima borsa venne incontro ad Alberto. Era francese senza alcun dubbio. Il suo viso già parlava di per sé. Era un Vincent Cassel con vent’anni di meno e un fisico asciutto.
Ci presentammo, ovviamente in inglese, e anche a lui spiegai che Ciro ed io avevamo lo stesso nome. Iniziammo a camminare. Non chiedetemi per dove né perché. Camminammo e basta. Alberto, che conosceva questo Yann, parlò con lui per un po’, poi lo lasciò libero e subito passai all’attacco. Quel volto, quei movimenti e quel fisico, erano pressappoco interessanti per la mia fervente curiosità. Dovevo sapere di più.
– Yenn… – dissi cercando di richiamare la sua attenzione. Non si voltò e dopo capii il perché. Il suo nome andava pronunciato in maniera corretta. Nemmeno io mi sarei girato se qualcuno avesse urlato “Cero” invece di Ciro. Chiesi l’aiuto del pubblico e mi suggerirono la corretta pronuncia.
– Yann! – si girò e mi sorrise.
Mi affiancai a lui mentre camminavamo. Mi raccontò un po’ di sé. Aveva ventun anni e studiava economia come il sottoscritto. Gli piaceva la borsa e gli investimenti e mi s’illuminarono gli occhi quando me lo rivelò. Gli domandai qualcosa sull’economia francese e mi lamentai con lui perché la borsa di Parigi aveva subito un black-out causando notevoli perdite agli investitori.
In quel momento, per me, questo Yann rappresentava la Francia e Parigi. Anche se non era della città ma di un paesino a 300 chilometri di distanza. Aveva preso un treno e ci aveva messo meno di un’ora ad arrivare. E mi prese in giro dicendo che in Italia, con una buona fortuna, ne avrebbe impiegate almeno 4. Per lui, io impersonificavo l’Italia. E il problema era che non potevo dargli torto pur volendo difendere a spada tratta il mio Paese.
E così si aprì una sfida non dichiarata. Dibattemmo a lungo, senza tregua. Gli dissi che i francesi erano così stupidi da mangiare le lumache! Lui mi rispose che gli italiani erano così stupidi da non riuscire a raccogliere l’immondizia!
Il ragazzo lì, mi toccò nel vivo. Non mollava e aveva la risposta pronta. Eccitante dibattere con lui.
Gli dissi che L’Arc de Triomphe, altro non era che una banalissima copia dell’Arco della Pace di Milano. Di rimando, mi fece notare che lo spumante era una banalissima copia dello champagne.
Eravamo testa a testa come due pugili al primo round. E con una mossa non molto regolare gli dissi che la Francia era un paese di checche. Mi rispose che il Gay Pride Europeo si era svolto a Roma. Colpito e affondato. Era come duellare contro un avversario di eguale potenza.
In un impeto di rassegnazione tirai fuori l’ultima chance: – Voi francesi non avete una parola sola per dire il numero ottanta! Dovete dire per forza quattro volte venti! –
Yann ci pensò un attimo. Roteò gli occhi titubante. Si morse il labbro pensieroso. Alla fine però… mi diede ragione!

Italia – Francia = uno a zero.

 

 

Si viene si va… tenendoci dritti (III)

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– Ciro, che ti prendi? –
– Mha non so… vorrei continuare con il rum… –
Fissavo con insistenza la barista dell’Alexander, cercando di ottenere la sua attenzione. Enzo invece fissava Eva che dietro di noi parlottava con Carmen. Porsi un braccio in avanti e finalmente gli occhi neri e profondi della barista si posarono sui miei.
– Un Rum e cola… –
Enzo prese un Mojito e ci spostammo verso il centro della pista. Diedi un occhio alla postazione Dj. C’era un ragazzino sbarbatello non troppo esperto di musica. Mixava qualche hit del momento e non si dilungava troppo in frasi e urla per incitare la folla. Ogni tanto alzava la mano per sentirsi importante. Una ragazza ballava accanto a lui. Guardava la folla sentendosi una diva, nonostante l’aria di una qualunque che quella sera aveva bevuto un Martini di troppo.
La discoteca non era male. Con un po’ di fantasia potevo immaginare di essere ancora a Milano e non tra la movida di una piccola cittadina molisana. Trovare locali carini al sud è un impresa. A volte sono talmente sperduti che nessuno ha voglia di fare tanta strada per divertirsi un po’. Altre volte, invece, la gente che ci trovi dentro non è molto raccomandabile e si rischia sempre la rissa. Lì invece c’era il giusto stile, la gente giusta e non era troppo distante dal centro.
Ballavo cercando di non rovesciare il cocktail addosso a qualcuno. Enzo stava appiccicato alla sua ragazza e insieme ballavano un misto di lenti e strusciamenti. Carmen beveva. Mi disse che le piaceva l’Italia.
– Hai mai visto Milano? – le chiesi.
– Solo una volta… e per poco tempo! –
– Devi tornarci! Milano è fantastica! –
Mi sorrise e cominciò a ballare. Le piaceva quella canzone. Forse anche in Spagna passava su qualche strana radio. Diedi una lunga boccata al mio rum. La gola si inaspriva e la mente si alleggeriva. Lo stomaco invece non ne poteva più, brontolava e si contorceva ad ogni ondata di alcool. Non ci pensavo… era il giusto prezzo da pagare per evadere dal mondo.
Ballavo. Carmen mi fissava. Mi avvicinai e ballai con lei. Le presi le mani. I nostri palmi combaciavano e si stringevano. Le passai una mano attorno a un fianco. Guidavo io. Nonostante l’alcool, ero ancora un efficiente ballerino. Mi avvicinai al suo orecchio.
– Carmen! Te quiero! –
Lei mi guardò meravigliata.
– Cirope! – disse e mi chiedevo sempre per quale motivo mi chiamasse così. – Tu non sai che vuol dire! –
– Certo che lo so! – non lo sapevo, l’avevo sentito da qualche parte in qualche telefilm spagnolo.
Mi picchiettò la testa per farmi capire che non ero molto sano di mente. Guardai Enzo un istante. Si divertiva alla grande anche lui. Quella vita gli piaceva. Star lì, lontano da tutto e da tutti non era poi così male. Faceva qualche piccolo sacrificio, ma al paese lasciava un gran mucchio di problemi. Vederlo felice suscitava in me un piacere immenso… Questo genera l’amicizia? Forse sì…
La nottata stava finendo. Prendemmo i cappotti al guardaroba e imboccammo l’uscita. Sulla destra c’era un aggeggio che misurava il tasso alcolemico.
– Enzo mi presti un euro? Sono a corto… vorrei vedere di quanto sono fuori… –
Inserii la monetina. Uscì una cannuccia e la posizionai nel buco.
Soffiare prego.
Il marchingegno fece strani rumori e poi un numero rosso comparse sul display.
– E ‘sto numero che significa? –
– Che non puoi guidare… – mi disse la ragazza addetta alla biglietteria, che aveva visto la scena.
Guardai la ragazza, guardai lo schermo, guardai Enzo…
– Ok… va bene… andiamo a piedi allora! –

Mezz’ora dopo, con i miei piedi gommati e con il mio cuore a 6 cilindri, stavamo tornando a casa.
– Cavolo Enzo! Dove devo girare? –
– Di là! In quella via stretta! –
Enzo sembrava più disorientato di me. Le ragazze dietro si lamentavano per come guidavo. Va bene che ogni tanto confondevo il freno con l’acceleratore, però cosa potevano pretendere?
– Piano Cirope! Vai piano! Te vomito in macchina! –
– No, per carità! Vado piano! –
Andavo piano anche per evitare macchine e probabili incidenti. Per fortuna la maggior parte delle strade, anche se strette e difficoltose, era illuminata.
– Vai diritto! –
– Enzo… è un divieto! –
– Lo so! Ma se non passa nessuno buttati! Tagliamo un sacco di strada… –
Eva mangiucchiava i tarallini che Enzo aveva portato da casa. Una insolita leggenda metropolitana diceva che erano un ottimo metodo per far passare la sbornia.
– Eva! Passa avanti quella busta! – dissi e ne presi un paio.
– Cavolo Ciro… Attento… – mi allarmò Enzo.
Ficcai i tarallini che avevo in mano in bocca e masticai con lentezza, come se qualcuno da fuori potesse sentirmi. Una pattuglia di polizia era parcheggiata sul ciglio destro della strada. La macchina si ammutolì ed io cercai di essere il più normale possibile.
Niente poliziotto… niente paletta…
Avevano già fermato una macchina ed erano ancora impegnati nel togliere la patente a qualche sventurato.
L’avevamo scampata.
– Evvai! Niente mattinata in caserma! – dissi ironico ad Enzo.
– Siii! –
– Ok ok… ora mi dici dove Cavolo è casa tua!?!? –

Cocktail.. (Ricordi di Rimini 2004)

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Ero affacciato al balcone e guardavo fuori appoggiato alla ringhiera con il mio bel cocktail in mano. Qualcosa non andava dentro di me. I miei occhi erano stanchi, desolati e un po’ incazzati. No.. il passato qui non doveva venire e fare il suo porco comodo. Non dovevo permettere ai miei ricordi di riaffiorare.. non qui.. non ora..

E il mio cuore batteva. Sentiva.. Calpestava ogni mio rifiuto.. e crudelmente mi rovinava ogni momento bello. Questa magica serata era partita un po’ così. Tra foglietti attaccati al muro e nuvole in certe stanze.. tra musiche da ballo e cocktail mal mischiati. Questa Rimini iniziava a prendere forma sotto i miei occhi. E lo strano mostro che stava diventando cominciava a combattere con il mio stupendo passato. Gridando di vivere.. perché la vita è questa qui. E non ce ne saranno altre belle o migliori. Comunque vada.. e comunque sia.. questa è la mia vita..

 

-Ciro che fai?.. Perché non entri?-

-Perché non venite voi qui fuori?..-

-Che è successo..- disse Mario avvicinandosi prima degli altri.

-Guarda giù..-

 

Pochi piani più in basso c’era un tizio in boxer che correva per la strada alla ricerca di qualcosa. Lo guardavamo come se stessimo guardando un film che ci piaceva tanto. A tratti ci sembrava quasi un’illusione. Un frutto perverso della nostra comune immaginazione che ci voleva tutti come lui.. ubriachi.. nudi.. in posti strani.

 

-Ehi tu!-

Il ragazzo biondino si girò verso di noi dopo aver raccolto un oggetto da terra.

Ci guardava sorpreso.. e sembrava non capire. Infatti era tedesco.

Mettemmo insieme un gruzzolo di gesti e parole inglesi per fargli capire di salire da noi nella camera 30. Lui ci fece un OK con la mano e venne da noi. Vestito.

 

-Hi guys!-

-Hi.. what’s your name?-

-Voevo..

-Voe.. che?

-Voevo..-

-Volvo? No quella è una macchina..-

-Vo.. e.. vo..-

-Mi dispiace.. ma non imparerò mai il tuo nome..- gli dissi..

-Voevo.. do you smoke?-

-Yes yes..-

-Smoke this..-

-oh.. very good..-

 

Dal sorriso del biondino si capiva che la roba nostrana piaceva molto anche all’estero. Sorseggiò anche qualche nostro rum.. gin.. vodka.. Il ragazzo insomma si era ambientato bene tra di noi. Anche se solo la metà di noi riusciva a dire bene il suo nome.

E mentre noi eravamo alle prese con lo strano tipo, l’intraprendente Pasquale era sul balcone che socializzava con delle ragazze dell’albergo di fronte.

 

-Ragazze! Venite da noi! Qui ci si diverte!-

 

Le ragazze ridevano tra di loro. Non capivano.. erano straniere anche loro. Accorgendoci della situazione che avveniva sul balcone, ci accostammo un po’ tutti alla ringhiera. Il folto gruppetto di ragazze parlava e ci indicava. Parlavamo in inglese cercando di farci capire.. fino a quando non intervenne il sorprendente Voevo che, intuendo che erano tedesche, blaterò qualcosa nella sua nordica lingua. Insomma.. le ragazze ci stavano. Vennero tutte nella nostra camera.

Ora.. gli ingredienti della serata c’erano tutti. Cosa poteva mancare? C’era la musica e vari diversivi, c’era l’alcol in vari miscugli, c’era un tipo strano che c’incuriosiva e ci faceva divertire.. e c’erano le donne.. L’immancabile elemento finale.

Guardavo la scena e ridevo. Guardavo la scena e vedevo il quadro completo. Bastava solo mescolare e agitare..

 

Rimini.. è un bel cocktail di vita.

Notte brava.. (Marina di Camerota ’09)

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Mattina…

 

 Ero seduto al tavolo della colazione. Lì, nel ristorante del villaggio. Avevo su gli occhiali da sole perché il sole di quella mattina mi dava fastidio. Sentivo la stanchezza addosso premermi sui muscoli. La sveglia era alle otto. Giusto il tempo di accumulare qualche ora di sonno. Le orecchie mi fischiavano ancora e la mia schiena era a pezzi. Mi alzai per andare a prendere una quantità industriale di caffè. Cercai di camminare diritto anche se la cosa risultava molto difficile. Me la cavai discretamente e non feci cadere niente. Passando al buffet mi salutò Rossana, una ragazza che avevo conosciuto la mattina prima, mentre aspettavo la navetta per la spiaggia. Mi guardò e sembrava già aver capito tutto. La salutai rimandando a dopo la conversazione. Tornai al mio tavolo.

Mio padre era lì che leggeva il giornale. Mio fratello, a fianco a me, aveva già iniziato a fare colazione. Presi il mio cornetto e gli diedi un morso aspettando la fatidica domanda.

– Cosa hai fatto ieri sera? – disse mio padre

Sembrava tranquillo… risposi cercando di spiegargli perché ero tornato tutto inzuppato e senza maglietta. Ma soprattutto cercai di fargli capire che cosa fosse uno schiuma party.

– Che stronzata! 16 euro per farsi buttare della schiuma addosso! Ma ‘sta gente il bagno non se lo può fare a casa? – mi rispose storcendo il naso.

Mia mamma sembrava non aver ancora capito. Guardò mio padre con aria interrogativa… e poi guardò me.

– Stamattina ho dovuto lavarti anche le scarpe! – disse.

Mio fratello rise… e risi anche io… mentre continuavamo a fare colazione colazione.

 


 

La notte prima…

 

Pazzo! Un vero e proprio pazzo! L’autista della navetta che ci stava portando in discoteca non stava molto bene di testa. Stranamente però, questo mi piaceva un casino. Mi eccitava… mi faceva battere il cuore. Era notte fonda e sulla strada non si vedeva nessuno. Correva… l’autista correva veloce. Sembrava non fregarsene di niente. Dossi artificiali… curve pericolose… attraversamenti pedonali. Correva e correva… sotto le gallerie buie… negli incroci e nelle strettoie. Mi reggevo al sediolino per non sbandare a destra e sinistra. Per un attimo mi chiesi che cosa ci facessi lì.  Guardai fuori… vidi il guardrail sfrecciare veloce accanto a me. Pensai che un piccolo errore sarebbe stato fatale… perché oltre il guardrail c’era il vuoto… e sotto il vuoto c’era il mare. Pensai anche… chi se ne frega della discoteca voglio fare un altro giro qui! A volte la pazzia s’impossessa di me… e se facessi l’autista guiderei anche io come lui. Forse peggio… o forse meglio… o forse non durerei mezzo secondo. A volte amo troppo il rischio. Lo sento scorrere nelle vene e martellarmi il cervello. Forse dovrei preoccuparmi un po’ di più della mia vita.

Mi guardai intorno. Gli altri sembravano preoccuparsi poco dell’autista e della sua folle corsa. Immaginai perché lo conoscessero già. Sapevano già che alla fine… bene o male li avrebbe portati alla meta sani e salvi.

E dopo qualche curva presa abbastanza bene, arrivammo.

Scendemmo tutti. Barcollai un po’… mi chiesi se fosse stato merito dell’autista o delle due Ceres che m’ero sparato prima di partire… Colpa d’entrambi.

L’animatore mi fece segno di seguirlo con una mano. Lo vidi e m’incamminai nella colonna di persone dietro di lui. Cercai il portafoglio. L’alcol saliva… ma non abbastanza. Certo, se la barista del villaggio avesse avuto le Tennent’s sarebbe stata tutta un’altra storia. Presi le riduzioni e le diedi al cassiere. Mi guardai un po’ in giro. Mi trovavo in una specie di galleria scavata nella roccia. Era l’ingresso alla discoteca. Un buttafuori nero ci fece passare dopo aver visto i nostri pass. Entrammo…

Che spettacolo. Un’oscura caverna illuminata da teste rotanti… fari colorati e luci al neon. Da un lato c’era il bancone del bar… dall’altro c’era un piccolo palco dove il dj stava preparando i suoi dischi. Al centro della scena c’era una grande piazzola rotonda dove la gente aveva già iniziato a ballare. A fianco c’era un enorme tubo su cui campeggiava la scritta “schiuma party”. Immaginai a cosa servisse. Subito mi diressi al bancone ad ordinare il mio primo cocktail… la barista mi fece l’occhiolino mentre le fissavo il piercing sull’ombelico. Mi porse il bicchiere… Le feci anche io un occhiolino e mi buttai in pista…

Quella notte era appena iniziata…

 

 

..Amnesia..

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Amnesia…
“Nel linguaggio medico, l’amnesia è una patologia carat-terizzata dalla parziale o totale perdita di eventi passati, è un disturbo collegato alla memoria.”
La stanza era fredda… immobile. Apparentemente vuota, fatta eccezione da quel ritmico respiro proveniente dal letto. Il sole faticava ad entrare attraverso i vetri appannati della porta del balcone. Le mensole… l’armadio… l’appendiabiti… Tutto sembrava nel giusto ordine mentre nell’aria regnava una sorta di foschia apparente. Quel tetro alone regalava allo spettatore più attento la sensazione di stranezza. Perché qualcosa non andava… anche se sembrava tutto normale…


Aprii gli occhi.
Ero nel mio letto.
Respiravo… o almeno ricordavo come si facesse.
Misi a fuoco e sbiancai nel vedere il soffitto della mia camera. La confusione cresceva nella mia testa e combatteva con il dolore lancinante che mi martellava la parte alta della testa. Assunsi una espressione dolorante e nel voltarmi scoprii che anche il collo aveva qualche problema. Ma a parte quei dolori, non riuscivo ancora a capire come mai mi trovassi lì. Ricordavo che ero ad una festa… ricordavo che mi stavo divertendo… e non ricordo più niente…
Iniziai a fare a cazzotti con la mente scavando a fondo nei ricordi. Niente. Vuoto totale.
Mi girai nel letto ma qualcosa mi tirava. Era il colletto della camicia abbottonato e troppo stretto. Sollevai le coperte e scoprii di essere completamente vestito. Jeans nero… Cintura… camicia nera a righe… e un calzino solo.
“Ahia la testa!” e riaffondai sul cuscino. Le domande si affollavano e le risposte si facevano complicate.
Perché ero vestito mentre il mio pigiama faceva bella mostra di se su un ripiano dell’armadio?  E soprattutto, perché avevo un calzino solo?!
Richiusi gli occhi. Un po’ per il dolore e un po’ perché credevo o almeno speravo, che si trattasse di un sogno mal riuscito.  Mi riaddormentai pensando che forse un po’ di riposo avrebbe sistemato le cose. Cercai di calmarmi. Forse in fondo non era successo niente. Probabilmente mi sarebbe tornata la memoria dopo qualche minuto… forse due… tre… quattro…
– La macchina!! – ricordavo di essere uscito con la macchina la sera prima e la parte in cui la riponevo nel garage mi era del tutto assente.
Mi alzai di botto e scoprii che anche la spalla mi doleva. Mi diressi verso il bagno. Abbattuto, stordito. Quasi mentalmente assente. Mi affrettai ad andare alla finestra che dava sul cortile. Sul vialetto c’era la Ford Focus con mio padre e mio nonno intenti a fare chissà cosa. Non riuscivo a vedere bene. Andai allo specchio. “Almeno la mia faccia è rimasta quella di sempre” pensai, e cercai di ristabilirmi un po’ sciacquandomi il volto. Ma non servì a niente. Uscii dal bagno e percorsi il corridoio con una mano che strusciava contro il muro, come i ciechi che cercano di orientarsi in una casa che non è la propria. Vidi le scale. Mi sembravano altissime… silenziose… quasi innocue. Feci il primo passo come colui che si appresta ad entrare in un mare di acqua gelata. I sensi ormai sembravano tutti ingannarmi. La vista si annebbiava ondulando le cose, creando facili squilibri. L’udito manteneva perennemente quell’irritante sibilo dovuto forse alla musica troppo alta della sera precedente. Continuai a scendere quelle scale reggendomi alla ringhiera. Un po’ come faceva mia nonna quando doveva salire al piano superiore. Arrivai giù. Al primo piano c’era la cucina dove mia mamma aveva sicuramente preparato il pranzo. Solo che  non riuscivo a sentire nessun profumo dato che anche l’olfatto era andato a farsi fottere. Guardai il grande orologio che faceva capolino all’entrata nella cucina. Erano le 2:30. Un po’ troppo tardi per mangiare. Mia mamma mi sbucò da dietro portando una pentola con due mani. – Finalmente ti sei svegliato! – mi disse… con un tono di leggero rimprovero.
Non risposi. Non sapevo cosa dire. Mi limitai a seguirla con lo sguardo nelle sue faccende.
All’improvviso mio padre entrò nella cucina. Dal viso e da come aveva sbattuto la porta sembrava abbastanza adirato. – Che cavolo avete fatto ieri sera?!? Chi è che ha ridotto così la Ford?? –
Il cuore mi batteva… cercavo una risposta… invano. – Perché? Che è successo? – dissi.
– La macchina è sudicia… cenere ovunque… e qualcuno ci ha vomitato dentro! Chi è stato?? –
Spalancai gli occhi alle parole di mio padre. Terrorizzato al pensiero che avesse rovistato dappertutto. Dovevo correre fuori. Nella macchina c’erano cose che mio padre non doveva nemmeno immaginare. Tra cui, un ignaro e innocuo “pacchetto di fazzoletti”. Così cercai di divincolarmi dalle domande con risposte vaghe del tipo “abbiamo un po’ esagerato ieri sera”, “Enzo è stato male e non è riuscito a trattenersi…” anche se non ne avevo la più pallida idea. Scesi nel cortile e andai verso la macchina. Mio nonno era ancora lì con in mano un tappetino. Lo salutai e gli feci gli auguri. Aspettai un suo momento di distrazione per intrufolarmi in uno sportello. Guardai in giro cercando di metterci la massima attenzione. All’apparenza quel pacchetto sembrava scomparso. Cercai nel portaoggetti… sotto i sedili… tra i pedali. Niente… Il cuore mi si riempì di terrore. “Se l’ha trovato mio padre sono casini grossi”. Niente… non c’era. Dovevo smettere la mia ricerca perché stavo dando troppo nell’occhio. Mi alzai con un viso sbiancato e rientrai in cucina. Continuavo a pensare a mio padre che stava progettando  la scenata da farmi… che all’improvviso avrebbe detto “vieni qui che dobbiamo parlare” con quel volto serio con cui solo poche volte l’ho visto.
“Dannazione non ci voleva!”
Se andava come sospettavo… ero nei guai. E per di più, la testa continuava a girarmi. I segnali del cervello sembravano correre a tratti lungo il mio corpo. Mi serviva un po’ di riposo… o forse qualche altra cosa. Tornai in camera da letto evitando il più possibile i miei genitori. Mi ributtai nel letto e appena chiusi gli occhi… Strane costellazione si facevano beffe della mia vista. Tutto girava e nel mezzo, nel preciso centro di tutto, c’ero io. Il mio corpo, me stesso. Mi guardavo dal di fuori come uno specchio irreale. Sogno e realtà si fondevano creando mistiche illusioni. “Vieni da me… Vieni da me…” mi sussurrava il mio alter ego dall’altra parte dello specchio. Non rispondevo… avevo  il respiro affannato. Eppure non avevo fatto sforzi… non avevo mosso nessuno dei miei muscoli. Mi sedetti per terra… ed appoggiai una mano allo specchio. Dall’altra parte, l’immagine di me stesso, rideva di me e l’eco della sua risata rimbombava in ogni dove… Resistevo… Resistevo mentre la testa compieva strani viaggi e tutto continuava a girare…
Sentii delle voci. Colpi battuti su una porta in legno…
toc  toc…
toc toc…
e poi di nuovo le voci… ridevano… Dicevano qualcosa in sottovoce. Nominavano il mio nome…
Ciro?
Ciro!

Sembravano le voci dei miei amici che mi chiamavano. Erano entrati nella mia stanza e cercavano di svegliarmi. Mi scuotevano… Ciro!
– Cazzo questo non si sveglia! –
Aprii gli occhi…
Vidi i volti di Enzo e Luca che mi guardavano in silenzio.
– E se non si riprende? – chiese Enzo a Luca.
– Secondo me è rimasto scemo… –

– Ehi… che volete? Idioti! – risposi con un po’ d’incertezza.
– Ciro, tutto a posto? – mi chiese Luca, un po’ preoccupato.
– Si, tutto a posto… – dissi strascicando le parole.
– La testa non ti fa male? – disse Enzo ridendo.
– Si un po’ si… –
– Solo un po’!? –
– Si… solo un po’… –
– No, perché ieri hai preso tante di quelle testate… –
– Ieri? Ragazzi io non ricordo niente… –
Enzo e Luca si guardarono in faccia e iniziarono a ridere.
– Quindi non ricordi proprio niente? –
– Niente… vuoto totale. –
– Nemmeno quando sei saltato sulla tua macchina e hai iniziato a pulire il vetro con la tua giacca? –
Sgranai gli occhi, la mia giacca!.
– Non è possibile dai ragazzi non prendetemi in giro… –
– Certo che è possibile… guarda! –
Luca prese la giacca nera che era disordinatamente appoggiata sulla sedia e me la mostrò. Sporchissima, sudicia e tre lunghi squarci la percorrevano sulla schiena.
– Porc… – dissi. La mia giacca da 250 euro era ridotta uno straccio. Era praticamente da buttare… anzi da bruciare. Non capivo più niente. Che cosa era successo? Che cosa avevo fatto? mi chiedevo continuando a fissare la giacca.
– Cavolo se la vede mia mamma mi uccide! Dannazione! Devo nasconderla… almeno per il momento. –
– Dai ora alzati che usciamo. – disse Luca.
– Ok… forse è meglio… –
Mi alzai dal letto.. Mi guardai i piedi. Anche loro mi guardarono i piedi.
– Ragazzi, mi sapete dire perché diavolo ho un calzino solo? –
E risero di gusto… come se avessi fatto la più splendida delle battute.

– Vieni che fra poco ti racconteremo tutte
le disavventure che ci hai fatto passare ieri notte… –

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