Weekend finanziario (VI)

Weekend Finanziario 6

Una delle ragazze di quella sera credeva fossi un modello! Mah…

Ultimo giorno, mattina della partenza

Oltrepassata la robusta porta in legno di ciliegio, sigillata da una chiusura a chiave magnetica, si entrava in una delle stanze del quinto piano, vista mare, di un mediocre albergo Riminese. Per terra, sulla moquette blu notte a pois dorati, c’erano disseminati una miriade di capi d’abbigliamento stropicciati in un susseguirsi continuo fino ai piedi del letto. Una scarpa destra, con ancora i lacci legati in un classico e inconfondibile doppio nodo faceva la guardia all’ingresso, sperando di rivedere, prima o poi, la sua gemella sinistra. Subito dopo, antistante la porta del bagno, un giubbotto di pelle nero era adagiato a terra. Girato di spalle e con le maniche allungate, sembrava un soldato morto sul campo. Più avanti, tra un calzino e una maglietta si arrivava al letto, da cui sbucava, dal lato sbagliato, un piede nudo. Un ragazzo dormiva scompostamente lungo la diagonale di un letto matrimoniale. Percorrendo tutta la sua figura inanimata, si potevano confrontare i pezzi del puzzle di vestiti che non erano sulla moquette in modo da ricostruire l’abbigliamento originale. Tutto sembrava tranquillo, fino a quando, l’indice della mano sinistra non emise una sorta di breve tic

Ero in un luogo buio, con musica assillante e luci intermittenti. Seduto su un divanetto, conversavo con diversi ragazzi di assurde politiche economiche. In una mano avevo un cocktails e con l’altra carezzavo la pelle bianca del divanetto a due posti. Stranamente però, non sentivo la liscia consistenza della pelle sotto le dita. Al contrario, percepivo una sensazione di ruvidezza, come se la pelle fosse in realtà stoffa. Continuai a giocare con la mano sul bracciolo, isolandomi dal resto della scena. Non riuscivo a comprendere la strana alterazione sensoriale tra vista e tatto fino a quando il mio dito non incontrò un disegno in rilievo che, sul divanetto in pelle bianca dell’oscuro locale, non c’era.
Fu allora che aprii gli occhi e vidi la mia mano sinistra che strusciava sul copriletto del materasso matrimoniale della mia camera d’albergo. Lentamente continuai a delineare i bordi del fiore disegnato sulla stoffa per ristabilire il connubio tra vista e tatto.
“Era un sogno” pensai, poi sopraggiunse il mal di testa e il sogno non fu più una spiegazione plausibile.
Mi alzai, mettendomi a sedere. Mi resi conto di essere ancora, stranamente, vestito. Metà dei quali però, erano sul pavimento. “Cosa diavolo è successo?”. Tolsi l’unica scarpa che avevo per liberare l’altro piede ancora imprigionato dal mio classico doppio nodo. Mi spogliai completamente dai vestiti sgualciti e li buttai per terra insieme con gli altri. Passai davanti allo specchio a muro della camera. Volevo controllare se era tutto al proprio posto, poi mi buttai sotto la doccia.

Uscii dal bagno ancora tutto gocciolante, con un asciugamano bianco legato in vita. Con un altro asciugamano mi frizionavo i capelli umidi finché il mio sguardo non fini su un piccolo pezzo di carta sul comodino. Qualcuno aveva scritto qualcosa a penna e l’aveva lasciato lì, in bella mostra. Lo presi con le mani ancora umide e notai che era lo stesso bigliettino che mi aveva dato il tassista la sera prima e che io avevo conservato nel portafoglio. Lo lessi:

“Fantastica serata Ciro,
La prossima volta meno alcol però eh!
Ti abbiamo riportato noi in albergo…
Chissà! Ci si rincontrerà prima o poi!
Addio!”
Incredulo lessi e rilessi ancora quel bigliettino. “Chi cavolo sono questi?! E cosa cavolo ho fatto ieri sera?!” I miei pensieri non si davano pace alla ricerca di una risposta. “Come hanno fatto a riportarmi qui?”. Guardai sul comodino e vidi la chiave magnetica della mia camera con su scritto il nome del mio hotel. “Sicuramente usando quella…” pensai.
Guardai l’orologio e capii che non avevo tempo da dedicare alla ricerca dei ricordi perduti. Di lì a breve avrei avuto un treno che mi avrebbe riportato a Milano. Dovevo sbrigarmi per non perderlo. Mi rivestii in fretta e preparai la valigia. Fortunatamente non mancava niente. Quei ragazzi che mi avevano accompagnato, dovevano essere dei bravi ragazzi. Diedi un ultimo sguardo alla stanza e scesi nella Hall.
Alla reception c’era una ragazza dai capelli bordò. Mi diede un’occhiata mentre m’avvicinavo e mi face un sorrisino. Di solito, i receptionist sono sempre a conoscenza di ogni cosa avvenga nel proprio albergo. Ce l’hanno nel codice genetico come le portinaie o i barbieri. Ero tentato dal chiederle qualche notizia su ieri sera. Ma, a guardare quei dolci occhi maliziosi, mi vergognavo miseramente a chiederle come dei tizi sconosciuti mi avessero trascinato in camera la notte prima. Sicuramente avrà visto, se non lei, qualche collega. Pagai. Mi rifilò il resto condito dal solito sorrisino. Uscii dall’hotel con metà della coda tra le gambe. Per qualche strana e insulsa ragione malinconica, preferii fare a piedi il tragitto fino alla stazione, invece di prendere il taxi.

Venne a piovere come se non ci fosse stato più un domani.
Corsi per ripararmi sotto un balcone. La stazione era a pochi metri ma non potevo superare la colonna d’acqua che veniva dal cielo. Osservai Rimini… la fantastica città teatro di mille avventure. Solo e stanco mi appoggiai al mio trolley con l’acqua che veniva giù a pochi centimetri dal mio naso. Dal balcone sopra di me sembrava che ci fosse una cascata che veniva giù da chissà dove. Vedevo l’immagine della stazione come attraverso una gigantesca bottiglia di vetro trasparente. Ombre e bordi sfocati. Passanti anonimi. Vento… Mi sentivo impotente davanti a quell’onda invisibile di ricordi che mi stava travolgendo. Vedevo dinanzi a me il piccolo Ciro diciassettenne che, con la sua cartella Seven, usciva dalla stazione di Rimini. Tutto era sfocato… proprio come il ricordo… proprio come la pioggia. Il mio volto sorridente nel rincorrere i miei amici più grandi che mi avevano trascinato con loro in una magica vacanza. In testa nessun pensiero e sulle spalle chili di alcol… Sorrisi. Pantaloni larghi, canotta… il caldo asfissiante di quei giorni. In testa mille ragazze. Molte sbagliate… molte sofferte. Delusione. Osservavo il mio alter ego fantastico camminare a stento. Le scarpe erano di una misura più grande e a volte inciampavo nei gradini. I miei amici attendevano al di là del marciapiede. Avevo paura di attraversare la strada con quel pesantissimo zaino. Guardai a destra e poi a sinistra proprio nella mia direzione… ci fissammo. Io e il ricordo di me. Sotto la pioggia, dietro un muro d’acqua trasparente.
E il ricordo svanì…
Come la pioggia che si dissolse…
Uscii dal mio riparo e camminai verso la stazione.

Guardai un attimo la lunga via che portava diritta al mare.
Cos’è successo? Dove son finiti i miei sogni?
Tutti rotti…
Solo uno son certo di averlo realizzato:
Veder spuntare l’alba sul mare di Rimini…

Perché gli altri ho smesso di realizzarli?

Fine

Vodka e Gin

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Notte gelata. Notte ventosa. Notte diversa dalle solite.
I pensieri s’intrecciavano come fili di seta in una trama di ricordi. Correvo. Col mio piede inferocivo i cavalli del motore. Rombavano a ogni marcia come fossero frustate a pelle viva. 120/h. L’aria penetrava la vettura dai finestrini spalancati e m’inondava la faccia. I miei occhi decisi guardavano l’asfalto come un pugile che sfida il suo avversario. 140/h. La mia mano teneva ben saldo il volante, l’unico strumento che in quel momento era capace di scindere la vita dalla morte. Con rapidi movimenti di polso, evitavo spartitraffico, macchine e animali randagi. 160/h. Se la mano si fosse bloccata in quel momento avrei potuto dire addio alla vita terrena. Avrei potuto dire addio a pelle, anima e ossa. 180/h. Un semaforo in lontananza mi mostrò una faccia rossa e lucente, quasi accecante, nel buio fitto. Voleva prendersi gioco di me… voleva fermare la mia folle corsa come un genitore premuroso. Vidi dei fari muoversi nella via trasversale. Una macchina. Se passo, la disintegro… Scalo di marcia, freno, rallentai, mi fermai. Diedi ragione al mio genitore elettronico. Gli lasciai lo sfizio di comandarmi per un po’. 0/h.
Ero fermo e le mie dita accarezzavano la leva del cambio. Il piede fremeva impaziente di schiacciare l’acceleratore. M’ero fermato oltre la linea e non vedevo la luce del semaforo. Mi avvicinai al parabrezza e inclinai la testa. Guardai in alto. E dall’alto in basso lui guardava me. Mi sorrise mostrandomi il verde. Accelerai e lentamente tornai nella mia posizione. 80/h. Guardavo l’asfalto e come in uno specchio nero, vedevo i miei pensieri riflettersi nel vuoto. 100/h. Comparvero due occhi grandi, immensi. Al di là di un orizzonte che ora non c’era. Non si vedeva. Solo occhi, due grandi occhi femminili che mi fissavano. Feci una curva, cambiai specchio, e scomparve tutto. 120/h. Sentii un rumore di bottiglie che si scontravano. Erano un paio Tennet’s vuote che rotolavano sotto il sediolino indisturbate. 140/h. Con una mano le raccolsi entrambe e le gettai con violenza dal finestrino. Sentii distintamente un rumore di vetri in frantumi.
Ecco che rumore fa una bottiglia scaraventata da una macchina in corsa. 160/h. Ne volevo ancora. Volevo ancora dell’altro prezioso nettare degli dei. L’alcol che mi girava in testa non era abbastanza e soprattutto non faceva il suo dovere. Invece di annebbiare la mente, l’arricchiva di ricordi. 180/h. Lei era tornata tra i miei pensieri. I suoi occhi erano spuntati dal nulla carichi di odio verso di me.
Cosa voleva? Perché mi cercava? Basta! Lasciami la mente in pace per un po’…
Niente… parole al vento. L’immagine di lei tornò e si sedette accanto a me. Vidi il suo fantasma che rideva, parlava e mi scattava foto. In quel ricordo eravamo su quella stessa via, ma di giorno e più piano. L’avevo presa da casa e l’avevo portata via con me. Volevo farle vedere una nuova città e una mastodontica reggia. L’abbracciavo e a ogni semaforo la baciavo. La felicità sembrava semplice allora. Essere felici non era un problema.
Basta cristo! Lasciami in pace! 200/h.
Cercavo di ribellarmi ai ricordi ma miccia e polvere da sparo erano poche. Vidi un piccolo bar che restava ancora aperto nonostante l’ora tarda. Mi fermai in un parcheggio isolato. Scesi dalla macchina e la terra sotto i piedi mi sembrò diversa. Come se si muovesse e non volesse restare ferma al suo posto. La ragione mi suggeriva l’inganno e ignorai la percezione camminando fino al bar.
Entrai nell’angusto posto. Le luci sfocavano la visione. Raggiunsi a tentoni uno sgabello davanti al bancone.
– Dimmi? – disse il barista.
– Una vodka ghiacciata… – comandai.
Vidi la bottiglia e il bicchiere riempirsi davanti a me. Detesto la vodka ma fu la prima cosa che mi venne in mente. Presi il bicchiere e assaporai il freddo nella mia mano. Mandai giù di colpo e lo rimisi al suo posto. Il barista mi guardava ansioso.
– Ho voglia di sperimentare… – dissi – mescola due dita di gin e due di vodka. –
L’uomo mi guardò titubante poi prese le due bottiglie e mi servì il miscuglio. Guardai il bicchiere colmo di liquido trasparente che sembrava acqua fresca. Mandai giù anche quello e per poco non vomitai.
I miscugli non vanno bene! Lo sai.
Poggiai il bicchiere e gli chiesi una Tennent’s.
Mentre il barista cercava la mia birra nel frigo sotto al bancone, mi voltai indietro a guardare la sala. Una coppia di giovani erano seduti a un angolo di un tavolino. Il braccio di lui era sulle spalle di lei. Le parlava all’orecchio, magari di cose sconce, e lei sorrideva maliziosa. Lei, visibilmente ubriaca, cercava di guardarlo negli occhi, non sempre riuscendoci. Entrambi, carichi d’eccitazione, non aspettavano altro che una scintilla a far scoppiare il tutto. Si baciarono e mi girai disgustato.
Il barista si rialzò e mi porse la birra. Pagai e tornai verso la macchina. Volevo allontanarmi il più possibile da quei due. Volevo allontanarmi da qualsiasi forma d’amore che potesse ricordarmi lei. Volevo allontanarmi anche da…
Uno scoppio in cielo mi fece voltare. Un grande bagliore m’illuminò gli occhi.
Fuochi d’artificio.
– Che belli… – dissi sottovoce dando un lungo sorso alla mia bottiglia.
Mi avvicinai alla macchina e mi sedetti sul cofano cercando di non ammaccarlo. Il motore era ancora rovente dopo che l’avevo trascinato fin quasi al suo limite.
Spom Spom Spom
Guardai il cielo che si colorava di rosso, poi verde e poi giallo. Milioni di lucine schizzavano nell’aria impazzite. Rumori di esplosioni simili a spari di pistola. I fuochi disegnavano nell’aria cerchi immensi. A volte simulavano una pioggia di stelle… altri roteavano su se stessi come girandole… infine scomparivano lasciando una coltre di nubi.

Belli…
e tu non sei qui con me a vederli. E non potresti mai vederli in nessun pezzo di mondo.
Perché i fuochi non sono come la Luna… Devi vederli lì… nello stesso posto. Devono riflettersi contemporaneamente negli occhi di entrambi. Ti vorrei qui, accanto a me. Vorrei passarti il braccio intorno al collo e sussurrarti ancora una volta che tu eri quella fatta a posta per me. La mia metà della mela. La mia boccata d’aria nell’abisso oscuro della vita.
La ragazza che sfiorava la perfezione. Quella che riusciva a sopportare il mio caratteraccio pieno di ansie e paranoie. Quella dagli occhi grandi e profondi ricchi sempre di me.
Non credo che riuscirò mai a dimenticarti…
E ancora una volta… quella strana forza ha invaso il mio cuore…

Il Quartiere Latino (la nouvelle de Paris IX)

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20:00

Il giro al Louvre era stato estenuante. Avevo i piedi in condizioni pietose. Mi buttai sul letto a peso morto. In casa, un vociare confuso di persone. I ragazzi discutevano, parlavano, raccontavano mescolando l’italiano con l’inglese affinché anche il nostro compagno brasiliano potesse capire. Chiusi gli occhi e cercai di recuperare le forze. I miei polpacci erano incandescenti, la schiena a pezzi e la mente in black-out.
Ad Aberto la stanchezza sembrava non toccare. Avevamo percorso chilometri ma lui era ancora fresco come una rosa sbocciata. Faceva progetti per la serata e cercava di coinvolgerci tutti. Antonio e Rafael lo stavano a sentire. Ciro aveva la testa sotto il cuscino a mo’ di struzzo e stava peggio di me. Sinceramente non mi andava di ballare anche quella sera. I piedi mi avrebbero dato buca.
Quando finalmente tutti fummo sistemati in un letto, piombò su di noi, come una leggera coperta, un sonno profondo.
Dormimmo in tutto un paio d’ore. Qualcuno si svegliò e ci svegliò tutti.
– Andiamo ragazzi! La notte è giovane! E soprattutto… siamo a Parigi! – urlò a gran voce Alberto.
Quel ragazzo, se ancora ragazzo si potesse chiamare a trent’anni, sembrava essere sempre pieno di energie e desideroso di assaporare ogni momento della vita, com’era desideroso di attaccarsi alle sottane di qualche giovane parigina. Anche se molto diversi, questo lato del carattere ci accomunava tanto. Anch’io voglio prendere la vita e farne brandelli di avventure. Anche a me piace viaggiare, osservare, raccontare… anch’io amo non fermarmi mai, anche se a volte, la ragione blocca la maggior parte delle pazzie.
Ci vestimmo tutti con indumenti già visti nelle serate precedenti. Non so come, ma Parigi mi faceva dimenticare che le mie bellissime scarpe nuove erano state devastate nella serata in discoteca. Rafael era sotto la doccia e cantava un motivetto portoghese. Vidi Ciro spruzzarsi un paio di gocce del suo Versace e me ne feci prestare un po’. Antonio girava per la stanza alla ricerca di una cintura per i suoi jeans. Infine Alberto, aveva sfoggiato il suo imbattibile pantalone rosa con cintura marrone, abbinato alla camicia bianca. Si avvicinò a noi e ci disse:
– Questo pantalone… quante ne ha acchiappate! –

Mezz’ora dopo uscimmo. Erano le undici in punto. Le strade parigine si colorarono di tenui luci arancioni che donavano a luogo un’intensa aura dorata. Ci dirigemmo verso il famoso Quartiere Latino. Un quartiere frequentato principalmente da studenti universitari e da turisti. Infatti, non molto distante c’è la Sorbona, la prestigiosa università di Parigi. Le sue vie pullulano di locali, dove mangiare, bere e fare bisboccia fino all’alba. Il quartiere costruito a posta per noi, in pratica.
Ci addentrammo per le sue vie, alcune molto strette da proibire il transito alle auto. Mi colpì subito il colore. Il colore delle cose, delle insegne, dei cibi, delle luci, di tutto! Dopo aver passato giorni e aver osservato palazzi e monumenti antichi così da abituare gli occhi alle tonalità settecentesche, ora, quel rosso, quel viola, quel blue, mi riportavano al futuro, ovvero il presente della nostra tipica società. Ciononostante, quella diversità del luogo, era perfettamente incastonata tra palazzi antichi e cattedrali gotiche da non rovinare l’ambiente cittadino.
C’erano insegne di ristoranti italiani, tedeschi, indiani, cinesi, giapponesi… C’era un vasto assortimento culinario. Noi, però, cercavamo qualcosa di tipico della zona ed entrammo in un ristorante francese.
Il maître ci indicò dove sederci e ci portò le liste. Ovviamente scritte in francese. I ragazzi pensarono subito al vino e ne fecero portare una bottiglia. Un Sauvignon blanc da 20 euro.
Non avevamo ancora ordinato che già la prima era andata. Ne ordinammo un’altra con immenso piacere del maître. Di quel menu non ci capivo un acca. Volevo scegliere qualcosa di commestibile e che si accostasse bene all’immensa quantità di vino che sicuramente avremmo bevuto. Lessi tutta la lista, poi sorrisi.
– Ecco cosa prenderò! Un’omelette! –

Mangiammo, bevemmo, chiacchierammo… Ognuno raccontava un pezzo di se. Li stavo ad ascoltare con piacere. Quella combriccola non era male. Il vino scorreva a fiumi e il cibo era ottimo. Il maître rimpiazzava le bottiglie vuote con quelle piene e ogni tanto si fermava a fare due chiacchiere sulle sue vacanze italiane. Eravamo entrati così in confidenza che fu quasi dispiaciuto nel mandarci via. L’ora era tarda e il ristorante doveva chiudere. Ci fermammo davanti all’entrata a bere l’ultimo bicchiere di vino e vedemmo uscire dal locale due ragazze. Alberto ovviamente partì all’attacco e attaccò bottone con una di loro. Si fermarono a fare quattro chiacchiere e a fumare una sigaretta. Parlavano inglese ma non erano inglesi, bensì di una delle sue ex- colonie: l’Australia.

E qui la memoria subisce un salto. Non ricordo il come e il perché finimmo in un altro locale. Mi ritrovai a parlare con una delle due, davanti a un bancone di un piccolo pub.
– Un Cuba Libre, and for you? – ordinai al barista.
– Un Mojito
Con la vista un po’ annebbiata mi accorsi che Alberto era lì vicino e tentava un approccio con l’amica. Del resto della compagnia non avevo notizie. Guardai negli occhi la mia giovane donzella. Si chiamava Kate e aveva all’incirca la mia età. Ancora non riesco a spiegarmi di come abbia fatto ad attraversare metà mondo per finire a bere un Mojito a Parigi. Mi disse che era il suo ultimo giorno in Francia e coincidenza lo era anche il mio. Il viaggio però non si sarebbe fermato lì, la sua prossima tappa sarebbe stata l’Italia e più precisamente Milano.
– Milano?! Really?! I came from Milano! – le dissi.
– Wow… I love Milano, fashion and shopping! –
La ragazza la sapeva lunga sulla vita mondana e stava per recarsi proprio nel suo cuore, nel centro di ogni attività modaiola e festaiola. Avevo già capito le sue intenzioni. Mi chiese di insegnarle qualche parola in italiano. Aveva fatto un corso di qualche mese in Australia e voleva far pratica nel Bel Paese. Per fortuna che la mia galanteria mi fece desistere dall’insegnarle le parolacce, anche se l’istinto voleva divertirsi un po’. Le corressi la pronuncia delle parole che conosceva già. Qualche volta sbagliava gli ausiliari; in alcune frasi ometteva il soggetto; e i plurali le erano sconosciuti. Nonostante tutto se la cavava egregiamente, e sempre meglio del mio abominevole inglese!
Parlammo a lungo. Non avevo idea di che ore erano e di dove fossimo. Però vedevo Alberto lì vicino e questo mi dava un po’ di sicurezza. Chissà se Alberto pensava lo stesso di me? Non era che entrambi contavamo sull’altro per tornare a casa? Per fortuna non fu così e vidi spuntare da dietro Antonio con una bionda. Non in carne e ossa, ma liquida e spumosa. Me la offrì e mi chiese come stesse andando.
– Tutto bene… – gli risposi.

Tornai a guardare la mia compagna di serata negli occhi. Aveva un qualcosa di nascosto. Qualcosa di segreto aleggiava in lei. Quel suo sorriso così semplice e al tempo stesso misterioso. Quel suo fare disinvolto, socievole, intrigante… ne facevano di lei una persona da scoprire, come una rosa chiusa in un bocciolo. A ogni mio passo lei non indietreggiava, mi fronteggiava, stava allo scherzo. Rideva, giocava, si avvicinava. Ogni tanto mi lanciava languide occhiate che io raccoglievo e rilanciavo.
Era un gioco per me. Un perfetto gioco di frasi fatte, battute ben affilate e parole intriganti.
Era un gioco… e chissà per quanto ancora… sarebbe durato…

 

 

Quatre-vingts! (la nouvelle de Paris VII)

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Quella mattina il sole entrò con una certa resistenza in quella casa parquettata sugli Champs-Élysées. S’insinuò tra le fessure laterali che la fitta tenda plastificata non riusciva a coprire. E una volta dentro, la scena che gli si presentò davanti aveva qualcosa di grottesco e innaturale che gli sembrava aver visto solo in Vietnam ai tempi della guerra. Quel sole rise di noi… delle nostre facce stanche e assonnate; delle posizioni strane in cui dormivamo; dei vestiti sparsi e dei resti di cibo ovunque; rise di noi, perché non c’era nessun altro in città di cui poter ridere. Rise di noi e poi, con la sua potente luce, ci svegliò.
Avevo la bocca impastata e lo stomaco più arido del Sahara d’estate. L’alcol aveva fatto il suo corso lasciando un gran mal di testa e una sete inappagabile.
Ci alzammo tutti e in un’ora fummo arzilli e ben svegli, pronti, per la prossima avventura parigina. Ci catapultammo in strada con lo stesso sole che ci aveva svegliato.
Facemmo colazione in un bar a caso. Con non poche difficoltà a ordinare una brioches e un cappuccino. Sedemmo a un tavolino all’interno e cercammo di radunare quanti più ricordi possibili della serata precedente. Cercai di capire cosa avevano fatto gli altri e scoprii che non era molto differente da ciò che avevamo fatto Rafael ed io: bere e provarci con le ragazze.
Concordammo tutti che cantare Con te partirò di Bocelli a Parigi, era una delle cose da fare per forza nella vita. Fu l’apoteosi della serata, e soprattutto, totalmente imprevista. Imprevista… come la chiamata che ricevette Alberto in quell’istante.
– Pronto! Hi Yann! How are you? –
Alberto parlò con questo tizio dal nome difficile per un paio di minuti. Gli dette appuntamento nel primo luogo che gli venne in mente: la Tour Eiffel.
“Un genio… decisamente una persona molto intelligente!” pensai.
Dare appuntamento a una persona, sotto uno dei monumenti più famosi del mondo, visitato da quasi 7 milioni di persone l’anno, di sabato, ci vuole coraggio.
Gli feci un grande elogio e c’incamminammo.

Percorremmo avenue George V osservando macchine di lusso e ristoranti eleganti. Attraversammo la Senna su Pont de L’Alma e qualcosa s’iniziò a vedere da lontano. La Torre. Restai fermo un istante a osservarla. Non perché fossi estasiato o meravigliato, al contrario, quella bizzarra piramide ferrosa, non mi diceva niente. Mi dava l’impressione di essere un grosso traliccio della corrente elettrica e niente più. Cercavo nel mio corpo qualche emozione da sprigionare. Ci riflettevo… osservavo ancora… pensavo… ricordavo… Niente! Per me, quella rinomata Tour Eiffel, era solo un ammasso di ferraglia ben costruito. Rendeva meglio nelle foto da cartolina.
Dopo aver passeggiato per rue de l’université, finalmente ci fummo sotto. Proprio al centro, circondati da migliaia di persone in fila per salire. C’erano due ascensori che partivano da due piloni opposti e all’interno degli altri c’erano le scale per permettere alle persone di scendere. Mi posizionai al centro e alzai lo sguardo osservando il grosso quadrato metallico. Il culo della torre in pratica. Non mi diceva niente neanche quello. Solo ferro! Ganci, bulloni, travi… innesti, giunture, fili… cose non molto diverse da un cantiere di un grattacielo. E osservando le facce delle persone incantate dal metallo, ero invidioso e curioso di sapere il perché. Anch’io volevo provare una bella emozione… sognare e liberare un wow dalla mia bocca. Ma non riuscivo a mentire…
– Yann! My friend! –
Un normalissimo ragazzo con una normalissima borsa venne incontro ad Alberto. Era francese senza alcun dubbio. Il suo viso già parlava di per sé. Era un Vincent Cassel con vent’anni di meno e un fisico asciutto.
Ci presentammo, ovviamente in inglese, e anche a lui spiegai che Ciro ed io avevamo lo stesso nome. Iniziammo a camminare. Non chiedetemi per dove né perché. Camminammo e basta. Alberto, che conosceva questo Yann, parlò con lui per un po’, poi lo lasciò libero e subito passai all’attacco. Quel volto, quei movimenti e quel fisico, erano pressappoco interessanti per la mia fervente curiosità. Dovevo sapere di più.
– Yenn… – dissi cercando di richiamare la sua attenzione. Non si voltò e dopo capii il perché. Il suo nome andava pronunciato in maniera corretta. Nemmeno io mi sarei girato se qualcuno avesse urlato “Cero” invece di Ciro. Chiesi l’aiuto del pubblico e mi suggerirono la corretta pronuncia.
– Yann! – si girò e mi sorrise.
Mi affiancai a lui mentre camminavamo. Mi raccontò un po’ di sé. Aveva ventun anni e studiava economia come il sottoscritto. Gli piaceva la borsa e gli investimenti e mi s’illuminarono gli occhi quando me lo rivelò. Gli domandai qualcosa sull’economia francese e mi lamentai con lui perché la borsa di Parigi aveva subito un black-out causando notevoli perdite agli investitori.
In quel momento, per me, questo Yann rappresentava la Francia e Parigi. Anche se non era della città ma di un paesino a 300 chilometri di distanza. Aveva preso un treno e ci aveva messo meno di un’ora ad arrivare. E mi prese in giro dicendo che in Italia, con una buona fortuna, ne avrebbe impiegate almeno 4. Per lui, io impersonificavo l’Italia. E il problema era che non potevo dargli torto pur volendo difendere a spada tratta il mio Paese.
E così si aprì una sfida non dichiarata. Dibattemmo a lungo, senza tregua. Gli dissi che i francesi erano così stupidi da mangiare le lumache! Lui mi rispose che gli italiani erano così stupidi da non riuscire a raccogliere l’immondizia!
Il ragazzo lì, mi toccò nel vivo. Non mollava e aveva la risposta pronta. Eccitante dibattere con lui.
Gli dissi che L’Arc de Triomphe, altro non era che una banalissima copia dell’Arco della Pace di Milano. Di rimando, mi fece notare che lo spumante era una banalissima copia dello champagne.
Eravamo testa a testa come due pugili al primo round. E con una mossa non molto regolare gli dissi che la Francia era un paese di checche. Mi rispose che il Gay Pride Europeo si era svolto a Roma. Colpito e affondato. Era come duellare contro un avversario di eguale potenza.
In un impeto di rassegnazione tirai fuori l’ultima chance: – Voi francesi non avete una parola sola per dire il numero ottanta! Dovete dire per forza quattro volte venti! –
Yann ci pensò un attimo. Roteò gli occhi titubante. Si morse il labbro pensieroso. Alla fine però… mi diede ragione!

Italia – Francia = uno a zero.

 

 

Su navi e per mari… (la nouvelle de Paris VI)

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23:00

Poggiammo le buste della spesa sul tavolo. Spesa però, era un termine inappropriato a descrivere tre buste piene di bottiglie di vino rosso. Eravamo stati al Monoprix, un negozio di cosmetici che aveva un supermercato nel piano interrato. Mi ricordava tanto il Billa di via Torino.
– Cosa mangiamo? Ops… scusate… what we eat? – chiesi vedendo Rafael che mi fissava.
– We have: eggs, bacon and a lot of spaghetti! – disse Antonio.
– Carbonara! –
– Cucino io… – disse mio cugino.
Alberto aveva già in mano la prima bottiglia di vino.
– Da quale cominciamo? Dal migliore o dal peggiore? – chiese.
– Dalla migliore è ovvio! Perché quando sei ubriaco puoi bere anche il peggior vino esistente! –
– Ah… anche tu sei di questa scuola di pensiero? –
– Sempre! Fin dagli anni del liceo… –
Alberto, quindi, prese una bottiglia di Bordeaux e la stappò con frenesia. Versò maldestramente il vino nei bicchieri che avevo disposto sul tavolo. Alcune gocce caddero in giro.
– Pardon… – disse Alberto.
Facemmo il primo brindisi della serata e trangugiai il liquido amarognolo. Aveva un buon sapore. Cercavo di paragonarlo a qualche vino italiano ma non me ne veniva in mente nessuno. Intanto Alberto aveva già riempito di nuovo i bicchieri. Sempre maldestramente e sempre costringendomi a pulire con la carta le gocce cadute prima che Antonio se ne accorgesse.
– Alla Francia! –
– E alle Francesi! – dicemmo in coro.
Dalla cucina si spandeva un invitante profumo. Il mio stomaco brontolava peggio di un motore a secco. Ciro si stava dando da fare. Non era facile cucinare mezzo chilo di spaghetti in una pentola media. Ogni tanto saltavano in giro pezzi di uovo e pancetta. Probabilmente, complice della distrazione generale, era il vino che, per volere di Alberto, scorreva a fiumi. Rafael osservava con il suo bicchiere mezzo pieno in mano. Ogni tanto commentava in inglese qualcosa. L’alcol sembrava non toccarlo. Al contrario io, ero già mezzo fuori. Stavo apparecchiando la tavola e i miei movimenti, anche se molto coordinati, erano stranamente lenti.
– È pronto! – disse Ciro poggiando pericolosamente la pentola incandescente a tavola.
Facemmo i piatti e ovviamente, anche il tavolo assunse lo stesso aspetto della cucina. E si poteva mai iniziare a mangiare senza un brindisi?
– Buon appetito! –
Di fianco a me era seduto Rafael. Lo strano economista-avvocato e chissà quant’altro. M’incuriosiva questo ragazzone di trent’anni… e quando una persona m’incuriosisce, la barriera della timidezza si dissolve.
– Rafael… It’s the first time in France? –
– Yes… my next step is Berlin… and then i will go in Italy! –
– In Italy? Where? –
– Florence and Rome! –
– Very good Cities! –
Aberto si alzò in piedi brandendo l’inseparabile bottiglia di vino. Ci rifornì tutti e incitò quelli che avevano ancora del vino nel bicchiere a finire, per poi riempirlo di nuovo.
Contando le bottiglie vuote e dividendole per i presenti, il risultato dava più di una bottiglia a testa. Ero dannatamente fuori. La vista iniziava a sfocarsi nel contorno e quella piacevole sensazione di abbandono volteggiava nella mente.
– Rafael! My Friend! – brindai con lui.
– Do you know same italian’s words? – gli chiesi.
– No… I don’t. –
– Well… I teach you something. When you will go in Rome and you will see a very beautiful girl… you must say “Anvedi che sorca!” repeat… –
– An..vedi… che.. sorca! – Disse Rafael con qualche incertezza. Tutti scoppiammo a ridere e il brasiliano ripetette quella frase fino allo sfinimento, sfinendo anche noi a suon di risate.
Istruii Rafael a dovere con un buon vocabolario da perfetto scaricatore di porto. Per tutta la cena non chiusi un attimo bocca; e più parolacce mi venivano in mente, e più gliene insegnavo, nelle diverse forme e sfumature. Era più divertente che insegnare le parolacce ad un bambino.

La cena finì e per fortuna del mio fegato, anche il vino. Era passata la mezzanotte quando, brilli, profumati e ben vestiti, uscimmo di casa. Cercavamo un posto dove andare a ballare e il Queen era perfetto. Era una discoteca non lontana da casa, posizionata lungo gli Champs. Il buttafuori nero ci fece passare senza troppi problemi e una volta dentro ci fiondammo in pista.
Andai a prendere un cocktail e persi di vista i ragazzi. Afferrai il mio Cubalibre e vagai alla ricerca di una faccia amica. Trovai Rafael che ballava in modo molto scoordinato e scattava foto a raffica con la sua compatta.
– Hi Friend! –
Mi sfoggiò un gran sorriso e lo presi a braccetto. Ci conoscevamo solo da un giorno ma a vederci, sembravamo due vecchi amici.
– Rafael, go di qua… –
La mente non capiva più e la lingua s’inceppava nelle parole. Parlavo un misto di italiano, inglese e francese, colorato di gesti esplicativi. Rafael, stranamente, mi capiva lo stesso. Salimmo delle scale che portavano ad un altro piano. C’era una sala fumatori dove la musica assordante stentava ad arrivare. Le orecchie ebbero un po’ di pace. Facemmo il giro della sala come due predatori che cercano la preda. Due ragazze stavano fumando ad un tavolino alto. Ci guardavano. Spinsi Rafael sotto il mio braccio in quella direzione.
– Hi girls! –
Le due ragazze si guardarono tra loro sorprese.
– Hello boys… – rispose una.
Rafael iniziò a presentarsi.
– My name is Rafael son de Brasil!
– My name is Chloé and she is Elise. –
Dai loro nomi capii che erano francesi e quando toccò a me parlare sfoggiai le mie nozioni.
– Je m’appelle Ciro… enchanté… –
Le ragazze sorrisero. Forse il mio francese non era male. Il problema era che le mie frasi si contavano sulle dita di una mano!
– Parle vous englais? –
– No… – mi risposero deluse.
Ma i più delusi eravamo noi. Comunicai la notizia a Rafael e con molta educazione, tagliammo la corda!
Rafael era molto simpatico. Scherzava, rideva, faceva battute. Adocchiava le ragazze e ballava qualsiasi canzone. Mi trovavo a mio agio con lui. Mi faceva da spalla ed io spalleggiavo lui quando ci provavamo con qualsiasi esponente del gentil sesso presente nella sala. Che figuracce a volte…
Girando e rigirando trovammo il resto del gruppo. Stavano ballando nei pressi di una specie di cubo alto. Una paio di ragazzi e ragazze ballavano lassù. E perché non dovevo esserci anche io con loro? Così da poter raccontare ai miei nipotini, di quando il nonno s’è reso ridicolo a Parigi?
Salii e cominciai a ballare con una tipa. Lei sembrava starci… un po’ meno il suo ragazzo. Scesi alla svelta. Tornai a ballare con gli amici. La musica era alta e gli effetti dell’alcol non accennavano a calare. Sentii delle note da lontano appena sussurrate. Erano note familiari. Una musica che sapeva di casa. Ci girammo tutti in direzione del Dj. Poi ci guardammo in faccia avendo inteso la canzone che stava cominciando. E abbracciandoci tutti come un quartetto stonato, iniziammo a cantare…
– Con teee… partirooo… –

 

 

 

Si viene si va… di umana commedia (IV)

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10:12

Aprii gli occhi. Un soffitto bianco e insolito mi sovrastava. Voltai la testa da un lato e un paio di vertebre scroccarono, rivelando un gran torcicollo. Non era stata una grande idea usare un asciugamano come cuscino. Purtroppo, questo passava la modesta dimora di Enzo e dovevo accontentarmi. Spostai il plaid e mi misi seduto. Anche il mio stomaco si era svegliato, ribollendo gas e acidi vari. Sul tavolo del salotto c’era ancora la bottiglia vuota del Pampero. Il pensiero autodistruttivo di farmi un altro bicchierino mi attraversò la mente. Fortuna che non ne era rimasto nemmeno un goccio.
Tic… tac… tic… tac…
Sentivo un ticchettio volteggiare in quella stanza vuota. Mi alzai alla ricerca del trasgressore di quell’amato silenzio. Di primo acchito sperai che le mie orecchie fossero ancora buone dopo l’ingente lavoro in discoteca ieri notte. Andai verso la vecchia televisione a tubo catodico disposta malamente nell’angolo in fondo. Accostai l’orecchio… niente. Per terra, attaccato ad un lungo filo del telefono, c’era il modem wifi di Alice. Lo presi in mano… niente, non era lui.
Tic… tac…
Guardai il balcone sperando che il rumore venisse da fuori. Aprii l’anta e ne approfittai anche per inondare i polmoni di un po’ di aria fresca. Chiusi.
Tic… tac…
Il rumore persisteva. Andai verso una lunga cassettiera in legno scuro. Il rumore sembrava più forte. Aprii un cassetto. Dentro c’era un vecchio computer polveroso, di quelli vecchi e massicci. Lo presi e lo poggiai sul tavolo, cercando di sporcarmi le mani il meno possibile. Lo rivoltai sottosopra… di lato… niente, era più morto di un dipinto. Lo rimisi nel cassetto cercando di riposizionarlo nel modo giusto.
Tic… tac…
Il rumore continuava e la mia mente persisteva sulla strada della curiosità. Aprii il cassetto a fianco e finalmente scovai il colpevole. Trovai un grosso orologio da parete un po’ vecchiotto, con qualche grammo di polvere sul quadrante. Chiusi il cassetto e lo misi sulla cassettiera appoggiandolo al muro. Tornai a sedermi sul divano, sentendomi soddisfatto della missione appena compiuta. Dovevo pensare al prossimo passo… che ore erano? Guardai l’orologio…

10:16
Tic… tac… dannati orologi!

:17… Ero lì sul divano con la testa un po’ inclinata e lo sguardo fisso. Le palpebre si chiudevano a ritmi lenti e regolari. Fissavo quel maledetto quadrante…

:18… Mi sono sempre chiesto come facessero gli stessi numeri a trasformarsi da secondi, minuti in ore. A volte i numeri nemmeno compaiono, sostituiti da semplici linee o puntini.

:19… Ero ancora lì a guardare quell’aggeggio con lo stesso desiderio di un avvocato cinquantenne che fissa una spogliarellista in un night. Desiderio di cosa poi? Fermare il tempo? Forse sì…

:20… Il mio respiro si alternava al ticchettio come un grafico altalenante di una funzione trigonometrica.

:21… Dormivano ancora tutti. Era domenica. Mia mamma stava già preparando il pranzo e sicuramente mi stava aspettando.

:22… Non posso restare. Rispondo ad un immaginario Enzo comparso nella stanza. Se fosse stato reale invece, non avrei avuto il coraggio di dirgli di no.

:23… Ero in ritardo. Dovevo fare ottanta chilometri per tornare a casa. E gli autovelox? Erano…

:24… Triiiin… Triiiinn… suonò il mio cellulare. Distolsi lo sguardo dall’orologio. Ero libero. Ero fuori dal magico incanto del tempo. Respiravo a modo mio. Mi alzai e mi guardai intorno. Tutto taceva.

Devo scappare… Enzo, non posso aspettarti.
Mi venne in mente di lasciare un bigliettino. Strappai un pezzo di cartoncino e lo misi in piano su un angolo pulito del tavolo.
Mi serve una penna!
In una casa di studenti di solito le penne scorrono a fiumi. Purtroppo quella non era la solita casa di studenti e una penna che scrivesse sembrava essere l’oggetto più raro. Mi spostai in cucina, dato che il salotto l’avevo già perlustrato da cima a fondo. C’erano vari bigliettini appesi con dei magneti ad una specie di staffa metallica. Una penna? Niente… Guardai ovunque: tavolo, mensole, frigo… niente di niente.
Tornai in corridoio. A destra e sinistra erano disposte in successione le varie porte delle stanze da letto, in fondo c’era la porta d’uscita e dietro di me il bagno. Non volevo svegliare Enzo che forse stava dormendo con la sua ragazza. Nè tantomeno volevo disturbare la spagnola che storpiava il mio nome. Che fare?
C’era ancora un’altra stanza inesplorata. Apparteneva a un’altra coinquilina di Enzo. Mi aveva detto che non c’era in quei giorni. Aprii con lentezza la porta, preparandomi in mente una scusa nel caso avessi trovato qualcuno. La porta scricchiolava odiosamente. Nessuno, la stanza era vuota a parte il disordine. Mi colpì subito il grosso letto matrimoniale su cui avrei preferito dormire invece dello scomodo divano del salotto. Però avrei dovuto spostare un gran mucchio di stupidi peluche. Andai alla scrivania. Qui di penne ne trovai a iosa. Ne presi una e tornai in salotto. Mi sedetti e presi un minuto per pensare a cosa scrivere.
Allora En… Cavolo!
La penna si bloccò dopo la seconda lettera. Non le andava più di scrivere e dovetti tornare a prenderne un’altra. Ne presi una dalla forma a matita. Odiavo quel tipo di penna. Ma in mancanza d’altro…
En… En… En… E che cazzo!
Questa era proprio da buttare. Non scriveva nemmeno sotto minaccia. Volevo scaraventarla nel primo cestino e l’avrei fatto se fosse stata la mia. La rimisi al suo posto. Forse la coinquilina di Enzo era una collezionista di penne usate. Non si può mai sapere. Presi la terza e tornai in salotto… Questa finalmente scriveva…

         Enzo… Grazie del Pampero
            e del fantastico sabato sera!
                 e dì ad Eva e Carmen che….

Si viene si va… tenendoci dritti (III)

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– Ciro, che ti prendi? –
– Mha non so… vorrei continuare con il rum… –
Fissavo con insistenza la barista dell’Alexander, cercando di ottenere la sua attenzione. Enzo invece fissava Eva che dietro di noi parlottava con Carmen. Porsi un braccio in avanti e finalmente gli occhi neri e profondi della barista si posarono sui miei.
– Un Rum e cola… –
Enzo prese un Mojito e ci spostammo verso il centro della pista. Diedi un occhio alla postazione Dj. C’era un ragazzino sbarbatello non troppo esperto di musica. Mixava qualche hit del momento e non si dilungava troppo in frasi e urla per incitare la folla. Ogni tanto alzava la mano per sentirsi importante. Una ragazza ballava accanto a lui. Guardava la folla sentendosi una diva, nonostante l’aria di una qualunque che quella sera aveva bevuto un Martini di troppo.
La discoteca non era male. Con un po’ di fantasia potevo immaginare di essere ancora a Milano e non tra la movida di una piccola cittadina molisana. Trovare locali carini al sud è un impresa. A volte sono talmente sperduti che nessuno ha voglia di fare tanta strada per divertirsi un po’. Altre volte, invece, la gente che ci trovi dentro non è molto raccomandabile e si rischia sempre la rissa. Lì invece c’era il giusto stile, la gente giusta e non era troppo distante dal centro.
Ballavo cercando di non rovesciare il cocktail addosso a qualcuno. Enzo stava appiccicato alla sua ragazza e insieme ballavano un misto di lenti e strusciamenti. Carmen beveva. Mi disse che le piaceva l’Italia.
– Hai mai visto Milano? – le chiesi.
– Solo una volta… e per poco tempo! –
– Devi tornarci! Milano è fantastica! –
Mi sorrise e cominciò a ballare. Le piaceva quella canzone. Forse anche in Spagna passava su qualche strana radio. Diedi una lunga boccata al mio rum. La gola si inaspriva e la mente si alleggeriva. Lo stomaco invece non ne poteva più, brontolava e si contorceva ad ogni ondata di alcool. Non ci pensavo… era il giusto prezzo da pagare per evadere dal mondo.
Ballavo. Carmen mi fissava. Mi avvicinai e ballai con lei. Le presi le mani. I nostri palmi combaciavano e si stringevano. Le passai una mano attorno a un fianco. Guidavo io. Nonostante l’alcool, ero ancora un efficiente ballerino. Mi avvicinai al suo orecchio.
– Carmen! Te quiero! –
Lei mi guardò meravigliata.
– Cirope! – disse e mi chiedevo sempre per quale motivo mi chiamasse così. – Tu non sai che vuol dire! –
– Certo che lo so! – non lo sapevo, l’avevo sentito da qualche parte in qualche telefilm spagnolo.
Mi picchiettò la testa per farmi capire che non ero molto sano di mente. Guardai Enzo un istante. Si divertiva alla grande anche lui. Quella vita gli piaceva. Star lì, lontano da tutto e da tutti non era poi così male. Faceva qualche piccolo sacrificio, ma al paese lasciava un gran mucchio di problemi. Vederlo felice suscitava in me un piacere immenso… Questo genera l’amicizia? Forse sì…
La nottata stava finendo. Prendemmo i cappotti al guardaroba e imboccammo l’uscita. Sulla destra c’era un aggeggio che misurava il tasso alcolemico.
– Enzo mi presti un euro? Sono a corto… vorrei vedere di quanto sono fuori… –
Inserii la monetina. Uscì una cannuccia e la posizionai nel buco.
Soffiare prego.
Il marchingegno fece strani rumori e poi un numero rosso comparse sul display.
– E ‘sto numero che significa? –
– Che non puoi guidare… – mi disse la ragazza addetta alla biglietteria, che aveva visto la scena.
Guardai la ragazza, guardai lo schermo, guardai Enzo…
– Ok… va bene… andiamo a piedi allora! –

Mezz’ora dopo, con i miei piedi gommati e con il mio cuore a 6 cilindri, stavamo tornando a casa.
– Cavolo Enzo! Dove devo girare? –
– Di là! In quella via stretta! –
Enzo sembrava più disorientato di me. Le ragazze dietro si lamentavano per come guidavo. Va bene che ogni tanto confondevo il freno con l’acceleratore, però cosa potevano pretendere?
– Piano Cirope! Vai piano! Te vomito in macchina! –
– No, per carità! Vado piano! –
Andavo piano anche per evitare macchine e probabili incidenti. Per fortuna la maggior parte delle strade, anche se strette e difficoltose, era illuminata.
– Vai diritto! –
– Enzo… è un divieto! –
– Lo so! Ma se non passa nessuno buttati! Tagliamo un sacco di strada… –
Eva mangiucchiava i tarallini che Enzo aveva portato da casa. Una insolita leggenda metropolitana diceva che erano un ottimo metodo per far passare la sbornia.
– Eva! Passa avanti quella busta! – dissi e ne presi un paio.
– Cavolo Ciro… Attento… – mi allarmò Enzo.
Ficcai i tarallini che avevo in mano in bocca e masticai con lentezza, come se qualcuno da fuori potesse sentirmi. Una pattuglia di polizia era parcheggiata sul ciglio destro della strada. La macchina si ammutolì ed io cercai di essere il più normale possibile.
Niente poliziotto… niente paletta…
Avevano già fermato una macchina ed erano ancora impegnati nel togliere la patente a qualche sventurato.
L’avevamo scampata.
– Evvai! Niente mattinata in caserma! – dissi ironico ad Enzo.
– Siii! –
– Ok ok… ora mi dici dove Cavolo è casa tua!?!? –

La Foto.. (Ricordi di Rimini 2008)

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Musica.. Musica alta.. musica bella.. musica infernale. Stavo ballando.. ma stavo ballando per inerzia. La stanchezza si faceva sentire sulle mie gambe. Così decisi di andare a prendere un’altra bella dose del mio più caro anestetico.

La discoteca era affollata. A stento capivo i volti e la fisionomia delle persone. Una mora dal vestito nero, una bionda con jeans bianchi, un ragazzo con la maglietta a righe. Cercavo di non pensare. Cercavo di non guardarli sperando che mi facessero passare. Il bancone era ancora lontano. Per un attimo mi ricordai di essere venuto qui con i miei amici. Enzo e Mario. Eravamo rimasti in tre dopo che Gianni aveva dato forfait per un illusa storia d’amore. Purtroppo la pazzia di questa strana malattia rossa aveva contagiato anche lui. E come un fulmine si era precipitato dalla sua lei in cerca di attenzioni. Pensavo di esser l’unico a fare questo genere azioni. Pensavo di essere l’unico colpito da questa malattia. Pensavo..

 

Arrivai al bancone. Mi appoggiai con i gomiti e cercai di intravedere il barman. La mia vista assomigliava a quella di un barbone che guarda il mondo dal fondo di una bottiglia.

-Che vuoi?- mi urlò.

-Un bicchiere di Rum liscio.-

 

Il ragazzo con la maglietta nera con su scritto il nome della discoteca, iniziò a versare il nettare nel mio bicchiere. Mi diede uno sguardo e capì dalla mia mano ondeggiante che doveva riempirlo fino all’orlo. Sorrise e mi diede il bicchiere, contento di aver fatto felice qualcuno.

Mi allontanai da li. Cercavo un posto dove sedermi. Vidi dei divanetti poco distanti. Mi sedetti e cercai di riordinare i cassetti della mia mente, disordinati dalla bella mora che avevo in mano.

Proprio davanti a me s’erano piazzati due che stavano limonando alla grande. Lei sembrava molto impaziente di ricevere ciò che il ragazzo non riusciva a contenere nei pantaloni. Un bello spettacolino direi.. ma questo genere di tentazione ora non faceva per me. Quindi diedi un bacio al mio bicchiere e mi alzai.

 

Mi accorsi di non aver ancora finito di vedere la discoteca. C’era un’altra parte che mi era ignota oltre alla posizione dei miei amici. Mi diressi verso una porta. Intravidi l’esterno. Una grande piscina si estendeva davanti a me. Era proprio una bella visione. Rilassante.. Qui la musica arrivava a stento. Non si sentiva forte come dentro la discoteca. Mi appoggiai alla ringhiera. Diedi una sorsata al mio rum. Guardavo la piscina. Ma c’era qualcosa che non andava. La mia mente mi voleva dire qualcosa che non sapevo.. e il cuore batteva con quei battiti che volevano dire solo una cosa.. che un ricordo era sulla pista di atterraggio.

E mi coglieva impreparato. Dopotutto era la prima volta che venivo in quel luogo. Era la prima volta che osservavo questa bellissima piscina.

Era la prima vol..

Il  filo dei miei pensieri si fermò come un disco in vinile bloccato da una mano. Un flash mi attraversò la mente. Una foto. Una foto di questa piscina. Capii che non ero io ad esserci stato ma qualcun’altro.. o meglio.. qualcun’altra. Avevo solo visto questa foto. Con sullo sfondo questa stessa piscina. E mettendo bene a fuoco nella mia mente con le lenti della memoria, capii anche il perché di quel ricordo. La mente umana è strana. Non riesce a ricordare un nome appena detto.. eppure una foto di un bel pezzo di anni fa mi è ben chiara. E quel ricordo è stato così tanto potente da superare anche il mio stato di ebrezza. Do l’ultima sorsata al bicchiere.. con gli occhi delusi di chi mentre cena scopre di aver finito il pane. Così il ricordo venne a galla sul fiume dell’alcol e come una barchetta di carta scorreva e arrivava ai miei occhi.

E se qualcuno avesse potuto ingrandire la mia lacrima.. avrebbe visto il suo viso. Come lo vidi io anni fa. Sereno e felice di una nottata un po’ brava. Erano bei tempi quelli.. sia per me che per lei. Allora ancora non conoscevo tutti i lati della vita.. e lei, come impareggiabile maestra, mi accompagnò per un pezzo di strada. Una strada un po’ tortuosa.. ma bella uguale. Se non di più..

E la verità era che ..non l’avevo neanche scelta.. Capitò quasi per caso. E quasi per gioco ci ritrovammo a fantasticare guardando il soffitto di una comune stanza d’albergo.

Pensando che il futuro era troppo lontano per diventare presente..

Ci vuole sempre qualchecosa da bere.. (TorreSuda ’09) (II)

 

 

Li avevamo persi. Eravamo partiti con due macchine per questo lungo viaggio. E guarda caso, proprio come era nostro solito fare, ognuno faceva di testa sua. Erano finiti chissà dove. Al telefono tentavano di spiegarci la strada che stavano facendo. Ma il punto era che nemmeno noi sapevamo dove eravamo. Tecnicamente andavamo verso la direzione giusta. Verso sud. Ma se la strada che percorrevamo fosse stata giusta o meno non lo sapevamo.

-Ciro accendi il navigatore..-

-Te l’ho detto Luca.. ho l’antenna GPS scarica..-

Avevo dimenticato di ricaricare il mio GPS convinto che la batteria avesse retto tutto il giorno. Mi venne un idea. Rovistai nella mia monospalla nera alla ricerca di qualcosa. Quella borsa è sempre stata l’ultima speranza di ogni situazione. Potrei anche naufragare su un isola deserta o restare isolato su una montagna a 3000 metri.. ma se ho la mia monospalla con me mi sento al sicuro. Mentre cercavo pensavo che quella borsa ne aveva di storie da raccontare. Tra tutte le modifiche che le avevo fatto.. le aggiunte, le tasche segrete, i rinforzi.. quella borsa ne aveva passati di anni.. e di avventure…

 

 


     “Ricordo quella volta che ero a Firenze con i miei amici e decidemmo di andare agli Uffizi. Avevo la mia monospalla addosso e tra l’altro in quell’occasione c’era anche il mio giubbotto di pelle.

Mentre ero in coda non pensavo che all’entrata ci fossero stati il metal detector e i vari controlli. Pensavo a fare battute con i miei amici sull’ubriachezza molesta di certi orientali. Quando vidi il metal detector mi salì una vena di paura. Ero in una fila obbligata. Davanti c’erano i miei amici e dietro persone su persone. Osservai meglio.. c’era un poliziotto che controllava i turisti che passavano sotto al metal detector e ce n’era un altro al pc che osservava gli zaini che passavano ai raggi x. Confesso che vedere la foto della mia monospalla ai raggi x sarebbe stato divertente. Sorrisi.. ma non potevo distrarmi, dovevo trovare una soluzione. Le strategie erano: far aprire la mia monospalla al poliziotto e stari lì ore ed ore a farmi sequestrare il 90% delle cose o andarmene? Oppure, la più bella.. rischiare…

All’improvviso vidi il poliziotto al pc che si alzò e se ne andò. Colsi il momento e passai avanti ai miei amici piazzando la mia borsa sul tappeto scorrevole. Tutti espressero il loro disappunto ma il mio sguardo minaccioso li tenne a bada. Forse intimoriti dalla minaccia della notte prima di accoltellarli se non mi avessero lasciato dormire. La mia monospalla entrò sotto il canale dei raggi x.. osservavo il poliziotto davanti al metal detector. L’altro poliziotto entrò nella sala. Si sistemò la cintura dei pantaloni e si sedette alla sua comoda scrivania. Appoggiò il caffè su un lato ed osservò il monitor del pc che aveva lasciato incustodito.

Intanto.. ero già nel corridoio degli uffizi seguito dai miei amici..

Con il giubbotto sbottonato.. e la mia monospalla nera..”

                                                                                     


 

La macchina correva veloce. Luca sembrava aver dimenticato gli ammonimenti del padre. Armando dietro stava dormendo tra le valigie. Ed io ero ancora intento nella ricerca.

-Eccola!- esclamai alzando una batteria.

-Che cos’è?-

-E’ la batteria di riserva del mio cellulare..-

 

Smontai la mia antenna GPS. Tolsi la batteria e cercai di farci entrare quest’ultima alla meglio. Feci un po’ di spessore con un fazzoletto per tenerla ferma.

-Andiamo.. accenditi..- dissi speranzoso mentre tenevo premuto il tasto di accensione..

-SI! Abbiamo il navigatore!-

 

Sapevo che la mia monospalla non mi avrebbe deluso.

 

 

 

 

Quella sera..

 

 

La mia mente era distesa su un bel letto di neuroni in cancrena. Mi girava. Si svuotava di ogni pensiero maligno. Le inibizione cedevano lasciando spazio alla sfrontatezza. Non ero in me. Ero tutta un’altra persona, una persona che però mi piaceva. Mi sentivo indistruttibile con il cuore a mille, i muscoli pompati e la voglia irrefrenabile di uscire a spaccare il mondo. Dovevo farlo.. quella notte era mia. Volevo dar la buonanotte a mille ricordi e soprattutto al Ciro che ha bisogno di star male.

I ragazzi si preparavano per la serata.. chi si lavava.. chi si vestiva.. chi si dedicava all’artificeria.. chi metteva su canzoni..

Aspettavo stravaccato su una poltrona. Guardavo gli altri e sorridevo delle loro azioni. Volevo dire la mia. Volevo dire a ognuno di fare le cose in un altro modo, magari migliore. Ma in quel momento me ne fottevo allegramente. E per una volta smisi di rompere le scatole.

Il tempo correva e la mia percezione di quella sera lo sentiva ancora di più. Uscimmo.

Andammo in un pub sulla spiaggia. Scesi dalla macchina e come prima cosa mi fiondai al bar ad esigere la mia porzione di alcol. Presi la mia Tennent’s dal bancone e mi girai ad osservare il posto. Carino. Non era il solito pub. C’era un grande terrazzo in legno che dava sulla spiaggia. Sopra c’erano i tavoli e la gente che ordinava. Da un lato del terrazzo la cucina e il bar. Diedi un lungo sorso alla mia birra e adocchiai la cameriera. Riccia.. mora.. occhi chiari. Decisamente carina. Aveva un gran bel daffare quella sera mentre mi chiedevo come mai mi saltassero sempre agli occhi le cameriere. C’erano tante altre ragazze in giro, anche più carine di lei. Chissà perché l’avevo notata per prima? Chissà cosa m’intrigasse..

-Ciao Ciro!-

-Ciao Gaetano.. posso offrirti una birra?- Dissi.. dimenticando totalmente che il mio amico era celiaco.

Gaetano non ci fece caso rinunciando alla mia offerta.

-L’hai vista la cameriera?- disse.

-Certo..-

-Veramente bella..-

Sorrisi e brindai con la sua Coca-Cola pensando che non ero il solo a cui piacevano le cameriere.

 

Un ora dopo avevo il triplo delle birre in corpo. Stavo quasi per toccare il mio limite. E non sapevo se quella sera mi andava di battere il record. Intanto ero su uno scoglio a parlare con una tipa. Sembrava simpatica. Intrattenevo discorsi stupidi con battute orribili.. ma divertenti. Non si può pretendere molto quando uno ha la mente annebbiata. Veniva da Milano anche lei e subito attaccai con le mie storie. Di avventure e pazzie fatta in quella odiatissima e amatissima città. Lei non parlava molto. Le piaceva ascoltare.. ed essere quello che parlava di più in una conversazione mi faceva sentire strano, quasi importante. Lei rideva.

I miei amici erano su uno scoglio poco distante a fumare. Mi osservavano e sicuramente facevano i loro commenti. Continuavo a parlare con la ragazza non curandomi di loro. Le chiesi come mai fosse qui.. in questo posto desolato. E chissà che viaggio avrà fatto. Le raccontai il mio..

 

-…Davvero??!?!..-

-Certo!.. poi siamo finiti in un posto stile deserto del Colorado. Con tanto di terra rossa e arbusti che rotolavano. C’eravamo persi ancora! Nonostante il navigatore..-

-Divertente però..-

-Altroché.. e in ogni deserto che si rispetti poteva mancare il tizio che vede i meloni col carretto? Certo che no.. pensavamo che fosse un miraggio. Era solo.. in un angolo della strada..-

-Ed era vero?-

-Certo che era vero! Comprammo un melone. Ma non avevamo coltelli e stavamo pensando a come aprirlo. Proponevo ad ogni curva di aprirlo a morsi per la troppa sete.-

-ahahah-

-Per fortuna che trovammo una signora che ci prestò un coltello. Dovevamo proprio sembrare dei disperati.-

-Già..-

Appoggiai le labbra al freddo vetro della mia Tennent’s. La alzai di un colpo e lasciai scendere l’ultimo sorso di birra. Avvicinai la bottiglia e l’osservai meglio nella remota speranza che fosse rimasto ancora un goccio d’alcol. Niente..

-Questa è finita.. e ha deciso di non essere l’ultima..-

-Dai.. basta bere..- mi disse.

Mi girai e le feci un sorriso beffardo mentre mi allontanavo per andare al bar.  Cercavo di camminare senza inciampare tra i sassi di questa ipotetica spiaggia. Cercavo di non barcollare a destra e manca. Sentivo le gambe pesanti.

Quasi all’uscita della spiaggia mi si pararono davanti i miei amici. Volevano sapere della tipa e di come si prospettava la serata. Li mandai a cagare facendomi un varco con le mani. Ma loro non mi facevano passare.. volevano sapere.

Ad un certo punto sentii vibrare la mia tasca sinistra. Era il mio cellulare.

Lo presi e cercai di ricordarmi il codice di sblocco.

Un messaggio.. I miei amici osservavano la scena.

“chissà chi sarà a quest’ora”

Lessi il nome.. e pensai..

“Mi sa che un’altra birra non basterà..”

 

 

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