Dovrei regolare la mia ansia piu’ tardi.
Alle 6 e mezzo e’ troppo presto per svegliarmi!
Dovrei regolare la mia ansia piu’ tardi.
Alle 6 e mezzo e’ troppo presto per svegliarmi!
Luciano prese posto tra le file della platea. Si sedette nel posto centrale con a fianco Maioli e gli altri.
Non gli staccai gli occhi di dosso nemmeno per un istante. Ligabue era lì, in uno dei posti del cinema. Inciampavo ogni gradino mentre risalivo la scala. Dovevo raggiungere il mio posto. Il film sarebbe cominciato a breve. Ma quale film avrei visto se lui non se ne fosse andato? Ero distratto e assorto come un bambino che pensa al regalo di Natale in un negozio di giocattoli. Un bambino, mi sentii proprio un bambino. Scalai i miei ventiquattro anni in un colpo. Tornai all’inizio. Quando la mia corazza era ancora bella forte e niente riusciva a scalfirla. Quando la vita era Giorno per Giorno e non avevo pesanti ricordi in bagagliaio. Poi entrò lui, senza nemmeno bussare. Si mascherò con una semplice canzone; allettò il mio udito con la musica e penetrò il mio cuore con le parole. C’è stato un periodo che l’odiai per questo. Perché ogni canzone che ascoltavo… ogni strofa che sentivo, mi lasciava inerme, debole, pensieroso.
Alcune canzoni decisi di non ascoltarle mai più. Ma il tempo corresse gli errori e finii per cedere, come le mie lacrime.
Anni su anni. Vita su vita.
Storie, ragazze, amici.
Vizzi che non puoi smettere.
Pelle anima e ossa.
Cielo.
Sentivo dentro ogni cosa, e ogni cosa mi stava pulsando nelle vene.
Le luci del cinema si abbassarono e lo schermo scintillò. Francesca mi disse di sedermi e lentamente lo feci. Tornai per un attimo alla realtà. Ero lì, nel posto 7 della fila 13, con in mano un paio di occhialini 3D.
Avevo giubbotto e sciarpa ancora addosso. Non avevo fatto caso al caldo che faceva. Strinsi la mano di Francesca. Mi guardò. Cercava di capire la mia agitazione. Ero a pochi metri di distanza dal mio idolo.
Ci separavano solo pochi posti. Era nella mia stessa fila. Mi sporsi in avanti con il busto. Lo vedevo e per farlo dovevo distogliere lo sguardo dallo schermo. Il film stava iniziando.
Ero teso. Sullo schermo passavano le scene di migliaia di ragazzi che si preparavano a vedere il concerto. Volti sconosciuti. Semplici persone arrivate da tutta Italia per godere di un sogno. M’immedesimai in loro. Ricordai vaghe scene del passato. Ricordai le emozioni, ricordai i miei freschi diciott’anni. Ricordai gli amici, a quel tempo, più stretti che mai. Tutti i miei ricordi erano concentrati in canzoni. Le canzoni che aveva scritto quell’uomo seduto a qualche metro da me.
Partì Questa è la mia vita, una di quelle che amavo di più. Indossai gli occhialini per guardare qualche fotogramma, ma dopo un minuto li toglievo per tornare a osservare lui. Ligabue era immobile. Tutta la sala cantava e si sbracciava come se fossimo a un concerto. Lui invece era fermo a guardare. Sorrideva osservando gli spettatori estasiati. Il suo film stava dando l’effetto sperato. Stava generando emozioni.
Era quello il suo lavoro, e lo stava facendo bene.
Incrociai le dita. Pregai. Volevo quel qualcosa che prima mi era sfuggito. Volevo lui. Non mi bastava averlo sfiorato. Volevo di più, e quella era l’occasione giusta. Forse l’unica per me. Guardavo il film ma stranamente ero impaziente che finisse. In quel momento non m’importava. Il film poteva aspettare. Pensavo a come avvicinarlo, e pensavo, con dispiacere, alla probabilità che non ci fossi riuscito.
Il solito pessimista.
Sperai, sperai, sperai. E le luci si accesero. Il film era finito.
Mi guardai intorno. Infilai alla svelta il giubbotto di pelle. Francesca mi guardò e capì. Sgomitai tra la folla. M’infilai in ogni buco. Passai avanti a tutti. Lo vedevo. Ero vicino. Sentii il cuore battere forte. Le braccia mi tremavano. Ligabue stava uscendo dalla fila nella mia direzione. Nella direzione di molti. Si faceva sempre più vicino. Le mani dei ragazzi non volevano lasciarlo andare. Si appigliavano ai vestiti, al collo, alle braccia. Li capivo. Anche loro volevano toccarlo. Luciano era a un palmo da me. La sua mano destra era stretta da un altro ragazzo. Tesi il mio braccio allo spasmo.
Gridai “Ligaaa”. Lo guardai negli occhi per un istante. Quell’attimo fu immenso. Ligabue lasciò la mano del ragazzo e con un rapido movimento gliel’afferrai. Senza pensarci, senza permessi, senza chiedere. Un contatto. Avevo la sua mano nella mia. Nella testa mi scoppiò una supernova. Non guardavo più la sua faccia ma la mia mano, insieme alla sua.
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Furono i secondi che passarono. Poi lentamente lo lasciai andare. Le sue dita scivolarono via dalle mie e incontrarono quelle di un’altra persona. Il cuore mi batteva come un tamburo e le gambe sembravano fatte di pan di spagna. Ero fermo. La folla lo seguiva nella sua dipartita. Tutti si allontanavano da me. E quando non ci fu più nessuno, scorsi Francesca dall’altra parte della sala.
Le sorrisi… e lo fece anche lei.
– … per andare a vederlo da un’altra parte! –
Melzo è una piccola cittadina nella sconfinata periferia di Milano. Ha una manciata di abitanti in un gruppo di case, una ferrovia che la spacca in due e una vecchia storia medioevale.
Faceva freddo anche lì e il sole lentamente se ne stava andando, oscurando tutto. Il pullman ci lasciò in strada. Apparentemente quel posto aveva qualcosa di familiare, ma tralasciai i miei pensieri.
– Siamo arrivati! – disse lei.
Eravamo di fronte un modesto palazzetto. Aveva la forma di una cupola o quasi. Su un lato, una grossa insegna multicolore: Arcadia.
Era un cinema. Un posto così semplice dove tenere coppiette vanno a passare qualche ora spensierata. Non avrei mai pensato che quello fosse stato il luogo dove si sarebbe avverato un mio desiderio.
Ci avvicinammo. La mia curiosità cresceva allo stesso ritmo della mia impazienza. Mi fermai un attimo davanti alla vetrina che racchiudeva un poster. “Ligabue – Campovolo – il Film 3d”
Quel giorno, non avevo programmato di vedere quel film, ma lei mi ci trascinò con tutte le sue forze.
E’ delizioso avere qualcuno che riesce a penetrare la tua corazza, guardarti dentro, e scavare nei tuoi desideri più intimi. Oltretutto Francesca non ammirava Ligabue come me. Non aveva motivo di essere lì, se non per me. Eppure aveva fatto di tutto per portamici, per recuperare due biglietti introvabili, per permettermi di vederlo e regalarmi un sogno.
Ancora non credevo a quello che stava per succedere.
Eravamo in un corridoio. Il cinema si stava riempendo pian piano. In mano avevo i nostri due biglietti. Posti 7 e 8. C’erano capitati i nostri numeri fortunati. Che bizzarra coincidenza.
Adoro le coincidenze ma al loro succedersi il mio istinto va in allarme… e non riesco mai a capire se in bene o in male.
– Che hai? – mi chiese, osservando il mio volto che appariva triste.
– Niente… sono agitato… teso… emozionato… incredulo… non so che dire… –
Sorrise e mi strinse la mano. Cercò di comprendere il mio silenzio. Avevo un mondo all’interno che si stava scontrando con un altro. Due forze contrastanti, una fatta di ricordi, e una di presente. Sentivo gli stessi sentimenti di dieci anni fa. Quando ascoltai per la prima volta una canzone di Ligabue sul mio pc. Era Certe notti. Me ne innamorai subito. E da lì, la rapida ascesa: il primo cd… la prima maglietta… il primo concerto. Fu proprio Campovolo nel 2005. Il 10 settembre del 2005. Lo amavo talmente tanto che mi ci fiondai senza se e senza ma, col mio giubbotto di pelle e la mia monospalla, qualche amico fidato, una botta di vita e un viaggio di 10 ore.
Aspettavo seduto in quel corridoio. Sentivo l’ansia crescere, quella violenta che ti scava dentro, quella che prende il respiro, quella che aspetta la gioia, che forse arriverà. Guardai di nuovo i miei biglietti e con loro le mie gambe in un pantalone grigio.
– Sto sognando? – le chiesi.
– No… scemo… andiamo… mettiamoci in fila che tra poco si entra in sala! –
Sala Energia
Dall’esterno non sembrava che questo palazzetto potesse contenere una sala così grande. La platea da sola era uno spettacolo. Una specie di anfiteatro con poltroncine blu, rivolte tutte verso lo tesso punto.
Al centro di un’enorme parete, un immenso schermo. Il più grande che abbiamo mai visto in vita mia. Spettacolare. Rimasi affascinato a guardare quella scena, per gustarmi i dettagli, mentre la sala si riempiva. Francesca prendeva i posti e poggiava le cose.
– Se vuoi ci mettiamo lì, in piedi in fondo alla scala. Saremo più vicini. –
Alla parola “vicino” il mio cuore ebbe un sussulto. Mi ero quasi dimenticato che non era un sogno, era tutto vero quello che stava per succedere. Scesi lentamente ogni gradino. Mi appiattii alla parete. Altri ragazzi ebbero la stessa idea e per una volta nella vita, invidiai quelli che erano seduti in prima fila. Fissavo il centro del palco. Illuminato da un’unica luce. Quasi come se Dio stesse per scendere in scena.
La sala era piena. Un vociare scomposto di sottofondo fatto di anime che si scambiavano esperienze e opinioni, contrastava col mio silenzio. L’ansia si fece più forte. La mente non aspettava altro. Il cuore pompava ritmi sconosciuti. Gli occhi non sapevano più dove guardare.
Improvvisamente, le porte si aprirono. Dal fondo comparve un gruppetto di uomini capitanati da Claudio Maioli, il manager e amico stretto di Ligabue. Scesero lungo la scala. La stessa scala al cui termine c’ero io. I ragazzi si scansarono educatamente. Maioli guardava i gradini per non inciampare nella penombra. Una ragazza gli toccò un piede e si scusò.
– Niente… non si vede un cazzo qui! – Rispose Maioli.
Sorrisi mentre mi passò accanto. Il suo solito caratteraccio. Pensai.
Si disposero al centro sotto la luce. Dietro di loro, il maxischermo ancora bianco.
Con le orecchie li sentivo parlare, ma il mio cervello non memorizzò niente delle loro parole. La mia mente era impegnata a capire da dove sarebbe entrato Lui… da dove sarebbe sceso… e se fosse passato davanti a me.
Grida confuse. Maioli dice al microfono “Entra Luciano!” e dopo qualche secondo Luciano entrò. Alzai la testa, sgranai gli occhi ma non riuscivo a vederlo. Una massa di ragazzi e ragazze gli fu addosso. Era lontano da me. Stava scendendo lentamente dalla scala a destra. I fans non lo lasciavano andare. La maschera intervenne e calmò la folla. Lo vidi. Era a 10 metri da me. Lo spazio di una strada in pratica. Come se Ligabue fosse dall’altro lato del marciapiede… ed io volevo tanto attraversarla quella strada.
Era sotto la luce. I suoi capelli si tinsero di chiaro.
– Ben arrivati! – disse, e la folla esplose.
– … ho voluto presentare il mio film qui, all’Arcadia di Melzo, nella sala Energia. Perché qui c’è uno dei più grandi schemi 3d italiani e spero che il film si veda bene! –
Ligabue parlava al microfono. Presentava il film. Lo fissavo così intontito e la mente era un guazzabuglio di parole, di sue parole. A ogni sillaba che pronunciava, cercavo di avvicinarmi lentamente insieme ad altri colleghi.
I piedi mi tremavano e la Maschera già ci guardava in malo modo. Gettai la mia educazione in qualche angolo recondito del corpo e feci finta di non vedere i rimproveri velati.
Luciano ringraziò il pubblico e lasciò il microfono. Tutti i ragazzi, come girasoli attirati dalla luce, gli furono vicino. Crearono uno scudo tra lui e l’aria. Non lo vedevo più e la mia coscienza strinò la mia esitazione.
“Che fai lì, corri! Vai da Lui!”
In un attimo gli fui vicino. A meno di un metro. Vedevo la sua faccia grazie alla mia altezza, ma lo scudo di persone non mi permetteva di avvicinarmi. Stava risalendo le scale centrali. Si allontanava. Tesi un braccio. Ero a dieci centimetri. Il mio indice cercava di sfiorarlo. Non ci riuscivo. La folla era troppa. Pregai di avere le braccia più lunghe in quel momento. Salii sulle punte dei piedi. I muscoli erano tesi allo spasmo. Chiusi gli occhi. Dovevo riuscirci, dovevo riuscire a toccarlo almeno per un istante. Volevo un briciolo di sogno. Volevo sentire sotto le mie dita un pizzico di quel cantante. Non potevo lasciarlo andare. Me ne sarei pentito per una vita intera. Era lì… a un palmo da me.
Saltai sulle mie punte…
Gli sfiorai la spalla…
Se ne andò…
Incredulo e pensoso, restai imbambolato per alcuni minuti al centro del palco. Sotto la stessa luce che lo aveva inondato, ora illuminava me.
Trattenevo le lacrime mentre mi allontanavo. Cercavo di avere un aspetto normale. Di lì a poco sarebbe iniziato il film e lì ancora altre emozioni. A bordo scala lo guardai andar via lentamente. Quel cantate che mi aveva cresciuto. Stranamente non vidi le porte aprirsi. Ligabue stava temporeggiando a circa metà della sala. Parlava con Maioli. Cercai di capire cosa stesse facendo e quando mi fu chiaro, restai a bocca aperta dall’incredibile sorpresa.
“No… non posso crederci… non puoi far questo!”
Calma. Relax.
Disteso sul letto pensavo al mio piccolo gruzzoletto da poco guadagnato in borsa.
“Non devo spenderlo in vestiti e puttanate tecnologiche” pensavo, mentre guardavo la mia mini-tastiera Bluetooth che soggiornava inutilizzata sul mio tavolino. Avevo un leggero mal di testa che da qualche giorno mi tormentava. Non voleva proprio lasciarmi in pace. Avevo bisogno di riposare. Dovevo recuperare tutte le ore perse nelle nottate passate davanti al pc. Chiusi gli occhi e cercai di dormire. Erano le otto di sera. Un orario molto insolito per dormire ma dovevo riuscirci. Cercai di non pensare a niente. Certi pensieri, a volte, mi tormentano fino all’alba. Abbracciai il cuscino e mi girai su un lato.
“Voglio starmene un po’ in pace… voglio dormire per tre giorni consecutivi… voglio…”
Biiiip…
“No… perché non spengo mai il pc?!”
Sporsi una mano dal letto cercando per terra il netbook nero. Lo afferrai e lo misi di fianco a me. Lo schermo s’illuminò e mi mostrò una finestra di chat.
Parigi… vuoi venire? Diceva il messaggio.
Presi gli occhiali per leggere meglio. Magari era uno scherzo. No, c’era scritto davvero Parigi sullo schermo.
Ed io dovevo rispondere…
Ho quasi 24 anni…
Ho quasi ventiquattro anni e non sono mai stato al di fuori dall’Italia. Sembra strano, sembra insolito, pensatela come volete, e non saprei nemmeno spiegarvi il perché.
A sentire tutti questi ragazzini che hanno già volato in ogni dove, quasi mi vergogno a dirlo. Alcuni di loro conoscono a stento il proprio indirizzo di casa e sono stati a Londra, Dublino, Barcellona… hanno viaggiato insomma. Viaggiato… senza nemmeno conoscere il loro punto di partenza.
A volte l’invidio quando raccontano le loro storie… e le mie storie (italiane) sembrano quasi briciole in confronto alle loro. Mi sento così piccolo… mi sento come un bambino che non è mai uscito di casa. Ed in parte è vero… perché porto addosso le stesse paure e gli stessi timori di quell’innocente ignoranza.
Ho paura…
Mi tormenta la paura dell’ignoto. Il timore di trovarmi in un posto sconosciuto… di perdermi e non ritrovarmi mai più. Mi spaventa il pensiero di essere “straniero”, di non riuscire a comunicare e magari infrangere qualche regola che non conosco. Per me il mondo finisce oltre l’orizzonte del mare che ho impresso nella mente sulle spiagge della Calabria… o sulle dolomiti del Trentino dove la fredda neve mi bruciava il viso. Non sono mai andato oltre. Ho visto tutto quello che c’era da vedere in questo pezzo di casa… o quasi… mi manca qualche isola e qualche regione, ma l’Italia la conosco bene. È come se conoscessi ogni stanza di una casa… una bella casa. Ho ammirato i quadri appesi e i lunghi corridoi… ho mangiato nelle diverse cucine e dormito nei diversi letti… ho conosciuto le persone che l’abitano e comunicato con i diversi accenti… ma un giorno mi sono affacciato al balcone di questa casa immaginaria e, guardando il mondo, ho capito che c’erano altre case da vedere, altre stanze da esplorare e altri sapori e profumi da gustare… non c’è un confine come la mia mente immaginava… è un tutt’uno… il mondo è un tutt’uno. Ma in passato, questo mi spaventava… come quella volta che…
Estate ‘06
Eravamo davanti al liceo nei giardinetti antistanti. Passavamo interi pomeriggi su quelle panchine di pietra nelle giornate d’estate. Faceva caldo, ma si stava bene all’ombra della grande magnolia al centro della piazza.
– Dai Ciro! Vieni anche tu! –
– No ragazzi! Ho detto di no! – Risposi a Mario per l’ennesima volta. Andava avanti così da almeno un paio d’ore. I miei amici si alternavano nel farmi la stessa identica richiesta: andare con loro in giro per l’Europa.
– Eddai… guarda che sei ancora in tempo a fare il biglietto… andiamo di corsa alla stazione e… –
– Ho detto di NO! Basta! – risposi con stizza ad Enzo seduto di fianco a me.
Luca stava fumando una sigaretta appoggiato al palo del gazebo in pietra. Guardava la scena divertito.
– Lasciatelo sta’! Se non vuole venire sono cazzi suoi! Chi se ne frega! –
Lo guardai con odio. Lui si divertiva a stuzzicarmi ma quella volta non gli diedi corda. Pensavo ad altro. La mia ostinazione cresceva ad ogni continua domanda e, se avessi ceduto, il mio orgoglio ne avrebbe risentito. A quei tempi avevo la testa più dura della roccia. Se prendevo una decisione, anche sbagliata, persistevo su quella strada fino alla morte. Niente poteva farmi cambiare idea. Niente…
– Va bene… ragazzi, che si fa? Andiamo? Fra poco dobbiamo partire… – disse Mario agli altri due.
– Si andiamo! Ciro, ci accompagni tu alla stazione? –
– Certo, salite in macchina. –
Cinque minuti dopo arrivammo alla stazione. I ragazzi presero gli zaini da campeggio dal bagagliaio e l’indossarono. Erano pronti. Iniziai a salutare Enzo con una stretta di mano e una botta sulla spalla.
– Divertiti… – gli dissi.
Salutai Luca stringendogli la mano e guardandolo negli occhi quasi volessi sfidarlo. Lui face un grosso sorriso seguito da una grossa boccata di fumo.
– Ritorna tutto intero… – gli raccomandai. Era uno stronzo, ma gli volevo infinitamente bene.
Mi girai verso Mario e lo guardai negli occhi.
– Ciro… – disse con aria delusa e mi abbracciò. – Vieni con noi… –
Sorrisi…
In quel preciso istante un pezzo di me crollò. La mia barriera cedette… avrei voluto urlare un si secco e conciso, senza pensarci. Volevo andare con loro… volevo partire… in quel momento gli avrei risposto di si. Qualcosa si stava muovendo nel mio stomaco e il mio cuore cambiò rotta. Solo la bocca doveva intervenire.
Mario mi guardò negli occhi:
– Ok… scusa se continuo ad insistere… c’ho provato… – Si girò e raggiunse gli altri che stavano entrando in stazione. Li guardai allontanarsi. In quel momento sentii un vuoto dentro. Un vuoto incolmabile, un vuoto che dovevo riempire al più presto… Un vuoto che forse non avrei mai compensato… Avevo perso quella opportunità per sempre… perché non avrei mai più avuto diciott’anni…
Tornai a casa con l’anima in panne e il cuore infelice.
Scrissi su un foglio: Non ripeterò mai più quest’errore…
Il portatile era sul letto. Passeggiavo per la stanza con la mia pallina rossa in mano. La conversazione era ancora aperta e un’icona lampeggiava. Dovevo scrivere qualcosa…
Andare a Parigi? In Francia… non riuscivo nemmeno ad immaginarlo. Non sapevo cosa rispondere. Stringevo la pallina nella mano. Misuravo la stanza con i miei passi. Su e giù, su e giù… balcone, porta… scrivania, letto. Andare o non andare? Partire o non partire? Mi sedetti su un cuscino per terra. Guardai la mensola davanti a me. C’era una foto appesa con un magnete. Mi ritraeva sotto una neve pesante. Me l’aveva fatta mio padre con una vecchia Pentax a pellicola. Allora non esistevano ancora le macchinette digitali. Mi piaceva tanto quella foto… perché mi ricordava quella volta che…
Inverno ‘99
Nevicava. Il freddo cercava di penetrare la mia pesante tuta da sci. Ero sulla seggiovia, solo. I miei genitori e i miei cugini mi stavano aspettando in cima. Come al solito, nella confusione della fila, mi ero perso. Salivo lentamente. Il cigolio del cavo d’acciaio a cui ero appeso mi rilassava, mi faceva dimenticare che sotto di me c’erano almeno cento metri di vuoto. Non ho mai avuto paura dell’altezza. Anzi… ho sempre voluto sfidarla. Tutto ciò di cui potrei aver paura mi piace sfidarlo. Ero quasi arrivato. Misi la maschera sugli occhi e abbassai il cappello. Impugnai i bastoncini. La seggiovia arrivò al capolinea. Scesi cercando di non cadere. Non volevo sembrare un dilettante. Ero in vetta a circa 3000 metri di quota. La neve era fantastica. Tirava un vento fortissimo. Se non avessi avuto la maschera non sarei riuscito ad aprire gli occhi. Mi spinsi avanti con i bastoncini. Arrivai ad uno spiazzo con un bivio di piste. Nevicava e non riuscivo a vedere bene le persone intorno a me. Cercavo i miei parenti ma riuscivo a vedere solo facce di gente sconosciuta. Sciai un po’ più avanti e mi trovai di fronte ad un cartello.
C’era una bandiera rossa con una croce bianca al centro e la scritta Svizzera sotto. Una freccia indicava la direzione. Davanti a me c’era il bordo d’inizio pista. Ero praticamente davanti a un confine. Se fossi sceso per quella pista sarei arrivato in Svizzera. Puntai i bastoncini nella neve come una sorta di ancora per le navi. Cercai di scrutare l’orizzonte. Tutto infinitamente bianco. Così indistintamente bianco che pensai che la Svizzera fosse tutta bianca. Dove giravano mandrie di mucche viola Milka e un’immensa fabbrica di cioccolato Novi. Ero curioso di vederla. Volevo vedere com’era fatto questo Paese tanto rinomato. Feci un altro passo in avanti. La pista stava per iniziare. Le punte dei miei sci erano staccate da terra per via della pendenza della pista. Volevo buttarmi… volevo sciare in un posto inesplorato. Volevo andare dove mi andava… volevo vedere e sentire… e anche io volevo raccontare di esser stato al di fuori dell’Italia.
Staccai i bastoncini dalla neve. Feci un gran respiro profondo e…
Una mano mi fermò la spalla…
– Dove cavolo vorresti andare?! – disse mio padre dietro di me.
– Da questa parte! –
– Di là si va in Svizzera… –
– Quindi? –
– Quindi una volta sceso, non saresti più potuto risalire con la seggiovia! Saresti rimasto lì… ed io ti avrei lasciato lì! Perché non mi stai mai a sentire quando parlo! –
Guardai di nuovo quel vuoto mentre mio padre mi faceva la ramanzina. Mi risuonarono in testa quelle parole: “non saresti più potuto tornare indietro!”
Ebbi paura e ritirai i miei sci. Dissi addio alla Milka e al cioccolato pensando che, in fondo, il cioccolato e il formaggio italiano non erano male. Dissi addio a quel bianco infinito. Restai con la curiosità insoddisfatta di sapere com’era il mondo al di fuori di questo confine…
Mi sedetti sul letto con la foto tra le mani.
“Quanto ero piccolo e ingenuo… Quanti problemi che mi facevo… e quanti guai che ho combinato! Quanti rimorsi…”
Guardai il pc sul letto.
Bip
Allora?
Feci un respiro profondo. Presi il portatile e lo misi sulle gambe.
– Allora… quand’è che si parte? – risposi senza battere ciglio.
Spam..
E la porta sbatté dietro le spalle di mio padre. Uscì con il suo solito nervosismo isterico che ormai fa parte integrante del suo carattere. Io ero lì e mia madre seduta sul divano che guardava la tv. Ennesimo litigio su futili motivi, era il tema della serata. Non ce la facevo più e avevo iniziato a discutere con mio padre in seguito ad una delle sue solite provocazioni. Ma lui come al solito non comprendeva mai il senso delle mie parole e si attaccava sempre alle piccole cose. Elementi marginali di una discussione incentrata su di lui. E rinfaccia… rinfaccia… Ti rinfaccia i tuoi errori, casomai capitati anni addietro, quando avevi ancora un’età poco matura.
Non lo sopportavo più… era un odio cresciuto negli anni. Di quelli radicati dentro la propria anima che non si staccano con una semplice “giornata felice”.
Non erano passati nemmeno due minuti da quando mio padre era uscito.
– Non vedo l’ora di uscirmene da questa casa! – dissi a mia madre.
– Ciro… – disse lei quasi sussurrandolo.
– Si! Hai sentito bene… non ce la faccio a stare ancora qui! –
– Perché? –
– Perché?! Il perché è appena uscito da quella porta! – dissi alzandomi con l’aria alquanto irritata.
– È fatto così… Ciro lo sai… –
– Beh… è fatto male… –
Stavo iniziando a innervosirmi. Tutto l’odio che provavo verso di lui iniziava a ribollire dentro di me, così me ne andai verso la mia camera, ma prima di uscire dalla cucina dissi:
– Mà… la famiglia è un posto in cui uno si deve sentire tranquillo e felice altrimenti come fa ad affrontare il mondo esterno? Non mi piace stare qui… non so che darei per starmene un po’ in pace… Si… ma ora basta… ne ho piene le scatole di discorsi… domani devo fare un esame… e non ho voglia di avere la testa occupata da queste stronzate… dopodiché me ne andrò il più lontano possibile! Notte… –
Mia mamma rimase per un attimo senza parole. Aveva un volto triste. Non dovevo prendermela con lei. Non centrava niente. Lei, come tutte le mamme voleva stare con i propri figli e sentirsi dire quelle parole da me, le fecero male. Io sono il suo primo figlio. Mi ha sempre trattato come una persona cosciente e mi ha sempre donato la sua fiducia. Sa che in ogni situazione sono capace di prendere la strada giusta e che ho principi che nessuno mai mi toccherà. Crede molto in me e non ha smesso anche quando, alle volte, la facevo arrabbiare.
Non glielo mostro, ma voglio molto bene a mia madre e credo che sarà la cosa che mi mancherà di più quando me ne andrò da qui… e credo che per lei sia lo stesso.
Flashback…
Ero sul treno Eurostar dell’una e mezza diretto per Milano. Ero seduto comodamente al mio posto e ripensavo a ciò che avevo appena fatto. Cercavo di discolpare me stesso.
“In fondo sto fuori solo un paio di giorni… Ora li chiamo e glielo dico..”
Ero uscito di casa senza dire niente a nessuno ed ero salito sul primo treno diretto per Milano. Molti si chiederanno “sei scappato di casa?” Beh… in un certo senso e per certi versi direi di si. Ma se volevo veramente scappare di casa, vi assicuro che l’avrei fatto in maniera definitiva. Questa, invece, era una sorta di gita fuori porta. Molto fuori porta considerate le 6 ore e mezza necessarie per arrivare a Milano. Ma i motivi di questa meta, sinceramente ora non mi va di riportarli… Come sapete, le parole fanno male ed io ne so qualcosa. Posso dire solo che ero andato a trovare una persona molto speciale.
Erano circa le 2 del pomeriggio e il treno andava verso la stazione di Roma. Prima di uscire avevo detto a mia madre che pranzavo a casa di Enzo, come spesso facevo. Avevo preso la mia vespa ed ero uscito di corsa con uno strano zaino in spalla. Mia mamma infatti mi guardò con aria sospetta. Quella borsa la diceva lunga perché non ero solito usarla quando uscivo con Enzo. Comunque, ero uscito così frettolosamente che non le diedi nemmeno il tempo di aprire bocca.
Roma Termini
Il treno si era fermato in stazione. Le porte si erano aperte e la gente stava incominciando a scendere. Presi in mano il mio cellulare. Era spento. L’avevo spento per evitare che qualcuno mi cercasse.
Lo accesi.
Il treno attendeva…
Guardavo il cellulare. Immobile, assorto nei miei pensieri.
Brivido.
Iniziò a squillare. Avevo un po’ di timore a rispondere ma appena vidi lo schermo mi passò tutto… era Enzo.
Risposi.
Enzo era l’unica persone che sapeva tutto.
– We! Come stai? E soprattutto dove stai? –
– Ciao Enzo… tutto a posto… sono a Roma… –
– Ciro… tu sei pazzo! –
– Già… –
– Senti… la vespa è qui da me… tutto bene… ma… –
– Ma? –
– È venuto tuo padre poco fa… era molto incazzato perché non ti trovava… –
– Cavolo! –
– Mi ha fatto mille domande… su dove fossi e sul perché la vespa fosse da me… –
– Che gli hai detto? –
– Niente! Tranquillo… ma… chiamalo… ok? –
– Ok Enzo… grazie… –
– Di niente Cì… e torna presto… –
– Non ti preoccupare… –
-Senti… me lo posso fare un giro con la tua vespa? –
– Assolutamente no! –
– Ok, c’ho provato… –
– Ciao Enzo… –
– Ciao Cì! –
Avevo riagganciato da poco che subito squillò di nuovo.
Questa volta era mio padre.
Risposi dopo un paio di squilli.
– Pronto… – dissi… ma non riuscii a finire la frase che mio padre iniziò ad attaccare.
– Ciro! Ma dove cazzo sei? –
– Roma Termini… sono su un treno diretto per Milano… –
Mio padre sembrò scoppiare.
– Scendi subito da quel treno!! MUOVITI! Ma come cazzo ti è venuto in mente!! MA lo sai quanto è lontano MILANO?!!? Muoviti! Scendi a Roma… ti vengo a prendere con la macchina… in due ore sono lì… –
– No papà… –
– Mannaggia **** ******! Ma come cazzo devo fare con te? Forza SCENDI da quel treno!!
– No…- dissi.
E Parlava bestemmiava, alzava la voce, faceva domande assurde e mi pregava di scendere. Ed io lo lasciavo fare. Non me ne importava gran che… e più continuava e più ero fermo sulla mia decisione. Fino a quando…
– …Guarda… hai fatto piangere anche tua madre! Ti rendi conto? Tieni… ora te la passo! –
A quelle parole mi salì il cuore in gola. “Cavolo Mamma”
La mia mamma era in pena per me.
– Pronto… -disse lei con un flebile tono di voce.
– Mà… –
– Ciro… ma che hai combinato? – disse cercando di mascherare le lacrime nella sua voce.
– Tranquilla mamma, sto fuori un paio di giorni… torno domenica sera… –
– Ciro… – non riusciva a parlare. Le lacrime le bloccavano le parole.
Stava male.
Ed ora anche io. “Certe cose non si fanno”.
Eppure mia mamma non è mai stata una di quelle mamma oppressive, nel senso che mi ha lasciato sempre molta liberà. Non avrei mai pensato di farla soffrire tanto. Pensavo che si sarebbe incazzata, come mio padre, e che fosse finita lì…
Ma invece era lì… Ad ascoltare le mie parole.
Le parole di suo figlio che s’era allontanato da casa più del dovuto.
– Mamma… tranquilla… – cercavo di confortarla.
E lei prendendo un po’ più di sicurezza iniziò a farmi le solite domande da mamma.
– Almeno hai mangiato? –
– Si mamma… qualcosa sul treno… –
– Stai bene? –
– Si mamma… –
– Ma dove dormirai? Cosa farai? Quando torni? –
– Mamma… devo andare… il treno sta ripartendo… –
– Chiamami appena arrivi… capito? –
– Ok mamma… –
– Ciao… –
E il treno ripartì… ed io tornai a sedermi al mio posto guardando la stazione che piano piano ci lasciavamo alle spalle.
Triste…
Perché avevo capito che quella mamma, in fondo, ci teneva molto a me…
31 maggio
Era l’ultimo giorno di un mese passato interamente a studiare. Quella mattina c’era la prova scritta di matematica dell’esame d’idoneità. Avevo già fatto quella d’italiano e di quella latino senza problemi. La prova di matematica invece era diversa. Lì la concentrazione dev’essere massima e devi saper eseguire tutti i passaggi, perché se ne sbagli uno, quelli successivi andranno di conseguenza. È un po’ come nella vita, se fai uno sbaglio, continui a sbagliare e gli altri non capiscono, perché spesso non vogliono saperne dei tuoi sbagli e sparano giudizi sui tuoi errori… e pensano che continuerai a farli per tutta la vita. L’unica via di uscita è cambiare vita, voltando pagina e ricominciando l’esercizio daccapo, sperando che la tua penna scriva ancora. La vita può essere paragonata ad una disequazione. Fai tutti i passaggi, semplifichi tutto e metti in evidenza le cose comuni. Ma alla fine, non sempre puoi trovarti con il delta maggiore di zero… e ricominci daccapo… cambiando le variabili… sostituendo le incognite e cambiando verso… cercando di uscirne da quella impossibilità. Ma non sempre ci riesci nella vita.
E il mio foglio era ancora bianco. Aspettavo che arrivasse il mio professore di matematica a consegnarmi le tracce. Ero calmo, almeno credevo, perché la penna nella mia mano continuava a girare vorticosamente. Guardavo la finestra cercando di non pensare a niente. Il tempo era bello e il vento scuoteva i rami degli alberi in continui ed alternati movimenti.
Ero solo in quella stanza, che a giudicare dagli scaffali pieni di libri sembrava proprio la biblioteca della scuola. In mezzo c’era un grande tavolo con intorno 5 sedie nere delle quali una era quella su cui ero seduto. Mi alzai, volevo camminare un po’ e iniziai a girovagare per la stanza.
Guardai gli scaffali pieni zeppi di libri. I miei occhi si soffermarono su quello di letteratura latina. Scorrevo l’ordine degli autori e iniziai a fare commenti su ognuno di loro…
Cicerone: “Cicerone… Cicerone… se potessi maledire qualcuno vissuto nell’antichità… tu saresti il primo della mia lista. Non puoi nemmeno immaginare quante sono state le ore passate a cercare di comprendere il senso delle tue frasi. Si vabbè… all’epoca eri un ottimo oratore… spero che almeno il tuo pubblico ti comprendesse.”
Orazio: “Il grande poeta del carpe diem che inneggiava alla fugacità della vita… mah… chissà quante volte sarà scappato di casa da piccolo. Dicono che non si sia mai sposato e che abbia dedicato tutta la sua vita alla letteratura… beh… contento lui!”
Catullo: “Magnifico poeta d’amore… quello del celeberrimo odi et amo… che tutti conoscono… ma che solo pochi sanno come continua finisce!”
Odi et amo.
Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Che tradotto è:
Ti odio e ti amo.
Come possa fare ciò, forse ti chiedi.
Non lo so, ma sento che accade e me ne tormento…”
– Buon giorno… –
Sentii una voce dietro di me e mi girai all’istante come se stessi facendo qualcosa di non permesso. Era il mio professore di matematica che aveva poggiato un malloppo di fogli sul tavolo.
– Buon giorno… – risposi con educazione e mi msisi a sedere.
Il professore mi guardò e fece un sorrisetto, continuando a sfogliare delle carte cercando qualcosa. Lo scrutai con attenzione. Ero calmo. Il foglio bianco era davanti a me e la penna nella mia mano. Mancava solo lui. Mancano solo le sue tracce. Chissà cosa mi avrebbe dato… Ero pronto a tutto… o quasi… ma era impossibile che mi avrebbe dato qualcosa sulla fisica quantistica o su qualche teorema vettoriale. “Cerchiamo di rimanere con i piedi per terra… eh?”
– Ecco Ciro… queste sono le tracce… 3 ore di tempo… la penna ce l’hai… tutto a posto… – disse facendomi un breve sorriso mentre mi passava il foglio.
Cominciai subito a ragionare leggendo uno dopo l’altro gli esercizi.
Disequazione Trigonometrica
Disequazione logaritmica
Equazione Esponenziale
Problema di trigonometria
Sistema di equazioni parametriche
Algoritmo d’informatica
Mha… all’apparenza sembravano difficili. Ma non era così. Infatti, uno dopo l’altro, feci tutti gli esercizi con tranquillità lasciando per ultimo la Disequazione Trigonometrica. Perché come sapete, le cose belle, si lasciano alla fine… belle e impossibili!
E dopo un paio di passaggi…
Non riuscii più a continuare. Mi ero bloccato.
“Il tutto sta nel semplificare le varie funzioni trasformandole in altre simili in modo da avere una disequazione omogenea… Beh… facile a dirsi! Cosa trasformo qui… vediamo…”
Giravo e rigiravo quell’esercizio. Sopra, sotto, destra, sinistra… Cancellavo, riscrivevo… ma niente…
C’era qualcosa che non andava. Qualche piccolo cavillo si nascondeva…
E finalmente lo trovai..
Era un piccolo “1” che restava lì immobile.
“Poverino… non dava fastidio a nessuno… ma se lo porto di qua.. e lo trasformo… ottengo…”
E via…
La penna scorreva velocemente. I numeri venivano facili…
Le operazioni si susseguivano sempre più semplici… segno che la fine era vicina… ed infatti…
Eccola lì…
Il compito era finito. Tutto era al suo posto. Mi girai verso il professore cercando il suo sguardo. Ma lui era affacciato alla finestra che guarda all’esterno fumando una sigaretta.
Quel professore era sempre stato un assiduo fumatore di Marlboro rosse rigorosamente da 20! E portava sempre con se un pacchetto di riserva nel suo borsello, perché non poteva restarne senza.
Si girò, mi guardò e disse:
– Hai finito? –
– Si… –
Guardò l’orologio e venne verso di me. Era un po’ stupito dalla mia rapidità. In fondo non era passata nemmeno un’ora..
Era dietro di me. Avevo il foglio davanti con gli esercizi svolti. Diede un rapido sguardo.
Poco dopo, si allontanò dicendo: – Ricontrolla… –
– Ok… – dissi pensando che me lo dicesse solo perché era troppo presto per consegnare.
Quindi ricontrollai velocemente e lasciai passare un quarto d’ora facendo disegnini sul banco.
– Ho controllato… – dissi con la fretta di consegnare.
– Hai corretto? –
– mmm… no… –
– C’è un errore… – mi disse.
– Non so dove sia… –
Il professore si girò verso di me con aria benevola.
– Controlla la disequazione logaritmica… –
Abbassai subito lo sguardo sul foglio cercando quell’esercizio. L’avevo fatto per primo perché era il più semplice. Avevo commesso un errore?
Controllai i passaggi:
Dominio… ok
Verso… ok
Incognite… ok
Base?
”Cavolo! la base del logaritmo è minore di zero!”
“Come ho fatto a non notarlo! È una disequazione… quindi si cambia verso…”
Ecco, avevo trovato l’errore. Tutto regolare… o almeno speravo che fosse così.
Ricopiai in bella… e consegnai. Subito il professore aprì il mio compito. Controllò quell’esercizio e fece un sorriso come per dire: “bravo…”
– Ok… puoi andare… ci vediamo per gli orali… preparati… –
– Va bene professore… arrivederci… –
E lo lasciai così.. seduto in quella stanza che riordinava le sue carte.
Scesi di corsa pensando che anche questa era andata.
Salutai il segretario, come al solito molto simpatico.
Via..
Ipod nelle orecchie..
E testa sgombra dai mille pensieri…