Frammenti di vita #82

casa annalisa

triiiinn

Suono il campanello

Dopo pochi secondi sento i passi di quella che sicuramente sarà Annalisa. Mi apre.
– Ciaoooo – mi abbraccia forte.
Il suo saluto è sempre il più caloroso.
– Ma cos’è sta barba! – mi chiede subito.
– Sai che non me la taglio quando ho gli esami… –
– Sembri quello di coast away! –
– Mi manca solo un amico immaginario con cui parlare – rispondo.

Mi lascia solo.
Mi accomodo sul divano. La sorella è in cucina. Saluto anche lei.
Guardo la casa…
E’ una bella casa in uno di quei vecchi viali milanesi. Mi sarebbe piaciuto abitarci.
Insieme ad Annalisa poi…
Il prototipo della perfetta coinquilina.

– Ciro! Ho una grandissima novità! –
– Su amazon hanno iniziato a vendere cibi bio? –
– No! Stasera si tromba!! – disse battendomi il 5.
– Che signora che sei! La femminilità dove l’abbiamo lasciata? Su! Un po’ di contegno! – dissi con sarcasmo.
– Non rompere! –
– Su.. dimmi.. chi è il fortunato? –
– Un tipo strano.. ma simpatico.. ancora niente di serio.. anche se vorrei… bah.. chi li capisce sti maschi… –
– Chi ti capisce a te! Sei la persona più socievole ed estroversa del mondo ma a volte fatico a capirti anche io! – dissi.
– Eh lo so cì… cioè lo so… ma non lo so… –
(mano sulla testa)
– Vedi di farglielo capire stavolta a questo tizio cosa vuoi! –
– Vedrò… intanto aiutami a scegliere cosa mettere stasera! –
– Eh? Mi hai preso per il tuo “amico gay”?!?! –
– Scemo dai! Aiutami! Tu sei l’unico che mi dice davvero come sto! –
– Si ma il mio cinismo va usato solo in ambito eterosessuale! –
– Aspettami qua! –

Accesi la tv, mentre Annalisa si cambiava nell’altra stanza.
Voleva far bella figura stasera con il ragazzo di turno.
Forse ci teneva davvero a questo ragazzo. Forse non era una storia passeggera…
– Allora come sto? – disse presentandosi sull’uscio del salotto.
– Bene.. bene….  la camicetta è orribile… ma il resto va bene… –
– Dai Ciro! Questa è di lino! l’ho presa in una boutique… non capisci niente! – rispose e tornò a cambiarsi.
Sorrisi. Questo gioco sembrava divertente.
Annalisa tornò subito dopo con una maglietta nera.
– Stai scherzando vero? – le dissi serio.
– Perché!? –
– Vai di la e togliti quella cosa! Non hai più quindici anni! Su! –
– Ma l’ho presa ad un concerto! Mi piace! –
– E tu la vorresti mettere per uscire fuori a cena con un ragazzo? –
– Uff… –

La vidi andarsene. Sorrisi di nuovo.
Cercavo di capire cosa passasse nella testa di quella trentenne.
Ogni tanto se ne usciva con strane pazzie…
Conoscevo tutti i suoi “amori” iniziati e poi sempre sfumati. Ogni volta mi raccontava e concludeva con – Ciro… che devo fare? –
E ti piange il cuore quando gli occhi della persona più solare del mondo s’intristiscono.
“Ti devi fermare Anna… tu vuoi viaggiare… stare in giro… prendere e partire da un giorno all’altro… in qualsiasi momento e con chiunque…
capisci che è difficile costruire una storia con una che sparisce per una settimana perché sta in Thailandia con qualcuno conosciuto alla fermata del tram?
… quindi… o ti fermi… o trovi qualcuno che ti segua…” le dissi quel giorno.
Erano parole dure… ma che solo io potevo dirle.
Spero che le abbia capite.

Usci di nuovo dalla camera da letto.
– Come sto? –
– Bene… stai bene… così lo stendi! –

Dissi… anche se, nella mia mente giravano mille ipotetici difetti. Ma per questa volta… lasciai perdere…

 

Corsi e Ricorsi Storici (IV)

Tram 23

(Foto personale)

Il 23 lo considero il più bel tram di Milano. Lo amo così tanto che non si contano più le volte in cui feci da capolinea a capolinea senza uno scopo preciso. E’ un tram della fine degli anni ‘20 rimasto esteticamente e costruttivamente come allora. L’interno è interamente rivestito in legno come d’uso all’epoca. Niente tecnologismi moderni come quelli dei nuovi serpentoni. Vero e proprio acciaio sferragliante in un’elegante carrozza decorata. Mi emoziono sempre a starci su. Quando chiudevo gli occhi o restringevo il campo alla sola visione dell’interno del tram, sembrava che un secolo di storia non fosse mai passato. Tutto quel legno… le plafoniere dei lampadari decorate… i vecchi avvisi vetusti… e lo stesso cigolare, rumoreggiare, scintillare d’un tempo…
Annalisa era seduta accanto a me sulla panca in legno scuro. Il 23 scricchiolava nelle curve. Le ruote stridevano sui binari d’acciaio e il rumore penetrava da alcuni finestrini aperti.
Eravamo riusciti a prendere l’ultimo tram della notte. Pur sapendo che io odio prendere l’ultimo tram della notte.
L’una era passata da un pezzo e Milano s’era colorata d’arancio con le luci dei lampioni. Annalisa mi raccontava del suo flirt momentaneo, lamentandosi della stronzaggine di certi uomini. Non le davo torto, ma nemmeno ragione. Anche le donne hanno le loro colpe a volte. Lei intanto continuava a raccontare. Ogni tanto però, le elargivo qualche pizzicotto gratuito nel fianco, quando mi diceva di essere caduta in defiance, come spiegazione della sua momentanea “disponibilità” verso M. Le spiegai, (senza mezzi termini che qui userò per non essere volgare) che concedersi a un ragazzo fidanzato era, come dire, da:
–  Zoccola! –
–  Cirooo! Ma come ti permetti! – urlò.
Mi diede un leggero schiaffo sulla guancia.
–  Non è come pensi… in fondo è un ragazzo che mi piace. Vorrei che… –
–  Vorresti cosa?! Tu speri troppo! Quello viene qua a Milano per, come dire, haicapito, e poi se ne va! Senza nemmeno farsi sentire! –
–  Già… come devo fare. Non riesco proprio a dirgli di no… –
–  Aaahhh… –
Il 23 si fermò alla nostra fermata. Casa di Annalisa non era molto lontana. Percorremmo un piccolo tratto di strada a piedi. La zona dove abitava era fantastica. Perfetta per il suo stile da ragazza vintage. Palazzi antichi, mattoni rossi, merlature e balconi caratteristici. Ogni palazzo aveva un suo disegno particolare. Una sua storia…
–  Eccoci qua. –
Annalisa aprì il portone d’ingresso. Era la prima volta che mettevo piede in casa sua.
–  Togliti le scarpe. – mi disse.
–  Cosa? –
–  Hai capito! Qua ci sono le ciabatte per la casa… –
Dovevo aspettarmelo da una ragazza maniaca della pulizia. Indossai a malincuore quelle ciabatte di una misura più piccola e mi avvicinai alla stanza di Annalisa, dando un’occhiata in giro.
La casa era di vecchia costruzione. Pareti alte e finestroni me ne davano la conferma. La cucina era piccola ma accogliente. Girai a sinistra ed entrai nella camera di Annalisa.
–  Prendi Ciro, questo è il tuo pigiama! –
–  Verde? Detesto il verde! –
–  E questi sono i pantaloncini… –
–  Mmm femminili! Mi faranno un bel culo… –
–  Scemo! –
Mi cambiai in bagno e ritornai in stanza, sentendomi leggermente a disagio in quei vestiti.
–  Ecco fatto! – esclamai, – Dove dormo? –
–  Qui! – disse Annalisa indicando un futon.
–  Cosa? Io non vedo letti… quello non è un letto… voglio un letto! –
–  Su, non ti lamentare che è comodissimo! – rispose Annalisa.
Scossi la testa e mi stesi a fianco a lei. Tastai la morbidezza di quella sottospecie di letto con una mano e guardai con aria di rimprovero la mia amica.
–  Domani mi devo svegliare presto perché devo partire. – disse Annalisa, aggiustandosi le coperte.
–  A che ora hai il treno? – domandai con tranquillità.
–  Non ho fatto ancorai il biglietto… – rispose guardandomi con timore.
–  ANNAAAA – gridai mentre lei si copriva le orecchie.
–  Ma sì! Domani troveremo sicuramente qualcosa in stazione! –
–  Troveremo? Io non corro per mezza Milano per la tua irresponsabilità! – le dissi.
–  Dai Cì… Dobbiamo convincere anche Lia a venire. Non vuole partire domani perché lavora.-
–  Aaaaahhhh –

Qualche ora dopo, nel cuore della notte, aprii gli occhi.
Annalisa era lì che dormiva tranquilla di fianco a me.
Il suo volto era rilassato e il respiro lento e costante.
 
Come fai? pensai.
Come fai scrollarti tutte le ansie di dosso in un baleno.
Tutti i pensieri…
Tutti i problemi della vita…
Come fai? Sono anni che ci provo…
T’invidio amica mia…
Invidio quella tua spensieratezza e quella tua aurea sempre raggiante, anche nei momenti più bui. Non lo sai perché non te l’ho mai detto…
Ti urlo contro, ti critico, ti prendo in giro…
Ma vorrei avere almeno un pizzico della tua incoscienza a volte…
Vorrei non pensare e vivere la vita giorno per giorno come fai tu…
Invece, i miei giorni sono programmati fino al 2015…
So sempre cosa fare e penso sempre al piano B.
Sono fatto così… non riesco a cambiare…
Per questo penso che qualcuno lassù mi abbia mandato te a stravolgere tutti i miei piani…
Per rendere la mia vita più curiosa di essere vissuta.
Non lo saprai mai… ma adoro le tue pazzie…
 
Sei la sorella maggiore che non ho mai avuto.

Buonanotte Scema…

continua…

Galleria d’Arte ##11

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Piove… (Sara I)

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Pioveva…
Pioveva in quella piccola città. Le nuvole sembravano non voler smettere più. Di acqua dal cielo ne scendeva un’infinità mentre i passanti cercavano un riparo. Era notte, e mi aggiravo tra le strade in cerca di un rapido spuntino. Il McDonald di Porta Venezia era lì che mi aspettava in fondo alla strada. Vedevo la scintillante insegna mentre alcune gocce mi colpivano il viso. Il giubbotto di pelle sembrava ripararmi a dovere. Ormai era abituato. Ne aveva presa tanta di acqua in passato proteggendomi da numerosi malanni. E certe volte mi ha protetto anche da me stesso. Quando uscivo di casa con la coscienza sporca e nascondevo la mia faccia dentro al suo cappuccio.
Una sirena iniziò a suonare alle mie spalle. Mi girai di botto. Era un’autoambulanza che stava facendo inversione in mezzo al traffico per poi fuggire nella direzione in cui stavo andando. Correva. Anche se la strada era tutta bagnata. Era un po’ pericoloso per i miei gusti. Anche se molto spesso, devo confessare che lo facevo anche io. Mi diverte molto il rischio… mi diverte l’imprevedibilità…
Entrai nel McDonald. Strusciai i piedi sul tappeto e tolsi il giubbotto. Mi guardai un po’ intorno intravedendo quelle quattro persone dai volti assenti. Mi diressi verso il banco e ordinai il mio solito menù. E mi assicurai, come ogni volta, che dentro al panino non ci mettessero i cetriolini. Sono fatto così… anche se sapevo che non ci sarebbero stati… domando sempre. Magari qualche cinese non sa leggere le ricette e ce li mette dentro! Chi lo sa? Vabbè… mettendo da parte le mie paranoie sui cetriolini, presi il mio vassoio e andai al solito posto. Un “posto finestrino”… come lo definivo io. Mi sedetti e incominciai a mangiare. La pioggia continuava incessantemente il suo lavoro. Ed io da una sorta di vetrina al contrario, osservavo questa specie di film in cui gli attori scappavano dalla scena… le macchine correvano.. i passanti aspettavano il loro verde per poter attraversare.. i loro ombrelli erano zuppi e la strada piena di pozzanghere… pioveva… e le gocce bagnavano il vetro… 
Proprio come quando lei piangeva…
 
 
 
 
…Molto tempo fa…
 
 
 
Ero seduto alla panchina della fermata di un autobus urbano. Ero sceso da poco ed aspettavo che arrivasse la persona che dovevo incontrare. Erano da poco passate le 4 di pomeriggio, ma sembrava sera poiché le nuvole erano talmente scure da non far passare il sole. “Sicuramente verrà a piovere” pensai, mentre volgevo lo sguardo al cielo. Alle mie spalle c’era la villa comunale e si sentiva la gente chiacchierare allegramente mentre passeggiava. Avevo imparato a conoscere Benevento da poco. Da quando mi ero trasferito in quella scuola. E lì avevo fatto nuove amicizie. Si sa… negli anni del liceo si fanno le amicizie migliori. Quelle che ti accompagnano per un bel pezzo di vita e non ti mollano più. Certe volte però, quelle amicizie non provengono dalla scuola in cui hai passato gli anni migliori ma si accodano alle altre, arricchendo la lista delle persone su cui poter contare.
Il mio telefono squillò.
Sms
“scusa il ritardo… sto per arrivare… ciao”
Staccai lo sguardo dallo schermo del mio piccolo 6600 tutto colorato di nero. Tornai a fissare le macchine con l’occhio di chi cerca qualcosa. Non sapevo come sarebbe arrivata e non sapevo nemmeno da dove.
Guardai a destra e sinistra seguendo la scia degli autobus. Le macchine scorrevano lente incastrandosi come pezzi di puzzle in una via multicolore. Una goccia mi colpì il dorso della mano. Mi asciugai con un lembo del giubbotto. Alcuni pensieri attraversarono la mia mente come un treno in corsa. Pensieri tristi e malinconici che solo una goccia di pioggia avrebbe potuto scatenare. Mentivo… mentivo a me stesso per sentirmi bene e speravo che un giorno tutte le cose si sarebbero sistemate. Perché? Quando? Dove mi avrebbe portato quella strada che avevo intrapreso? Chiusi gli occhi per un istante cercando di dimenticare. Ma nemmeno il buio poté contrastare l’assordante rumore dei miei problemi. Di solito avevo un metodo per risollevarmi un po’ da qualche casino in cui ero immischiato. Guardavo il tutto con un’ottica di una persona esterna. Alienandomi dalle situazioni spiacevoli e dalle complicazioni… e ridendone a volte. Passavo intere serate con la mente sgombra… vivendo giorno per giorno… attimo per attimo. Ma quando il tutto toccava di nuovo quota zero, allora si che entravano i casini. Mi richiudevo in me stesso lasciando che la vita bussasse alla porta che raramente aprivo. Aspettavo che la persona giusta entrasse. Ma si sa… le persone giuste… sono difficili a trovarsi.
 
Toc toc
 
Una mano leggera bussò alla mia spalla. Mi girai di scatto e vidi Sara in tutto il suo splendore.
– Scusami per il ritardo… – disse, come colpevole di qualcosa di grave.
Si sedette vicino a me, su quella panchina di una fermata di un autobus urbano.
Si sistemò la gonna e si mise più comoda.
– Allora? Come mai da queste parti Ciro? –
– Avevo voglia di farmi un giro… –
– Tutto bene? – mi chiese con una voce seria. Ed io, nel mio solito giro di menzogne, dissi anche a lei che andava tutto bene. Ma Sara era una ragazza diversa. Sara non ci credeva. Sara sapeva già tutto anche solo dal mio sguardo. E mi guardò negli occhi mentre le dicevo che andava tutto bene.
La mandò giù, almeno per il momento e sdrammatizzò. – Dai facciamoci un giro… – mi disse, perché erano le sole parole che in quel momento volevo sentirmi dire.
– Tutto bene a te? – le chiesi.
– Bè… mica poi tanto… Sto riflettendo un po’ su questa storia… con il mio ragazzo… –
– Già… è proprio il momento adatto per parlare di storie d’amore… – Le dissi fingendo di grattarmi la testa.
Lei sorrise…  – Non navighiamo in belle acque! –
– Le acque non sono un problema… è il vento… la tempesta… i fulmini che ti cascano sulla testa all’improvviso da tutte le parti… –
Sara sapeva dove volevo arrivare. Aveva visto molte volte i miei occhi dissolversi nel vuoto alla ricerca di qualcosa di vago e profondo. Come in quel momento. Avevo dentro di me un fiume in piena che aveva voglia di uscire… di sfondare ogni cosa… tutto e tutti e liberare il mio essere dall’ostile peso che avevo sul cuore. Ma nella bocca c’era qualcosa che mi bloccava. Come un tappo messo in gola da qualcuno d’ignoto che non mi permetteva di sfogarmi liberamente. Era l’esperienza che mi bloccava… era l’esperienza di brutte amicizie e di persone non troppo fidate a cui ho confidato preziosi segreti. Pentendomi. Ma Sara non era così… e ne ero ben cosciente. Dovevo solo convincere il mio istinto a fidarsi di lei.
 
Percorremmo il corso principale. Qualche gocciolina di pioggia si sentiva qua e là senza dare troppo fastidio. Avevo indosso il mio giubbotto che mi proteggeva e mi teneva al caldo mentre lei, solo a guardarla, mi faceva venire i brividi di freddo.
– Non senti freddo? – Le chiesi
– Na… per niente… – (attimo di silenzio)
– Scherzavo! Sto morendo di freddo! Ho fatto male ad uscire così leggera. – disse sfregandosi le braccia.
Così mi tolsi il giubbotto e glielo offrii. Sotto, avevo una di quelle felpe con il cappuccio che mi avrebbe riscaldato ugualmente. Lei non lo accettò subito ma sfiorando il mio caldo giubbotto cambiò idea e disse.
– Ok… ma te lo ridò subito! –
Adoravo la sua sincerità. Adoravo il fatto che non sapeva mentire. Era una ragazza che all’apparenza sembrava una delle tante. Ma la sua parte nascosta, la sua indole, il suo carattere, erano cose preziose che solo poche avevano.
Giungemmo al nostro posto. Nostro… per modo di dire. Era una panchina che ci piaceva parecchio. Circondata da palazzi ma immersa nel verde… seminascosta da sguardi indiscreti. Un posto ideale quando hai voglia di parlare con qualcuno.
– Allora? Come mai è così tanto che non ti fai sentire? –
– Ho il telefono fuori uso… –
– Smettila… ora fai il serio! Dai… so che c’è qualcosa che non va… –
– Lo sai? E come lo sai? –
– Dal tuo odore… puzzi di “qualcosa che non va”! –
Ridemmo…
Una cosa era certa: “era la migliore… a saper sdrammatizzare…”
 
E tra una cosa e l’altra partì il mio racconto. Lei stava ad ascoltarmi silenziosa aspettando impaziente il suo momento. Le raccontai della storia con Erika e della sua inevitabile fine. Le raccontai dei miei genitori, delle guerre in casa e fuori… e le parlai della scuola dicendole:
– …l’ho lasciata… –
Lei sgranò gli occhi in modo eccessivo come se le avessi annunciato la morte di qualcuno. Ma subito si riprese e balbettando impercettibilmente disse:
– I tuoi lo sanno? –
– Certo che non lo sanno… continuo a mentirgli… –
E lei capì… non chiese come mai e perché si fanno certe cose. Si fanno e basta… è un misto di eventi che ti portano a una conseguenza irreparabile. Risalire al principio, percorrendo a ritroso un cammino sbagliato, non è una buona scelta per risolvere il problema. È solo una pugnalata in più al cuore e forse non una, ma due, tre, quattro… fino a quando non senti un peso sul collo che risale velocemente verso il centro della fronte… e da lì scende giù… sotto forma di lacrime. E in quel momento… non puoi proprio più fermarti.
L’ho voluto dire lo stesso a Sara… anche se lei non me lo chiese esplicitamente. Volevo che almeno lei fosse a conoscenza del peso che avevo addosso. Forse sbagliavo, perché vedevo il suo volto assorbire le mie parole e farsi pian piano più triste.
Feci un sospiro..
Tirai i piedi sulla panchina… abbracciai le gambe e poggiai la testa sulle ginocchia.
– C’è stato un tempo in cui credevo… – le dissi.. – …che le cose sarebbero andate per il verso giusto… –
E lì non resse più…
 
Una lacrima scese dai suoi occhi..
piccola e leggera percorse tutto il viso…
il suo sguardo era mutato…
non so se aveva compassione di me o cosa..
so solo… che mi sentivo colpevole…
 
 
 

Torno tra un momento… cerco un argomento…

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Sapete perché amo la vita? Per la sua imprevedibilità. Non si sa mai ciò che può succedere mentre stai comodamente seduto a giocare con la tua pallina preferita. Le persone cercano sempre di prevedere il futuro, ma nessuno ha la sfera di cristallo o la palla numero 8 delle risposte. Credo che non bisogna pensare al futuro… perché tutto può succedere… cose belle, ma anche cose brutte. Ciò che bisogna fare, è sperare in positivo lasciandosi alle spalle i brutti pensieri. Alcuni credono nel destino. Credono che tutto sia stabilito da una forza maggiore, e che nulla sia attribuito al caso. Credono che ogni momento della vita, sia pure il più imprevisto possibile, sia stato programmato da qualcuno… o qualcosa… o chicchessia…
Naa…
Per me la vita è come una pallina rossa. Non rotola mai nella direzione in cui vorresti. Non è lei a rincorrere te… ma tu a doverla assecondare correndole dietro per afferrarla. Anche se lei sale in un Eurostar diretto delle ore 10.
Può sembrare strano… ma la mia storia con lei, cominciò con un “No!”

(carrozza 7 di un treno diretto)

– No… Ciro… No…-
– Che succede? –
– No… no… no! –
– Ho fatto qualcosa che non dovevo? – dissi con aria furbesca.
– Non dovevi essere qui! –
– Non sei contenta che io sia qui? –
– No! Cioè… si… ma no! –

Sembrava confusa. Qualcosa l’aveva turbata… o per meglio dire, qualcuno. Qualcuno che non doveva essere lì, a quell’ora, su quel treno, a disturbare la lettura del suo Focus.

– Non dovevi! Ti avevo detto di non farlo! –
– Sbaglio o avevi detto: “non venire alla stazione di Napoli” e sottolineo Napoli. – dissi chiedendo conferma con la testa all’amica seduta affianco a lei.
– Si ma… –
– Ma! Ma! Primo: non credo che questa sia una stazione. Le stazioni di solito hanno tanti binari… questo ne ha uno solo e sembra muoversi… naa… non è una stazione… credo che sia un treno… Già! Sono sicuro che sia un treno! – dissi con aria ironica rivolgendomi ogni tanto all’amica che mi dava ragione.
– Quella credo che sia una stazione… – dissi indicando, fuori dal finestrino la stazione di Roma che da poco avevamo abbandonato.
– Ma credo che nemmeno quella sia la stazione di Napoli… quindi tecnicamente, non sono alla stazione di Napoli… e tu mi avevi detto di non venire alla stazione di Napoli centrale… quindi… non ho fatto niente di male! –
– Giusto… – disse l’amica rivolgendosi a Francesca.
Francesca era girata verso il finestrino e guardava fuori con aria quasi furibonda. Ogni tanto sbuffava per farmi percepire la sua irritazione. Aveva le braccia conserte come la piccola faccina che usava spesso su internet. Io ero seduto di fronte a lei. Ci separava solo il tavolino di quel lussuoso Eurostar che entrambi tenevamo aperto: io per appoggiare il mio Ipod e i miei occhiali da sole, lei il suo focus e il suo cellulare. L’amica, di nome Imma, appariva alquanto divertita nel vederci. Francesca ripeteva quasi a intermittenza un “no” secco e conciso. Io, invece, cercavo di cambiare discorso tentando di farle passare l’arrabbiatura. Sembravamo due acerrimi nemici che si odiavano a morte. Credo che se avesse avuto una mazza da baseball a portata di mano me l’avrebbe data diritto sulla testa. “Non sarei dovuto essere lì…” pensavo. Era passata mezz’ora e lei continuava a fare l’indifferente con me; a parlare con Imma facendo finta che non ci fossi; a fare azioni per ripicca e ripetere: “No! No! e No!”. Avevo fatto una cazzata e ora me ne stavo rendendo conto, e forse stavo anche rovinando un’amicizia. Così presi e me ne andai…

– Dove vai ora?! –
– Faccio un giro… vedo se su questo treno ci sono persone più simpatiche ed amichevoli… ciao! –
– Fai pure… – disse lei indifferente.
Così, spinto ancora di più dal suo atteggiamento, presi la mia borsa e mi diressi in fondo alla carrozza. Ero convinto di andarmene… mentre le porte scorrevoli si chiusero dietro di me.


Flashback:
Ciò che successe prima…
“Una mattinata particolare”

Spesso la vita ci spinge a fare cazzate. Azioni che per quanto studiate e progettate a dovere vengono sempre definite “irrazionali”.
Irrazionale.
Quanto amo questa parola. La vita per me è descritta a pieno da quel sostantivo. Un qualcosa che non si lascia ridurre entro gli schemi della ragione. Niente regole prestabilite… niente orbite in cui girare… niente di niente… È come il vento che corre nel cielo trasportando con se una piccola fogliolina appena staccata dal suo ramo.
La vita è fatta di difetti: problemi, caos, niente è perfetto. “Le vite nei film sono perfette” sosteneva qualcuno, ma nemmeno in quelle credevo più. Anche quelle erano imperfette… con momenti sbagliati su sfondi irreali. La vita è come una sfera su un piano tortuoso… Non saprai mai dove rotolerà.
Ops
“la mia pallina… dove cavolo è andata a finire?!”

Ero nella mia piccola stanzetta, intento a guardare fisso l’orologio con lo sguardo impaziente di chissà quale avvenimento. Facevo rimbalzare nell’aria la mia piccola pallina rossa riprendendola, poi, con l’altra mano. Ma qualcosa non andò, e quella piccola e impertinente pallina pazza mi scivolò dalle mani finendo chissà dove. Non riuscivo a trovala! Ero chino per terra a cercare sotto la scrivania pensando che fosse andata ad incastrarsi, come al solito, nei cavi dell’alimentazione del pc. Niente… non era lì. Chissà quale strano rimbalzo aveva preso. Guardai l’orologio. Mancavano tre minuti alle otto di mattina. Questo mi fece ricordare che ero terribilmente in ritardo. Tutto era pronto. Tutto era stato perfettamente programmato a dovere. Mancava solo lei… Quella maledetta pallina rossa!
– Ma dove cavolo sei?! – dissi ad alta voce non curante che qualcuno potesse sentirmi. E infatti…
– Ciro cosa cerchi? –
– Niente mamma… niente… solo quella maledetta pallina! –
– Ciro… è una pallina! –
– Si… questo lo sapevo… dimmi qualcosa che non so… –
– Ciro… io vado a lavoro… Torno per mezzogiorno… ciao… –
– Si si… ciao… ma dove cavolo è andata a finire! –
Mia madre chiuse la porta dietro di se con un aria alquanto sconcertata. Mio padre avrebbe detto sicuramente: “20 anni buttati sul pavimento”. Menomale che quella mattina era uscito presto e non l’avevo beccato in giro per questa manciata di stanze.
“Devo muovermi a trovarla! Non posso andarmene senza di lei!” Guardai un po’ più in là, in un posto impensabile dietro un angolo remoto. Era lì quella maledetta! La presi e la infilai al volo nella borsa. Chiusi e guardando la scrivania ricapitolai mentalmente gli oggetti che dovevo portarmi.
“Ipod? C’è… Cellulare? C’è… Portafoglio? C’è… della pallina non ne parliamo… e poi? Che mi manca? Ah! I Biglietti! Eccoli… tutto regolare… si parte!”

La mattinata era iniziata più movimentata del solito. Non facevo altro che correre a destra e sinistra della casa dalle sette e mezzo cercando di dare il meno possibile nell’occhio. I miei genitori non dovevano sapere del mio “piano” altrimenti avrebbero fatto troppe domande a cui non ero preparato a rispondere. Un po’ come ad un’interrogazione di geografia, se non sai dove si trova Varsavia è inutile girarci in torno, la maestra lo scoprirà. Ecco… io ero quell’alunno che quel giorno non aveva fatto bene i compiti e quindi era, per così dire, fuggito da “scuola”. Ma lasciando stare scuole e ramanzine, ero seduto alla fermata del pullman godendomi questo breve attimo di tranquillità.
Calma…
Respiravo…
Sentivo l’aria del mattino che mi entrava nei polmoni e che aveva quel gusto particolare che solo la tenera ora sapeva darmi. Silenzio… non passava nemmeno una macchina… tutto sembrava essersi fermato davanti a me… anche il vento aveva smesso di soffiare. Chiusi gli occhi e sentii le macchine che si avvicinavano in lontananza, il vento che mi accarezzava i capelli e il fischio di un treno che mi fece destare dai miei pensieri.
Il pullman era arrivato. Si aprirono le porte… salii.

Napoli (bambolina Torno tra un momento)

                                                                                                                          (Foto: Napoli)

Come sempre non mi sono mai fidato dei pullman. La loro puntualità è sempre stata, come posso dire, inesistente. A volte quando prendevo il mio Fbn per andare a scuola ero costretto a continue corse per evitare di rimanere intrappolato nella chiusura delle porte che quel maledetto vicepreside alias: “guardia svizzera del cavolo”, chiudeva sempre allo scoccare delle otto. Quella volta però, ero stato più furbo della società Metrocampanianordest, poiché avevo preso il pullman dell’ora prima così da arrivare puntuale alla partenza del treno che mi attendeva a Napoli. Secondo me, dovrebbero ritoccare tutti gli orari di arrivo visto che fanno puntualmente sempre ritardo. Ormai il traffico a Napoli era un dato di fatto. Non si poteva evitare… nemmeno i motorini ci riuscivano più! Misi da parte le autolinee e mi concentrai di più sui problemi del momento. Primo: fame. Ero uscito da casa così in fretta che non avevo avuto il tempo necessario per fregare l’ultima tazzina di caffè a mia madre. “Dannazione!”. Lo stomaco brontolava caffeina ed era passato troppo tempo dall’ultima dose. Dovevo rifornirmi… e si sa, alla stazione di Napoli, puoi rifornirti di ogni genere di cosa, ma per adesso bastava solo un cappuccino. Così mi diressi al bar sulla sinistra cercando di evitare i soliti passanti che ti chiedevano gli ultimi spiccioli per comprarsi il biglietto del treno. La macchina della polizia era parcheggiata al solito posto ed ogni volta mi chiedevo: “Cosa cavolo ci fa una macchina in una stazione?”. Mha… domanda svanita non appena vidi il poliziotto che mi guardava con aria sospetta. Così presi e tirai diritto.
“Ok… caffè preso e bottiglietta di tè comprata nel caso mi venisse sete sul treno. Ora cosa mi serve? Già! Un treno per Roma!”

Carrozza 8…
Carrozza 7…
Carrozza 6…
era quella che cercavo.
Avevo da poco fatto il biglietto. In tasca ne avevo già un altro. Era quello per il treno di ritorno da Roma. L’avevo prenotato su internet molto tempo prima.
– Permesso… permesso… permesso… posto 126… dovrebbe essere questo. –
Mi sedetti nell’ultimo posto vicino al finestrino. Di fronte a me c’era un’anziana signora dallo sguardo non molto intellettuale giustificato anche dal fatto che leggeva Visto. Sulla sinistra invece c’era un tizio distinto. Camicia con cravatta, ventiquattrore e telefono cellulare rigorosamente acceso e squillante. Doveva essere un avvocato da come parlava. Gli avvocati mi sono sempre stati simpatici. Perché cercano di contorcere la legge per cercare di tirarti fuori dai casini… ed io ne avrei avuti molti da proporgli. Affianco a me invece c’era il tipico napoletano. Maglietta giromanica, pantaloncini corti e corriere della sera usato come ventaglio. Faceva molto caldo. Non sapevo come facesse l’avvocato ad avere ancora addosso la cravatta. Il caldo sembrava non toccarlo proprio. Io, dopo aver osservato i miei coinquilini, mi misi comodo sprofondando nel seggiolino. Presi il mio ipod e superai la play list di Ligabue per andare a quella dei Dream Theater. In quel periodo, non sapevo bene il perché, ma ascoltavo solo canzoni di quel gruppo. C’era una canzone che mi piaceva particolarmente. “Pull me under” Stupenda… anche se in quello scompartimento c’era troppo poco spazio per saltare sui sediolini cantando a squarciagola. Quella canzone aveva una carica emotiva pazzesca.
“Ripassiamo un po’ il piano”. Presi il mio blocknote dove avevo annotato ogni cosa.
“Allora… Il suo treno parte alle 10 da Milano centrale e dovrebbe essere a Napoli verso le 4 e mezza. Ma dato che io a Napoli non dovrei esserci… A Roma dovrebbe arrivare alle 2 e mezza. Dovrei riuscire a farcela.” Avrei preso il treno su cui lei stava viaggiando alla stazione di Roma. Avevo già il biglietto con il posto prenotato nella sua stessa carrozza il più vicino possibile a lei. Tutto era stato semplice fino ad allora. Forse troppo…

Trrrrrrr
La vibrazione del mio cellulare iniziava a farsi sentire. Era arrivato un messaggio di Francesca che diceva che aveva qualche problema con il treno e che sarebbero partiti un’ora dopo. “Cavolo!” pensai. Le avevano fatto cambiare il treno, a lei e a tutti gli altri passeggeri. Era un casino! Un vero e proprio casino. Ora come facevo a trovarla? Il treno sarebbe stato lo stesso 9433 che avevo prenotato io? E quando sarebbe arrivato a Roma? “Dannazione! C’è sempre qualcosa che deve complicarmi la vita! Sempre! Ora cosa si fa?” Ricalcolo i tempi:

Milano 11.05
Bologna 12.47
Firenze 13.50
Roma 15.35
Napoli 17.30

Era leggermente in ritardo. Dovevo solo sperare che il treno fosse lo stesso. Non conoscevo la procedura di Trenitalia in certe occasioni. Speravo che avessero spostato tutti su un treno vuoto così da mantenere intatte le prenotazioni, i posti e il numero del treno. Altrimenti sarebbe diventata una vera e propria caccia al tesoro. E io non sono mai stato bravo a trovare le cose. Tantomeno le persone sui treni. E pensare che la stazione di Roma ha più di trenta binari. Dannazione… per il momento devo arrivare a Roma, poi si vedrà.

Roma (bambolina torno tra un momento)

Roma... Roma caput mundi… la mitica città di Nerone, Augusto, Cesare… La città del Colosseo… del foro romano… di San Pietro… di piazza di Spagna… dell’altare della patria… Chi non ha mai visto, almeno una volta, una di queste cose? Chi di voi non ha mai gettato una monetina nella stupenda fontana di Trevi? Chi non ha mai girato per le sue strade a fare compere? Beh, se non lo avete mai fatto, fatelo! E saprete perché l’Italia sia la meta più ambita di tutti i turisti. Quel giorno, anche io ero lì. E sembravo proprio un giovane turista spaesato in cerca d’informazioni. Ma le informazioni che cercavo non riguardavano statue o chiese. Avevo fatto migliaia di gite turistiche in quella città e di chiese ne avevo piene le scatole. In quel momento mi serviva sapere se quel treno sarebbe arrivato a Roma. Così chiesi al centro informazioni.

– Scusi… il treno 9433 per Napoli… mi sa dire a che ora arriverà? –
– Ha 70 minuti di ritardo… dovrebbe essere qui alle 15 e 40… se vuole ci sono un sacco di treni che partono prima. –
– Grazie… –
– Vuole rimborsare il biglietto? –
– No… a me serve quel treno… grazie lo stesso. –
L’addetto mi guardò con una faccia incuriosita. Avevo appena negato di volere il rimborso. Forse qualcuno di voi lo sa… è quasi impossibile ottenere il rimborso dei biglietti Trenitalia. Ogni volta trovano una scusa nuova. Ogni volta ti mandano in un’altra stazione. Ogni volta ti fanno spedire una lettera a Trenitalia con la richiesta, e tanti saluti, niente rimborso. Quanto li odio quando fanno così! Però devo spezzare una lancia in loro favore perché una volta mi hanno pagato l’albergo. Beh… è lunga storia.

Guardai l’orologio: “È l’una… ora cosa cavolo faccio qui fino alla quattro?”

 Treno (bambolina torno tra un momento)

Erano quasi le quattro. Il treno che attendevo da tempo, era da poco arrivato. Mi batteva il cuore. Avevo addosso un misto d’ansia e tremore che dovevo al più presto eliminare altrimenti avrei rovinato le cose. Ero impaziente. Le gambe mi tremavano. Non vedevo l’ora di salire su quel maledetto treno che finalmente era arrivato.
Le porte si aprirono. La gente scese. Ero già davanti alla mia carrozza. Cioè davanti alla sua. Non stavo più nella pelle. Dovevo salire! “Chi se ne frega della gente che scende… devo salire… ho aspettato fin troppo… devo salire..”
E salii…
Il treno era uno dei modelli nuovi di Trenitalia. Non l’avevo mai preso, eppure di viaggi me ne sono fatti parecchi seduto su questi seggiolini. Ma il mio pensiero era altrove. Camminavo piano lungo la carrozza cercando di intravedere quella ragazza con lo sguardo. Niente… non riuscivo a vederla. Scorrevo lentamente i posti a sedere.
66… 67… 55… 54…
Eccoli… 44 e 45. Erano i posti su cui erano sedute le due ragazze provenienti da Milano. Diedi un rapido sguardo ma ce n’era seduta soltanto una. Mi sedetti al mio posto che era dall’altro lato del corridoio. La ragazza aveva in mano un cellulare. Avrà avuto al massimo 16 anni a giudicare dai lineamenti del viso. Molto probabilmente era l’amica di Francesca. Ma lei non era lì. Perché non c’era? Forse avevo sbagliato qualcosa… Doveva essere lì! Il treno era quello… la carrozza la numero 7… e il posto il numero 44. Le mandai un messaggio e sentii la vibrazione di un cellulare tremare dall’altro lato del corridoio. Era lei… e quello era il suo cellulare, mi aveva detto il modello di quel Nokia in una delle nostre solite conversazioni. “Sarà molto probabilmente in bagno”. E così era… infatti vidi tornare una ragazza dal fondo del corridoio e sistemarsi vicino al finestrino facendo spostare la compagna. Sapevo che preferiva viaggiare vicino al finestrino. Tutto combaciava ora.
Era lei!
Vederla mi fece un effetto strano. Sapete… è strano parlare con una persona per quasi tre anni su internet e poi vedersela in carne ed ossa a poco più di due metri di distanza. Sembrava una ragazza comune. Ma la conoscevo a fondo. Conoscevo quasi ogni cosa di lei. Su internet infatti le persone si sentono più libere di dialogare. E io ci avevo parlato parecchio. La consideravo la mia amica più cara. Forse più di un’amica. Era molto strano… non so per quale legge fisica o chimica, ma noi due non avevamo mai litigato. Mai. Di solito quando acquisto abbastanza confidenza con una persona, la prima cosa che faccio è litigarci. Ma non lo faccio apposta. Capita sempre e a tutti una giornata no. E chi ti trovi davanti diventa molto spesso la vittima del tuo nervosismo. Lei però, capitò molte volte in quelle giornate e, non so come, ma se la cavò molto bene.
Non riuscivo ancora a crederci. Era lì. Quella piccola e ostinata ragazza era a meno di un passo da me. Era stupenda. Semplicemente stupenda. Mi chiedevo quanto ancora dovevo far durare quel gioco. Possibile che non mi avesse riconosciuto? Ammetto di non essere molto fotogenico, quindi dal vivo faccio tutto un altro effetto. “Forse avrà capito? Na… è lì che parla con la sua amica”. Mi venne un’idea. La pallina rossa! Quella imprevedibile pallina che mi ero portato dietro. È una pallina speciale… e solo poche persone lo sapevano. Così mi misi a giocare spingendola avanti e indietro sul tavolino. Lei mi guardava. Non la vedevo ma sentivo il suo sguardo addosso. Sospettava… e io non riuscivo a trattenermi dal sorridere. Non stavo più nella pelle. Volevo urlarle: “Si Francesca! Sono io!” ma aspettai. Lei intanto mi mandò un messaggio che fece vibrare il mio cellulare senza suoneria. Lei aspettava che io facessi la mia mossa, ossia prendere il cellulare e vedere il messaggio. Ma mi trattenni… fino a che non ce la feci più e mi girai verso di lei che, con uno sguardo trionfante, mi aveva scoperto.


“Tu e quella maledetta pallina rossa!”


Oramai non ci speravo più. La conoscevo. Era ostinata e orgogliosa quasi quanto me. “Non sarebbe venuta…”. Forse avevo fatto un errore a venire lì. Potevo risparmiarmi tutto questa trafila e stare dove “tecnicamente” sarei dovuto stare: a casa di Enzo a rilassarmi nella sua piscinetta. Mi sedetti per terra. Ero nello spazio tra le due carrozze. Quello in cui di solito si trovano i bagni. Infatti erano disposti proprio dietro di me e, a ritmo intermittente, arrivavano persone “bisognose”. Speravo che una di quelle persone fosse Francesca. Ma dopo 4 o 5 volte che mi giravo a vuoto allarmato dal rumore delle porte scorrevoli, persi le speranze e mi rassegnai. “Te l’ho detto Ciro… non sarebbe venuta…” La mia coscienza era più ostinata di me e continuava a ripetermi frasi del tipo “goditi la fine del viaggio” o “perché non sei andato da Enzo davvero?” Stavo cominciando a innervosirmi. Così presi la mia borsa. Volevo distrarmi un po’ e il Nintendo DS che stamattina avevo fregato a mio fratello faceva al caso mio. Un po’ di musica sarebbe stata meglio, ma non so per quale strana ragione avevo lasciato il mio ipod su quel maledetto tavolino a quel maledetto posto. Un messaggio:

“Ehi… torna qui…”

“Per sentire altri no? Per continuare a parlare a vanvera da solo? Per continuare ad essere ignorato? No grazie!” Ero nervoso. Terribilmente nervoso. E nemmeno il DS riusciva a calmarmi. “Devo tornare? Era questo che voleva veramente? Voleva me? Chi ero io? Un perfetto sconosciuto, conosciuto su internet che non aveva mai visto. Perché ero lì?”
“Perché le voglio bene” mi risposi, e un’anima di malinconia m’invase il cuore. Ma non sarei tornato lo stesso… Io le volevo bene… e gliel’avevo dimostrato arrivando fin lì, ora toccava a lei fare una decina di metri per dimostrare quello che valevo per il suo cuore. Intanto continuavano ad arrivare suoi messaggi. Voleva che ritornassi al mio posto… e io volevo che superasse il mio test… così continuai a giocare con il mio DS cercando disperatamente di superare quel livello di Burnout. Ma a metà della corsa, senti scendere sul mio volto due piccole mani che andarono a coprirmi gli occhi.
– No! c’ero quasi riuscito! – dissi dopo aver perso quella gara. Lei si mise davanti a me e mi chiuse lo schermo del Gameboy.
– Allora? –
– Allora… sono sessanta minuti… –
– Ciro… –
– So come mi chiamo! –
– No… no… e no… non dovevi… – continuava a ripetermi..
– Uffa! Sei venuta qui per ripetermelo ancora? E che cavolo! Si ok, ho fatto una cazzata va bene?! –
– No… è che… non puoi capire… –
– Già… io non posso capire… già… non capisco tante cose… – dissi con un velo di alterazione.
– Ehi… – disse quasi sussurrandolo.
E lì… Ci guardammo negli occhi. I suoi erano stupendi. Non riuscivo quasi a reggere il suo sguardo. Erano così penetranti e carichi di sentimento che potevano comunicare anche senza le parole. Come si poteva dire di no a degli occhi così? Come si poteva essere arrabbiati con una ragazza così? Era lì, seduta di fronte a me, con uno sguardo pentito di come aveva dato inizio a quell’incontro. Ed io lo percepivo. L’avevo capito già da un pezzo, leggendo i messaggi che mi aveva inviato. Voleva discolparsi… anche se non ce n’era bisogno. L’avevo già perdonata.
– …È stata una giornata stressante… Mi sono fatta male a un piede… il treno che fa ritardo… Ho sonno e fame… E all’improvviso sbuchi tu… Beh… mi hai lasciata scioccata… non me l’aspettavo… per questo ho reagito così… scusa… –
Era pentita. Aveva il viso oscurato da quello che aveva appena detto. L’abbracciai. Era la prima volta che lo facevo. E sentii il cuore battere più forte. Stavo abbracciando la ragazzina a cui avevo dedicato gran parte del mio tempo, raccontandole le assurde storie della mia vita. Quasi non ci credevo. E pensare che parlavamo da quasi tre anni. Assurdo… quasi impensabile. Ci conoscevamo così bene eppure non avevo mai avuto modo di abbracciarla… di sentirla. Era un angelo… Un piccolo angioletto… caduto dal cielo per finire tra le mie braccia.
– Sei arrabbiato? –
– E perché dovrei esserlo? N’è valsa la pena… l’avrei fatto anche solo per stare cinque minuti con te… –

L’avrei fatto lo stesso… perché volevo bene a quella dolce bambina che aveva emozionato quella giornata… e un po’ la mia vita…

“E certe volte…
quando cerchi di vedere il mare e non ci riesci…
forse…
quel mare…
potrebbe essere proprio dietro di te…”

per te…

bambolina.

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