Un’isola italiana nel cuore di Parigi (la nouvelle de Paris III)

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(Ultimo giorno)

– Quelle est cette chose? –
– Je ne sais pas… –
Ero in un letto non mio… in un posto sconosciuto alla mia percezione. Cercavo di dormire ma dalla finestra entrava un filo di luce che mi colpiva il viso. Il vetro era aperto e sentivo delle voci provenire da fuori.
– …un bâton en plastique… –
– Comment est arrivé ici? –
C’erano due signori francesi che discutevano davanti all’ingresso di questo palazzo sconosciuto. Si stavano chiedendo chi avesse devastato il loro splendido atrio. Feci un sorriso malizioso e con un braccio tastai la spalla di mio cugino.
– O… che vuoi? –
– Mi sa che abbiamo fatto un gran bel casino ieri… –
– Speriamo che non chiamino la polizia! –
– Già… come faremo a spiegargli che non volevamo fare del male a nessuno? –
– Dormi che è meglio… –
Mi rimisi a dormire. Le voci erano scomparse. Tutto era scomparso… e soprattutto, tutto questo doveva ancora accadere. Era il futuro di una storia ancora tutta da scrivere. Una storia Parigina incredibile che cominciò qualche giorno prima… in una città, ancora inesplorata…


(Primo giorno)

Ero a Parigi!
Davvero! Ero a Parigi!
Ero nell’aeroporto di Orly. Avevo seguito il fiume di passeggeri fino al punto in cui si era dissolto diramandosi nelle varie direzioni. Ero al centro di una grande sala rettangolare. Imponenti lastroni di vetro ci dividevano dall’esterno, dove lo spettacolo era fantastico. Aerei provenienti da tutto il mondo atterravano e decollavano su chilometri sterminati di asfalto. Ero solo, ero ancora solo perché i miei amici dovevano ancora arrivare. Ero solo, e avevo un po’ di tempo per sognare…
Avevo superato quel confine. Ero riuscito a saltare nel vuoto. Il vuoto che per me era un bianco sterminato… e i luoghi erano solo storie di libri e un mucchio di geografia. Potevo vedere, sentire, toccare quel qualcosa che avevo ascoltato dalle spiegazioni dei professori liceali o visto in documentari e quadri d’arte. La mia percezione era obbligata a limitarsi al confine stretto tra inchiostro e fantasia. Il rumore delle pagine e il suo sfrigolio era l’unico suono che sentivo quando immaginavo. Li vedevo nella mia mente quei personaggi storici che avevano cambiato l’Europa. Vedevo Napoleone, alla testa del suo immenso esercito. Vedevo Luigi XIV, il re sole, immaginandolo con una lunga parrucca nera riccioluta. Vedevo la rivoluzione e quando la Senna si dipinse di rosso per tutto il sangue versato. Non potevo credere di essere nella città più importante del ‘700. Ero eccitato e impaziente. L’ansia del volo si era trasformata in ansia positiva… in ansia curiosa. Volevo vedere…

Brrrrr
Il mio stomaco brontolò come quando un bambino ti tira il pantalone perché vuole qualcosa. Scollai gli occhi dalla pista e cercai un posto dove rifocillarmi. Erano le 3 e non avevo ancora mangiato qualcosa. La mia ricerca terminò quasi subito quando vidi un’emme dorata in fondo alla sala.
Ringraziai il Dio delle multinazionali ed entrai. Era pieno di gente. Persone in fila e persone alla cassa, responsabili e inservienti… e io che mi guardavo intorno sentendomi per un attimo disorientato. Nemmeno una parola amica risuonava al mio orecchio. Mi sentivo strano… come qualcosa di esterno.
Che ci faccio qui? Mi domandai quasi dimenticandomi del mio stomaco.
Osservai il primo della fila che sciorinava un francese perfetto. Il cassiere non fece nemmeno una domanda e iniziò a preparare la sua ordinazione. La mia mente era così impegnata nella decisione della lingua da adottare che la fame era svanita. Fu il mio turno e one cheeseburger e one coke fu la scelta più adatta. Il cassiere capì e mi rispose con una domanda incomprensibile. Annuii col capo due volte e mi ritrovai con una salsetta inutilizzabile perché non avevo le patatine. Mi sedetti in un posto e mangiai il mio panino. Mi accorsi che vicino al tavolo c’era uno sportellino rotondo. Lo aprii perché le mie dita sono sempre state curiose.
Alla vista restai sbigottito. Era una presa elettrica francese. Formata da due buchi e un perno di ferro che fuoriusciva quasi al centro. Era completamente diversa da una normale presa.
“Cazzo! Calma Ciro… stai calmo… respira… Il tuo amico Antonio è italiano… casa sua sarà italiana… avrà delle prese italiane…”
Rigirai più volte il cellulare in mano con il pensiero fisso di chiamarlo e appiattire la mia paranoia. Se non fossi stato in grado di ricaricare il mio cellulare o il mio pc mi sarei impiccato con il cavo dell’alimentatore.
Mi alzai e buttai i rifiuti nel cestino. Una signora anziana mi si avvicinò e in un francese molto stretto mi chiese qualcosa…
– Excusez-moi, madame… Je suis italien! – le dissi.
“L’ho detta bene? Come sono andato? Dammi un voto da uno a dieci…” pensai mentre la fissavo.
La signora mi fece un mezzo sorriso e se ne andò. La guardai un po’ deluso come quando studi tutta la notte e il giorno dopo vai male all’interrogazione.
Fa niente… sarà per la prossima volta.
Tornai nella sala centrale e il grosso divano a forma di serpente o di S arancione, allettò la mia stanchezza. Appoggiai il mio trolley e mi distesi sopra. Avevo bisogno di dormire. Avevo passato la notte in bianco e non avevo ancora preso un maledetto caffè. Chiusi gli occhi… ma non entrambi, uno solo, l’altro restò vigile e in guardia. Come solo un ansioso paranoico riesce a fare.

Biiip…
Mi arrivò un messaggio. Era di mio cugino Ciro e diceva che erano arrivati ad un certo imbarco B ad Orly ouest. Scattai sugli attenti come un soldato di fanteria. Presi il mio trolley e scesi le scale. Inclinai il capo in alto. Centinaia di cartelli distraevano la mia attenzione.
“Orly ouest! Eccolo lì…”
Camminai in quella direzione. Camminavo e camminavo ma non raggiunsi nessun arrivo di voli. Arrivai ad un punto morto. Vidi un altro cartello…
“Orly ouest! Allora è dall’altra parte!”
Ritornai sui miei passi e raggiunsi l’altro lato dell’aeroporto. Niente. I miei amici non erano lì. Avevo perlustrato ogni dove. Chiamai Ciro.
– We! Dove cavolo siete? Vi sto cercando da un quarto d’ora! –
– Orly Ouest! Tu dove sei? –
– Beh… io sono a Or… –
Mi venne un dubbio. Possibile che i terminal potrebbero essere due? Cercai qualche cartello che me lo dicesse… e infatti…
“Orly sud!”
– Cazzo! Sono a Orly Sud! –
– Ve bene… non ti preoccupare… veniamo noi la… ciao! –
Attaccai il telefono e lo lasciai scivolare in tasca. Mi sovvenne un po’ di timore che non sarebbero riusciti a trovarmi. I miei amici, presi singolarmente, sono intelligenti e responsabili. Ma chissà perché quando si mettono insieme, tutto l’acume svanisce. In quel momento contavo su di loro. Sapevo che non mi avrebbero abbandonato.
Biiip messaggio:
Siamo fuori Orly sud, ci stiamo fumando una sigaretta.
Normale. Il lavoro di ricerca toccava ancora a me, ma almeno avevano fatto un passettino. Sorrisi. I miei amici non cambieranno mai… e del resto nemmeno io.
Percorrevo il corridoio interno osservando l’esterno dalle porte a vetri. Avanzavo svelto e ad un certo punto sentii picchiettare sul vetro.
Erano quei due che tranquillamente fumavano. Li salutai e cercai la porta più vicina. Ero felice. Mi fiondai all’esterno e li abbracciai.
– Come va Antonio? –
– Tutto a posto. –
– E tu Ciro? –
– Mha… il volo è stato un po’ traumatico. –
– Davvero? Vabbè… però siete qui sani e salvi! –
– Già! Ora andiamo a casa mia! – disse Antonio capeggiando la fila.
– Ah! Antonio scusa un attimo… ma le prese della corrente a casa tua come sono? –
Antonio fece un sorriso e guardò mio cugino… poi con una faccia come per dire “ma che domande sono” mi rispose:
– Italiane Ciro… sono italiane! –

Si va in scena!

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Si accendono i riflettori.

La scena è ben inquadrata. Un leggero walzer domina il silenzio. La penombra e la foschia curano l’ambientazione di questo teatro deserto. Le poltroncine sono tutte vuote, ad eccezione di una. Una soltanto a circa metà della sala. C’è seduto un ragazzo. In mano ha un block-notes tutto spiegazzato. Lo poggia con non curanza sulle gambe accavallate.

Scrive..

La penna scorre veloce e sicura. Le parole sembrano conoscere alla perfezione il presente e il passato.

Si ferma..

Il foglio resta bianco a metà. Ha gli occhi fissi sul palco. Sembra aspettare qualcosa. Gioca con la penna. Lentamente la fa girare tra un dito e l’altro. Impaziente aspetta, mentre nella mente scorrono i pensieri.

Vita.. corse.. viaggi.. posti finestrino.. candele.. biglietti.. multe.. colori.. strade.. luci.

Sentirsi padroni della vita è una cosa fantastica. Ma sentirsi padroni di poterla raccontare lo è ancora di più. Era questo il potere che aveva nelle mani quel ragazzo.

Una semplice biro dall’inchiostro nero.

Una bacchetta magica che permette di ricordare il passato. Di fissare i ricordi.. di riempire fogli e quaderni.. pagine e lettere.. e piangere e ridere di storie ormai andate.

Ma tutto ciò doveva ancora avvenire.

Quella penna era ferma sul foglio bianco.

La storia da scrivere doveva ancora iniziare..

Si spalanca il sipario e una forte luce inonda la sala.  Si va in scena…

 


Atto I

29 aprile. “farei di tutto per te”

 

Eravamo seduti comodamente al Barin a sorseggiare la nostra amata ceres old nine. Il sottoscritto giocava a far roteare il proprio anello sul tavolo. Proprio come quando ha qualcosa da dire. La mia ragazza era seduta accanto a me con la faccia un po’ triste mentre il mio braccio le passava intorno al collo.

-Cosa c’è piccola?-

-Niente… è che sto passando gli ultimi giorni da diciassettenne così.. volevo qualcosa.. qualcosa di più..-

La guardavo. Aveva ragione. Non ricordo nemmeno le innumerevoli pazzie che ho compiuto prima di diventare grande. Pazzie poi.. le solite marachelle che quasi ognuno di noi ha commesso in gioventù. Non credo di certo di essere speciale. Chi non si è mai fatto sequestrare il motorino.. o fatto le ore piccole quando non poteva.. o vagabondato senza meta in preda ai fiumi dell’alcol. Ora non venitemi a dire che siete tutti santarellini!

 

-Quindi domani sarai in viaggio?-

-Si.. domani mattina parto e vado a Napoli..-

-Piccola lo sai che se restavi qui ti organizzavo una cosa carina.. come faccio sempre..-

-Come fai sempre?.. cioè rovinare le cose carine con le tue solite battute?..-

(Dannato senso dell’umorismo).

 

E la storia era questa. La mia ragazza non sprizzava gioia nel sapere che avrebbe passato il giorno del suo diciottesimo a casa con i parenti. Voleva qualcosa di speciale. Una sorpresa. Come per esempio.. prendere l’aereo e scendere a Napoli senza che lei lo sapesse.. e comparire a casa sua. Magari con un mazzo di rose rosse…

 

-Ciro.. a che stai pensando?..-

-A domani.. (cavolo)..-

-Che fai domani?-

-Ehm.. mi alzerò tardi come al solito.. e forse mi metterò a studiare..-

Pericolo scampato. Stavo per mandare all’aria tutto il piano. Non potevo fallire. I biglietti dell’aereo mi aspettavano a casa. Nascosti a dovere.. il trolley pronto e il pc sempre carico.

 

Mi guardava..

Come per dire “vieni con me domani”. Mi voleva alla sua festa. La strinsi un po’ a me. Le carezzai la guancia. Sentivo l’odore dei suoi capelli.. della sua pelle. La sentivo calma e sicura tra le mie braccia.. proprio come un piccolo gattino con la coda pelucheosa.. direbbe lei. Vorrei tanto dirglielo. Vorrei vedere il sorriso dipinto sul suo volto. Vorrei dirle “ci sarò”.. e lei salterebbe in aria dalla felicità. Ma non ora… non adesso. La sorpresa deve ancora arrivare. Per il momento le nascosi un bigliettino nella borsa con su scritto..

 

“Farei di tutto per te…”

 


Atto II

30 aprile.. sui cieli d’Italia.

 

La sveglia non suonava. Il perché? Mancava ancora mezz’ora. Capita spesso che mi alzi mezz’ora prima che suoni la sveglia. Chissà perché. Forse il corpo inizia già ad accendere i motori prima che la sveglia devasti il sonno.. o forse era pura e semplice ansia da parto. (nel senso di partire ovviamente)

Bene.. cerchiamo di non perdere l’aereo.

Allora.. trolley.. notebook.. anello..

Entrai nello stanzino dove c’era l’appendiabiti. Sul lato sinistro c’erano tutti i miei cappotti appesi. C’era il cappotto lungo nero invernale, il cappotto imbottito in piuma d’oca, il giubbotto di jeans e infine lui… il mio vecchio cappotto di pelle, immancabile compagno di mille avventure. Decisi..

Voglio lui con me

 

Ecco.. questa è la mia vita..

Ci sono cose a cui sono molto affezionato. E quel dannato giubbotto è una di quelle. Ma ora non voglio divagare. Questa non è la sua storia.. questa non è la sua scena.

In scena invece c’era un aereo. Su quell’aereo c’ero io che guardavo dal finestrino il paesaggio lentamente avvicinarsi. Stavo per atterrare a Napoli..

Ad attendermi all’aeroporto c’erano i miei amici. Quei due vecchi scapestrati dall’aria intellettuale. Enzo e Mario.

Ero a Napoli.. Ma tecnicamente ero a Milano nel mio appartamento a cercare di abbattere la noia. La mia ragazza non doveva saperlo. Doveva sembrare tutto normale.

Mi chiamò.. e non potei risponderle. L’interfono era troppo forte per una scusa sulla televisione. Uscii dall’aeroporto.. salii in macchina e via.

Fine secondo atto.

 


 

Atto III

1° maggio.. la festa..

 

Ero a Napoli a casa dei parenti della mia ragazza accuratamente nascosto in una stanza. Spaesato e impaziente di incontrare la mia lei, vagavo intorno al tavolo. Il mazzo di rose l’avevo poggiato sul letto. Sul mio volto un leggero sorriso. Pensavo alla sorpresa che di li a poco stava per avvenire. Non se lo aspetterà mai. Mi conosce.. Egocentrico cinico bastardo, mi definirebbe. A volte non mi comporto nel migliore dei modi. E riconosco che lei davvero non se lo merita. Meriterebbe di meglio. Magari un ragazzo normale.. con i fiori sempre pronti e il cellulare sempre acceso.. che si fa sentire spesso e non soffre di “pigrizia da trasporto”. Povera.. non le ho nemmeno fatto gli auguri a mezzanotte. Anche se lei dovrebbe saperlo che non sono il tipo dagli auguri a mezzanotte. Ma questa non è una scusa. Sarà incazzata nera. Mi farò perdonare… come al solito.

Nella stanza c’era una finestra che dava sul cortile. Accostai un po’ l’anta. Si vedeva il vialetto da cui sarebbe arrivata.

Si fermò una macchina.

Eccola..

Scese..

Era bella nella sua semplicità. Sorrisi. Si avvicinò alla porta d’ingresso. E’ bella davvero pensai. Mi preparai.. presi il mazzo di rose rosse e mi avvicinai alla porta. Nell’altra sala sentii urlare “sorpresa”.

Bene. Fra poco sarà il mio momento. Eccola che arriva..

E uscii dalla porta…

Mi trovai davanti ai suoi occhi.

-E tu cosa ci fai qui?- restò scioccata dalla mia presenza. Cercava di capire se era un sogno o no. Cercava di capire se ero vero o no. Mi diede un bacio fugace. Una leggera lacrima le scese.

Era felice.. e questa volta c’entravo un po’ anche io.

 


 

Atto IV

il lungomare..

 

Il sole stava tramontando sul mare dipingendo il cielo con tonalità rossastre. Camminavamo mano nella mano sul lungomare di Napoli. In lontananza si vedeva il Castel dell’ovo. I nostri passi si avvicinavano a quell’immensa massa di storia medioevale. Il tempo sembrava che per una volta non avesse importanza. Potevamo finalmente guardare il sole tramontare insieme, senza guardare l’orologio. Di solito a quest’ora dovevo riaccompagnarla a casa.. con il solito treno e il solito pullman. Capitava raramente che potevamo goderci un momento insieme senza dover correre a destra e manca per Milano..

 

-Grazie di essere qui.. sembra un sogno..-

-In fondo non ho fatto niente piccola..-

-Sei venuto qui apposta per me..-

-Farei di tutto per te.. te l’ho scritto..-

-Si.. ho con me il tuo bigliettino.. eccolo..-

Me lo mostrò. Forse un po’ lo sospettava. Forse un po’ lo sognava..

I suoi occhi erano ancora lucidi. Il suo cuore batteva. E le onde s’infrangevano sugli scogli bianchi.

-Fermiamoci qui.. sediamoci sul muretto..-

Ci arrampicammo alla meglio sul muretto che costeggiava il lungomare. I nostri piedi ballavano nel vuoto.. e sotto di noi gli scogli. La veduta del mare era stupenda. L’abbracciai.

-E’ fantastico tutto ciò… sembra niente.. ma è stupendo..-

-Hai ragione..-

-E dire che tu avevi già i biglietti dell’aereo ed io non sapevo niente..-

-Sono molto bravo a nasconderti le cose!-

Mi diede uno schiaffetto sulla nuca.

-Scherzavo! Scherzavo!-

 

Un leggero venticello le ondeggiava i capelli. Era tra le mie braccia. Le carezzavo la fronte. Le sussurravo parole dolci all’orecchio mentre il sole continuava a volar giù.

Dietro di noi c’era un via vai di gente. Persone.. famiglie.. amici.. passanti e coppiette come noi che si tenevano la mano. C’era un po’ di tutto li.. un po’ di vita normale che faceva da sfondo al nostro piccolo e intenso sogno.

Eravamo noi..

Io e lei..

A sorridere dei guai che ci accompagnavano ogni giorno. A pensare e fantasticare a come sarà il domani. Il nostro domani.

 

-Guarda.. la Luna..-

-C’è anche lei qui con noi..-

 

La scenografia era fantastica.

Il mare dava il dolce suono delle onde che costantemente si abbattevano sotto di noi. Gli scogli bianchi ad attutire il colpo creavano un sottile retroscena. Il golfo di Napoli era una perfetta ambientazione per lo scorrere degli eventi. Il direttore di scena lissù s’era dato un gran bel da fare quest’oggi. Aveva curato le luci con le stelle.. dettagliato lo sfondo con le barche e aggiunto il particolare storico del castello. Non si può far niente.. “Lui” è un vero maniaco dei particolari. Dovrei ringraziarlo qualche volta.. Soprattutto ora che sembra tutto perfetto. Come quando lo immaginavamo stesi sul letto a romanticare.

 

La dolce voce del vento e la leggera luce della luna accompagnavano i nostri baci.  La mente, il corpo, e il cuore di entrambi avevano una sola direzione.

Toccare la dolcezza con un dito..

 

..Fine dell’ultimo atto..

 

 

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Il ragazzo nella sala continuava a scrivere. Non voleva fermarsi più. Osservava la scena e scriveva.

Cercava di non perdere il più piccolo particolare.

Cercava di regalare alla mente ogni singolo ricordo.

L’inchiostro sembrava non finire mai e le pagine si accumulavano una sull’altra. Non vi erano cancellature. Le parole scorrevano leggere e precise. Uniche e inconfondibili.. come perfetti scrigni che racchiudevano tutto il senso della storia. Della loro storia. Perché in fin dei conti cos’è una storia? Solo ricordi e parole.. e inchiostro buttato su un foglio di carta nel giusto ordine.

Il ragazzo smette di scrivere..

Purtroppo come in ogni storia.. e a malincuore in una bella storia, giunge la fine.. e con essa il punto più deciso e marcato del racconto. E la penna non si stacca.. non si vuole staccare..

Il sipario si chiude lentamente.

Una lacrima scorre..

Alternata da un piccolo sorriso.

Perché quel ragazzo sa..

..che continuerà a scrivere ancora di quella storia..

Monotonia… leggero tocco di libertà…

Monotonia Leggero Tocco di Libertà

Vita vita vita…

Sugli stessi passi mi trascinavo da giorni. Sulle stesse lunghe vie. Nella stessa grande città. Quella vita sembrava un gioco di specchi. Uno straordinario spettacolo d’illusioni che si ripetevano ogni giorno. Era difficile ammetterlo. Ma la vita in solitaria mi stava ustionando. “L’hai scelto tu”… mi dicevano… “ed ora vai… fino in fondo…”. Tre anni. Era quasi una prigionia. Io prigioniero delle mie scelte che dentro di me urlava di uscire. Era il Ciro delle bravate… delle notti bianche… e dal tasso alcolico sempre in salita. E lo reprimevo dentro. Perché avevo scelto la vita da bravo ragazzo. Avevo scelto di essere così: calmo, tranquillo e preciso. Ed ero prigioniero di quello stato… di quelle quattro mura e del suo interno. Prigioniero di libri incompresi e di appunti fugaci… di ore in metro e ore in uni… ore di semi libertà che come un prigioniero mi guadagnavo in settimana. Avevo la mente che scoppiava e la voglia di vivere nel sangue. Tremavo al solo pensiero della mia macchina che correva senza di me sulle strade… sulle mie strade. In quel posto che non aveva ancora perso il nome di “casa”. 

Ho messo via un bel po’ di cose diceva qualcuno. E chi conosce almeno un briciolo di me… sa per certo quanto io riesca a metter via le “cose”.

Dannati ricordi.. continuano a tornare… nonostante anche le mie recenti amnesie. Come si fa? Come si fa a dimenticare tutto?

Forse non era questa la strada… forse la strada era continuare a creare ricordi… in modo che gli altri non abbiano il tempo di ritornare. Già…

 

Aeroporto di Malpensa..

 

– Correte!! Su! Siamo in ritardo!! –

Il sole entrava dalle grandissime vetrate alla mia sinistra. I miei passi erano gli unici a sentirsi in quell’enorme edificio. Il mio zainetto traballava mentre correvo a perdifiato.

Guardai in alto il grande orologio digitale.

9.23

– Cazzo cazzo… siamo in ritardo!! –

Mi girai indietro e vidi che avevo distanziato di parecchio Luca e mio cugino Ciro. Li guardai per un istante come per dirgli “Dannazione muovetevi!” ma non sembravano aver inteso.

Continuavo a correre.

Alla mia sinistra scorrevano le insegne dei vari imbarchi…

D-09

D-10

Ci siamo quasi. D-12 eccolo. Ci sono. Arrivai al banco stremato. L’hostess e un tizio pelato mi guardarono allibiti.  – Dobbiamo imbarcarci… – dissi con un briciolo di fiato.

– Troppo tardi ragazzi… –

– No no… dobbiamo imbarcarci! – ripetei come se non mi avesse capito.

– Non si può più! Vede quell’aereo lì fuori… Il pilota sta già rollando… –

– Cazzo… –

In quel momento arrivarono anche i miei compagni. Videro la mia faccia e capirono all’istante.

– Ed ora che si fa? –

– Bè… ragazzi potete andare in biglietteria e vedere se vi cambiano il volo… – disse il tizio pelato.

Ci guardammo.

– Si… dai… torniamo indietro… –

– Che sfiga… vabbè… una volta nella vita bisogna perdere l’aereo… – disse Luca.

– Sai che bello se questo aereo cade e noi ci salviamo! –

– Già… come in Final Destination… –

– Metti che cade quello che prenderemo ora e quello no… – dissi io.

(Grattata scaramantica generale)

– Fermi fermi… guardiamo su questo schermo quando ci sarà il prossimo. Dunque.. Bari… Roma… Napoli… Ecco. 14.30. –

– Cavolo… così tardi… che facciamo fino a quell’ora? –

(Fruscio di vento stile deserto)

– Ok! Iniziamo col tornare in biglietteria. –

 

L’operazione in apparenza sembrava facile. In fondo dovevamo solo tornare sui nostri passi. Ma di ostacoli ne trovammo parecchi. Scale mobili a senso unico, tornelli, lunghi corridoi… quell’aeroporto sembrava costruito in modo che non si potesse più tornare indietro. Come se la perdita di un aereo fosse una cosa non concepita. Continuavamo a camminare. Lentamente questa volta. Dalla grande vetrata vedevo un aereo che stava partendo. Magari era il nostro… e fantasticavo sull’immenso spazio della pista d’atterraggio. Non sapevo perché ma m’incuriosiva. Era un gigantesco luogo… e tutto in confronto sembrava più piccolo. La prima volta che presi l’aereo non potetti ammirare tutto ciò. Perché arrivai a Milano che era notte fonda… e l’oscurità copriva il panorama. Ora invece la luce era ovunque e potevo ammirare quest’immensa realtà… fatta di aerei mastodontici, enormi sale d’aspetto, lucine intermittenti… e la torre controllo lontana…

Guardai avanti… i miei compagni di viaggio mi avevano distanziato. O forse ero io che avevo rallentato il passo. Eccoli lì… alla fine di quella fugace avventura durata 5 giorni. Tra litigi, battibecchi… e storie assurde…

Come quella sera che andammo a Cius… e che dopo tre giri di bionde invitammo la giovane cameriera ad alloggiare nel nostro albergo al parco della vittoria. Oppure quando nel ritorno a casa suonammo i campanelli di tutta Milano… come giovani adolescenti non contenti della loro età. Per non parlare delle passeggiate sui navigli alle tre di notte… quando ormai non c’era più nessuno… e tornare a casa era sempre un’impresa. Ma alla fine si ritornava sempre lì… dall’alto del mio balcone a fumare la solita sigaretta guardando la strada… e passare le notti insonne perché Luca, russava da Dio.

Ed ora li vedevo lì… che discutevano di non so quale discorso assurdo. E non sapevo cosa avrei fatto se loro non  fossero esistiti…

Non so cosa farei se loro, ogni tanto, non spazzassero via…

…quest’aria di malinconica monotonia…

 

Alla prossima ragazzi..

 

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