Calabria Coast to Coast 2016 #12

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Qualche chilometro dopo raggiungiamo il mare curiosi di vedere il luogo fisico dove sono stati ritrovati i Bronzi: Riace

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In questo splendido mare decidiamo di prendere una canoa!

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Dopo qualche immersione non andata a buon fine… decidiamo di asciuguardi al sole e scegliere la prossima tappa…

Arrivederci Riace!

 

Little red ball (I) (Marina di Camerota ’09)

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Ora…

 

 

– Ehi piccoletto… ho saputo che domani parti..-

– Già… –

– Allora ci salutiamo… –

– Si… –

Mi guardò per qualche secondo. Il desiderio di restare ancora, gli si dipingeva in volto con un velo di tristezza. Purtroppo non poteva, la sua vacanza era giunta al termine. Il bambino corse via disperdendosi tra le persone.

Il piccolo anfiteatro era gremito di gente. Alcuni ballavano i balli di gruppo vicino al palco, altri chiacchieravano sulle panchine. Molti si salutavano, di lì a poco avrebbero lasciato tutto questo. Ed io ero lì ad osservarli, seduto comodamente su una delle panchine. Come se in scena si svolgesse l’ultimo atto di quella vacanza. L’ultimo per gli altri, il giro di boa per me. Un’altra settimana mi attendeva…

E chissà come sarebbe andata…

 


Qualche giorno prima…

 

Camminavo lungo un sentiero asfaltato in direzione della piscina. Sentivo uno strano odore di pittura confondersi a quello degli oleandri e degli ulivi. L’inserviente del villaggio stava dipingendo il cartello che indicava la direzione per il bar e il ristorante. Gli passai di fianco per andare in piscina. Mi sorrise come per strappare un attimo di pausa al duro lavoro. Gli sorrisi anche io, mi dispiaceva sapere che lui era lì a lavorare ed io qui a rilassarmi.

Da lontano si sentivano le urla dei bambini che scendevano sull’acquascivolo e si scaraventavano nella piscina. Sembrava divertente guardarli. Non ricordavo nemmeno l’ultima volta che andai su un acquascivolo. Era stato un bel po’ di tempo fa… un bel po’ di anni fa. A quei tempi sì che correvo sulle scale per salire su quegli aggeggi… e dovevano tirami con forza per farmi tornare a casa. Proprio come ora facevano questi bambini davanti a me.

Scelsi una sdraio. C’era molta gente. Mi stesi… mi misi al sole. Avevo bisogno di rinvigorire la mia abbronzatura.

Guardavo le persone… chi si tuffava.. chi schizzava.

Arrivò mio fratello che poggiò l’asciugamano a fianco al mio. M’invitò a fare un bagno ma non ne avevo voglia. Si allontanò.

Il mio fratellino. E’ più piccolo di me di età… ma fisicamente quasi mi batteva. Era cresciuto in altezza e aveva messo su un bella massa muscolare. A volte le persone ci scambiavano per gemelli… ma pronunciando le nostre età restavano allibiti. Il dubbio era: ero io che sembravo più piccolo o lui che sembrava più grande? Di certo un po’ d’invidia ce l’avevo… avessi ancora 17 anni. Non so cosa farei… ma di certo sentirei meno il peso degli anni, come in quel momento…

In passato non avrei mai detto di no a un tuffo. Sarei stato io a chiederlo a lui. E se avesse risposto di no, lo avrei gettato in acqua con tutto lo sdraio. E poi mi sarei gettato anche io… e tra gare di nuoto e lotta in acqua… tra corse e tuffi, le lancette degli orologi ci correvano dietro… e una vita ci bastava e come… ma la mattinata no di certo.

Comunque vada, gli anni passano… sta solo a noi cercare di goderceli.

La pallina rossa sbucò dalla mia borsa, come un essere vivente che vorrebbe vedere la luce ogni tanto. Presi gli occhiali da sole, le cuffie e non seppi dire di no anche a lei.

Mi sdraiai di più… Mi godevo il sole che batteva sulla mia pelle. Osservavo la mia abbronzatura. Intanto giocavo con la pallina facendola passare tra le dita… e la musica correva…

Do you know what’s worth fighting for,

When it’s not worth dying for?

Does it take your breath away

And you feel yourself suffocating?

Does the pain weigh out the pride?

And you look for a place to hide?

Did someone break your heart inside?

You’re in ruins

 

One, 21 guns

Lay down your arms

Give up the fight

One, 21 guns

Throw up your arms into the sky,

You and I

 

I Green Day suonavano la loro musica. Quella canzone la amavo. Sembrava seguire attentamente i battiti del mio cuore. La pallina, intanto, continuava a girare tra le mie dita. Bella amica di sempre… la mia rossa sfera gommosa. Sembrava non staccarsi mai… anche se a volte vacillava, riuscivo comunque a recuperarla. Non la guardavo neanche più… solo sentirla tra le mani mi faceva stare bene.

Un signore con gli occhiali da sole stava facendo un video alla propria figlia. Lei era in acqua che schizzava alcuni compagni. Si stavano divertendo. Dall’altro lato della piscina, l’animatore faceva strane smorfie a dei bambini. All’improvviso, una ragazza in bikini mi passò davanti. Aveva un fisico longilineo interrotto a tratti da un costume azzurro. Continuavo a guardarla voltando la faccia da una lato e questa invitante distrazione mi fece perdere la concentrazione sulla pallina che cadde rotolando verso il bordo della piscina. Mi alzai lentamente come se non fosse successo niente. Velocemente un bambino uscì dall’acqua. Sicuramente aveva osservato tutta la scena e soprattutto la mia pallina rossa. Me ne preoccupai poco, ma quando lo vidi afferrare la pallina e scappare via, sgranai gli occhi:

– EHI! TORNA QUI!! Quella è mia!! –

Il bambino si girò indietro mi guardò e sorrise. Voleva che io stessi al suo gioco. Forse nemmeno immaginava quanto tenevo a quella cosa. Forse pensava che era una semplice e stupida pallina rossa. Un oggetto per giocare. No! Quella era la mia pallina rossa! Dovevo riaverla.

Cominciai a correre dietro al bambino, evitando persone, saltando tra le sdraio cercando di non scivolare. Insomma, un vero e proprio inseguimento rocambolesco tra un ventenne e un tredicenne. Cercavo di non immaginare l’ilarità che provocavo nella gente che mi guardava, mentre tentavo come un disperato di acciuffare quel ragazzo.

– Ehi! Ridammela! –

– No! Questa viene via con me! –

Dannazione! Quel bambino era fermamente ostinato a non cedere. Per certi versi mi ricordava qualcuno, ma non c’era tempo per pensare. Il piccoletto voltò in un vicolo dietro la piscina. Lo seguii…

– Sono qui! Non mi prendi! – e corse su per delle scale di ferro.

Ed io gli andai dietro.

Gradino dopo gradino fui in cima. In pratica era la torretta da dove partivano gli acquascivoli che finivano in piscina. Era abbastanza alta da vedere quasi tutto il villaggio. Era abbastanza alta da poter buttar giù una pallina e non ritrovarla mai più.  Un brivido mi scosse, al solo pensiero.

Cercai il bambino tra le persone che aspettavano di scendere. Eccolo.. era in piedi vicino all’acquascivolo blu e mi faceva le smorfie.

– Se ti prendo… –

Cercai di andargli vicino ma una mano mi bloccò. Era il bagnino che mi fece segno di aspettare il mio turno. Il bambino l’aveva ancora vinta. E mentre aspettavo, fremendo per l’impazienza. Il piccoletto non si tuffava ancora. Sembrava volermi aspettare e quando il bagnino mi diede l’ok, lui subito si gettò dentro l’acquascivolo blu. Gli piombai dietro ma non feci in tempo ad acciuffarlo che scese giù. Ed ora toccava a me. Scendere o non scendere… buttarmi o non buttarmi… la mia pallina rossa era con lui. Le persone dietro aspettavano.. il bagnino mi face un fischio col fischietto. Mi buttai…

Ciro… sull’acquascivolo.. questa era proprio da non perdere…

 

 

Piove… (Sara I)

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Pioveva…
Pioveva in quella piccola città. Le nuvole sembravano non voler smettere più. Di acqua dal cielo ne scendeva un’infinità mentre i passanti cercavano un riparo. Era notte, e mi aggiravo tra le strade in cerca di un rapido spuntino. Il McDonald di Porta Venezia era lì che mi aspettava in fondo alla strada. Vedevo la scintillante insegna mentre alcune gocce mi colpivano il viso. Il giubbotto di pelle sembrava ripararmi a dovere. Ormai era abituato. Ne aveva presa tanta di acqua in passato proteggendomi da numerosi malanni. E certe volte mi ha protetto anche da me stesso. Quando uscivo di casa con la coscienza sporca e nascondevo la mia faccia dentro al suo cappuccio.
Una sirena iniziò a suonare alle mie spalle. Mi girai di botto. Era un’autoambulanza che stava facendo inversione in mezzo al traffico per poi fuggire nella direzione in cui stavo andando. Correva. Anche se la strada era tutta bagnata. Era un po’ pericoloso per i miei gusti. Anche se molto spesso, devo confessare che lo facevo anche io. Mi diverte molto il rischio… mi diverte l’imprevedibilità…
Entrai nel McDonald. Strusciai i piedi sul tappeto e tolsi il giubbotto. Mi guardai un po’ intorno intravedendo quelle quattro persone dai volti assenti. Mi diressi verso il banco e ordinai il mio solito menù. E mi assicurai, come ogni volta, che dentro al panino non ci mettessero i cetriolini. Sono fatto così… anche se sapevo che non ci sarebbero stati… domando sempre. Magari qualche cinese non sa leggere le ricette e ce li mette dentro! Chi lo sa? Vabbè… mettendo da parte le mie paranoie sui cetriolini, presi il mio vassoio e andai al solito posto. Un “posto finestrino”… come lo definivo io. Mi sedetti e incominciai a mangiare. La pioggia continuava incessantemente il suo lavoro. Ed io da una sorta di vetrina al contrario, osservavo questa specie di film in cui gli attori scappavano dalla scena… le macchine correvano.. i passanti aspettavano il loro verde per poter attraversare.. i loro ombrelli erano zuppi e la strada piena di pozzanghere… pioveva… e le gocce bagnavano il vetro… 
Proprio come quando lei piangeva…
 
 
 
 
…Molto tempo fa…
 
 
 
Ero seduto alla panchina della fermata di un autobus urbano. Ero sceso da poco ed aspettavo che arrivasse la persona che dovevo incontrare. Erano da poco passate le 4 di pomeriggio, ma sembrava sera poiché le nuvole erano talmente scure da non far passare il sole. “Sicuramente verrà a piovere” pensai, mentre volgevo lo sguardo al cielo. Alle mie spalle c’era la villa comunale e si sentiva la gente chiacchierare allegramente mentre passeggiava. Avevo imparato a conoscere Benevento da poco. Da quando mi ero trasferito in quella scuola. E lì avevo fatto nuove amicizie. Si sa… negli anni del liceo si fanno le amicizie migliori. Quelle che ti accompagnano per un bel pezzo di vita e non ti mollano più. Certe volte però, quelle amicizie non provengono dalla scuola in cui hai passato gli anni migliori ma si accodano alle altre, arricchendo la lista delle persone su cui poter contare.
Il mio telefono squillò.
Sms
“scusa il ritardo… sto per arrivare… ciao”
Staccai lo sguardo dallo schermo del mio piccolo 6600 tutto colorato di nero. Tornai a fissare le macchine con l’occhio di chi cerca qualcosa. Non sapevo come sarebbe arrivata e non sapevo nemmeno da dove.
Guardai a destra e sinistra seguendo la scia degli autobus. Le macchine scorrevano lente incastrandosi come pezzi di puzzle in una via multicolore. Una goccia mi colpì il dorso della mano. Mi asciugai con un lembo del giubbotto. Alcuni pensieri attraversarono la mia mente come un treno in corsa. Pensieri tristi e malinconici che solo una goccia di pioggia avrebbe potuto scatenare. Mentivo… mentivo a me stesso per sentirmi bene e speravo che un giorno tutte le cose si sarebbero sistemate. Perché? Quando? Dove mi avrebbe portato quella strada che avevo intrapreso? Chiusi gli occhi per un istante cercando di dimenticare. Ma nemmeno il buio poté contrastare l’assordante rumore dei miei problemi. Di solito avevo un metodo per risollevarmi un po’ da qualche casino in cui ero immischiato. Guardavo il tutto con un’ottica di una persona esterna. Alienandomi dalle situazioni spiacevoli e dalle complicazioni… e ridendone a volte. Passavo intere serate con la mente sgombra… vivendo giorno per giorno… attimo per attimo. Ma quando il tutto toccava di nuovo quota zero, allora si che entravano i casini. Mi richiudevo in me stesso lasciando che la vita bussasse alla porta che raramente aprivo. Aspettavo che la persona giusta entrasse. Ma si sa… le persone giuste… sono difficili a trovarsi.
 
Toc toc
 
Una mano leggera bussò alla mia spalla. Mi girai di scatto e vidi Sara in tutto il suo splendore.
– Scusami per il ritardo… – disse, come colpevole di qualcosa di grave.
Si sedette vicino a me, su quella panchina di una fermata di un autobus urbano.
Si sistemò la gonna e si mise più comoda.
– Allora? Come mai da queste parti Ciro? –
– Avevo voglia di farmi un giro… –
– Tutto bene? – mi chiese con una voce seria. Ed io, nel mio solito giro di menzogne, dissi anche a lei che andava tutto bene. Ma Sara era una ragazza diversa. Sara non ci credeva. Sara sapeva già tutto anche solo dal mio sguardo. E mi guardò negli occhi mentre le dicevo che andava tutto bene.
La mandò giù, almeno per il momento e sdrammatizzò. – Dai facciamoci un giro… – mi disse, perché erano le sole parole che in quel momento volevo sentirmi dire.
– Tutto bene a te? – le chiesi.
– Bè… mica poi tanto… Sto riflettendo un po’ su questa storia… con il mio ragazzo… –
– Già… è proprio il momento adatto per parlare di storie d’amore… – Le dissi fingendo di grattarmi la testa.
Lei sorrise…  – Non navighiamo in belle acque! –
– Le acque non sono un problema… è il vento… la tempesta… i fulmini che ti cascano sulla testa all’improvviso da tutte le parti… –
Sara sapeva dove volevo arrivare. Aveva visto molte volte i miei occhi dissolversi nel vuoto alla ricerca di qualcosa di vago e profondo. Come in quel momento. Avevo dentro di me un fiume in piena che aveva voglia di uscire… di sfondare ogni cosa… tutto e tutti e liberare il mio essere dall’ostile peso che avevo sul cuore. Ma nella bocca c’era qualcosa che mi bloccava. Come un tappo messo in gola da qualcuno d’ignoto che non mi permetteva di sfogarmi liberamente. Era l’esperienza che mi bloccava… era l’esperienza di brutte amicizie e di persone non troppo fidate a cui ho confidato preziosi segreti. Pentendomi. Ma Sara non era così… e ne ero ben cosciente. Dovevo solo convincere il mio istinto a fidarsi di lei.
 
Percorremmo il corso principale. Qualche gocciolina di pioggia si sentiva qua e là senza dare troppo fastidio. Avevo indosso il mio giubbotto che mi proteggeva e mi teneva al caldo mentre lei, solo a guardarla, mi faceva venire i brividi di freddo.
– Non senti freddo? – Le chiesi
– Na… per niente… – (attimo di silenzio)
– Scherzavo! Sto morendo di freddo! Ho fatto male ad uscire così leggera. – disse sfregandosi le braccia.
Così mi tolsi il giubbotto e glielo offrii. Sotto, avevo una di quelle felpe con il cappuccio che mi avrebbe riscaldato ugualmente. Lei non lo accettò subito ma sfiorando il mio caldo giubbotto cambiò idea e disse.
– Ok… ma te lo ridò subito! –
Adoravo la sua sincerità. Adoravo il fatto che non sapeva mentire. Era una ragazza che all’apparenza sembrava una delle tante. Ma la sua parte nascosta, la sua indole, il suo carattere, erano cose preziose che solo poche avevano.
Giungemmo al nostro posto. Nostro… per modo di dire. Era una panchina che ci piaceva parecchio. Circondata da palazzi ma immersa nel verde… seminascosta da sguardi indiscreti. Un posto ideale quando hai voglia di parlare con qualcuno.
– Allora? Come mai è così tanto che non ti fai sentire? –
– Ho il telefono fuori uso… –
– Smettila… ora fai il serio! Dai… so che c’è qualcosa che non va… –
– Lo sai? E come lo sai? –
– Dal tuo odore… puzzi di “qualcosa che non va”! –
Ridemmo…
Una cosa era certa: “era la migliore… a saper sdrammatizzare…”
 
E tra una cosa e l’altra partì il mio racconto. Lei stava ad ascoltarmi silenziosa aspettando impaziente il suo momento. Le raccontai della storia con Erika e della sua inevitabile fine. Le raccontai dei miei genitori, delle guerre in casa e fuori… e le parlai della scuola dicendole:
– …l’ho lasciata… –
Lei sgranò gli occhi in modo eccessivo come se le avessi annunciato la morte di qualcuno. Ma subito si riprese e balbettando impercettibilmente disse:
– I tuoi lo sanno? –
– Certo che non lo sanno… continuo a mentirgli… –
E lei capì… non chiese come mai e perché si fanno certe cose. Si fanno e basta… è un misto di eventi che ti portano a una conseguenza irreparabile. Risalire al principio, percorrendo a ritroso un cammino sbagliato, non è una buona scelta per risolvere il problema. È solo una pugnalata in più al cuore e forse non una, ma due, tre, quattro… fino a quando non senti un peso sul collo che risale velocemente verso il centro della fronte… e da lì scende giù… sotto forma di lacrime. E in quel momento… non puoi proprio più fermarti.
L’ho voluto dire lo stesso a Sara… anche se lei non me lo chiese esplicitamente. Volevo che almeno lei fosse a conoscenza del peso che avevo addosso. Forse sbagliavo, perché vedevo il suo volto assorbire le mie parole e farsi pian piano più triste.
Feci un sospiro..
Tirai i piedi sulla panchina… abbracciai le gambe e poggiai la testa sulle ginocchia.
– C’è stato un tempo in cui credevo… – le dissi.. – …che le cose sarebbero andate per il verso giusto… –
E lì non resse più…
 
Una lacrima scese dai suoi occhi..
piccola e leggera percorse tutto il viso…
il suo sguardo era mutato…
non so se aveva compassione di me o cosa..
so solo… che mi sentivo colpevole…
 
 
 

Stuck in a station…

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Non conosco il cielo… non so quando piange… quando ride… quando ha voglia di fermarsi a pensare. Non so quando è arrabbiato… quando ha voglia di farsi coccolare… quando è fermo e incapace della realtà. Quando si guarda il cielo ogni convinzione svanisce… e si sogna. Soprattutto ora che questo tramonto sovrasta la città. Ero seduto su una sedia sul mio balcone. Al quinto piano si godeva di una bellissima vista. Le nuvole e il cielo sembravano più vicini da qui. E questa sera faceva al caso mio… un tramonto così chi poteva perderselo? Il mio stomaco cominciò a brontolare proprio quando il sole scomparve tra le case. Con svogliatezza guardavo la porta del balcone… come se il mio sguardo volesse entrare ed arrivare alla cucina per vedere cosa ci fosse nel frigo. “Sarà vuoto” pensai. Ma anche se fosse stato pieno, la voglia di cucinare era pari a zero. Incrociai le mani dietro la testa e mi misi comodo dondolandomi sulla sedia. Le luci della città si accesero una dopo l’altra. I fari delle macchine divennero più visibili e l’oscurità iniziava a farsi sentire. Mi appoggiai alla ringhiera. Guardai giù sfidando quel vuoto sotto di me. Le macchine erano piccoline da qui su. Sembravano tanti piccoli giocattoli con cui un bambino si sarebbe divertito a giocare. Per non parlare delle motociclette… quelle si che erano carine. Le persone invece si facevano più rare e quei pochi che rimanevano in giro, si affrettavano a tornare a casa… chissà perché poi… chissà per cosa.. chissà per quale vita. Forse magari andavano a cenare. “Eccolo lì”, il mio stomaco tuonò di nuovo. “Ok, va bene… troviamo qualcosa da mettere sotto i denti!”. Mi alzai dalla sedia e tornai dentro. Spensi lo stereo e cercai le scarpe.
“Una è qui… e l’altra?”
Sembrava impossibile. Quando cercavo le scarpe ne trovavo sempre una sola. Non le perdevo mai insieme! Chissà per quale regola statistica o per quale caso sfortunato. Sempre e solo una.
“Eccola!”
M’infilai le scarpe cercando con lo sguardo la mia sveglia digitale. I numeri rossi segnavano le otto e mezza. Faceva un po’ freschetto quindi presi dall’appendiabiti il mio giubbotto di pelle. Nel staccarlo dal gancio cadde da una tasca l’ombrello portatile. Lo presi in mano… “Non penso mi servirà…” e lo poggiai su un ripiano della libreria.
Portafoglio… cellulare… anello… “Credo di aver preso tutto” Andai verso la porta e: “le chiavi!! Dannate chiavi!” Tornai indietro e le afferrai per il portachiavi di Ligabue che avevo comprato al concerto al forum di Assago. Due mandate e giù con l’ascensore al piano terra.
Ero fuori. M’incamminai per la strada che facevo tutte le mattine per raggiungere la stazione e da lì prendere il treno che mi avrebbe portato in università. Questa volta però, dovevo solo raggiungere il piazzale. Guardai il cielo. Era ricoperto di nuvole grigie che da un lato si dipingevano di un colore rossastro.
Raggiunsi la piazza ed era notte. Alcune persone aspettavano il 93 alla fermata mentre altre uscivano frettolosamente dalla metro. Un passante distratto mi urtò la spalla. Continuò a correre e girandosi mi chiese scusa. Gli feci un cenno con la mano e lo osservai andarsene con non troppo rancore. Il lampione accanto a me, m’inondava con la sua luce attirando schiere di moscerini. Mi guardai intorno decidendo dove andare a mangiare. Le opzioni sono due: Pizza Mundial alla mia sinistra o il messicano con il suo camioncino ambulante fermo dall’altra parte della piazza. Scelsi il panino del messicano e lo raggiunsi. Mentre camminavo, guardavo la stazione. Il grande orologio digitale era perennemente rotto. Segnava numeri a casaccio come a fregarsene del tempo. Lo adoravo. Sotto c’era la grande scritta “Milano Lambrate” e poi l’ingresso principale. Il messicano era parcheggiato poco dopo la fermata dell’autobus 54. Un’anziana signora con una busta di plastica mi osservò mentre le passai davanti. “Forse assomiglierò a qualche suo nipote”… tirai diritto e arrivai al camioncino.
– Ciao! – mi disse una ragazza dai tratti somatici dell’America latina.
– Ciao… mi fai un panino con la salsiccia? –
S’infilò i guanti in lattice e passò una salamella all’uomo che stava alla piastra. Il messicano stava preparando un altro panino per un ragazzo che aspettava con me.
– Cosa ci metto dentro? – mi chiese con un accento leggermente spagnolo.
– Formaggio e peperoni. – dissi, cercando di non pensare alla salute del mio povero fegato.
– Ci vuoi anche la cipolla? –
– No… grazie. –
Il messicano aveva finito le sue domande di routine e si era messo all’opera sulla mia salsiccia con la spatola di ferro. Gira, rigira e la mise nel panino con il suo contorno di peperoni e formaggio. E il messicano in fondo in fondo, mi voleva bene perché ci aggiunse anche la cipolla. Non dissi niente… perché, del resto, la cipolla mi è sempre piaciuta. Però, chissà come faceva a saperlo?
– Ecco a te. –
Presi in mano quel panino bollente e sborsai i miei tre euro.
– Vuoi qualcosa da bere? – mi chiese la ragazza.
Pensai se prendere o no la mia solita Fanta. Dissi di no… e mi girai dando un morso al mio panino.
Una goccia cadde dal cielo e grande e grossa si schiantò sul marciapiede. Non gli diedi troppo peso e soffiai sul mio panino cercando di fargli raggiungere una temperatura più bassa. Ma a quella goccia ne seguirono altre due… e poi tre… e poi altre ancora. Pioveva.
E pioveva forte. Non una di quelle pioggerelline leggere primaverili. No… un bel temporale estivo. Di quelli che di acqua ne mandava. E il cielo sembrava non voler smettere.
Ero al riparo sotto la piccola tettoia del camioncino. Continuai a mordere il panino. Le persone correvano qua e là. Passò un motorino poco distante. Andava piano perché il ragazzo stava prendendo un bel po’ d’acqua ed ogni tanto frenava perché le pozzanghere si stavano riempiendo ad un ritmo impressionante.  Diedi l’ultimo morso al panino e piano piano mi stava salendo la sete. Pensai alla Fanta a cui prima avevo rinunciato. Mi volsi indietro a guardarla da dentro il piccolo frigorifero sul camioncino.
“Na… chissà quanto me la farà pagare.” E me ne andai passando sotto la piccola tettoia fino ad arrivare alle scale dell’ingresso laterale della stazione. Era buio anche qui e il sottopassaggio era deserto. Si udiva solo il rumore dei miei passi che s’infrangeva contro le pareti creando un eco spettrale. Nessuno saliva o scendeva le scale dei binari. Nessuno correva… aspettava… leggeva… Un vuoto inimmaginabile. Dal binario 12 percorsi tutto il sottopassaggio fino al binario 1 dove c’era la biglietteria e il bar. Qui ogni mattina, se mi svegliavo con un po’ d’anticipo, venivo a prendere il caffè. Un caffè di merda… ma pur sempre meglio delle macchinette automatiche. Arrivai davanti alla porta a vetri del bar. Le luci erano ancora accese ma la porta non si smuoveva. Un ragazzo all’interno poggiò una sedia sul tavolino e mi fece segno che era chiuso. “Addio Fanta”. Mi toccava andarla a prendere ai distributori lungo i binari. Riscesi nel sottopassaggio.
“Vediamo… il binario 1 non ce l’ha… il 2 non mi piace… binario 3!”
Salii le scale e andai diretto al distributore, alla disperata ricerca della Fanta perduta. Cercai nella tasca qualche moneta ma mi accorsi che l’affare per inserirle era bloccato. “Eccheccavolo” pensai, per non scrivere qualcosa di più volgare. Tornai indietro e vidi che sulla panchina stava dormendo un barbone. Chissà come avevo fatto a non notarlo.
Binario 4… “Speriamo che almeno qui non mi vada male.” La sete aumentava come le gocce che cadevano sulla tettoia in lamiera che proteggeva la banchina. Il rumore che provocavano era assordante. Sembrava una mitraglietta che sparava sulla mia testa.

La mia lattina scese giù di colpo. La presi e l’aprii placando la mia sete con un sorso. Mi sedetti sulla panchina. Su questa non c’era nessun barbone. La pioggia si stava facendo più violenta e alcune gocce riuscivano a colpirmi nonostante la tettoia. Alcune persone sull’altro binario attendevano un treno. Bergamo… lessi sul tabellone. Infreddolite e spaesate… chi guardava l’orologio e chi leggeva il city di stamattina. Scesi di nuovo nel sottopassaggio. Questa volta in quello principale, dove c’era luce e qualche persona che si riparava dalla pioggia. Raggiunsi l’altro lato della stazione. Quello da cui ero venuto e mi fermai sedendomi sulle scale dell’ingresso principale…
Pioveva forte…
Neanche il mio giubbotto di pelle avrebbe potuto ripararmi. Davanti al marciapiede c’era una pozzanghera di dimensioni bibliche che i passanti non riuscivano a oltrepassare senza bagnarsi i piedi.

Pioveva… sulle case… sui negozi… sulle vetrine… sul messicano ed anche su Pizza Mundial. Pioveva… pioveva sui passanti con gli ombrelli e quelli che si riparavano sotto le fermate. Pioveva sul punto Snai perennemente aperto, con le persone che guardavano gli schermi e facevano scommesse impensabili. Pioveva e non smetteva… perché Dio voleva bloccarmi qui in stazione. Ad osservare la città dal basso di un gradino. A fermarmi per un minuto a scattare una foto di quella vita che conducevo di corsa… a quei treni che prendevo al volo… a quegli odiati ritardi che si riversavano in una pagina di un libro. Seduto qui, su questo gradino che non toccavo nemmeno, quando ero di corsa saltando direttamente sull’altro. Ero un passante… un semplice passante di questo mondo che viaggiava veloce… che prendeva treni, evitava controllori… e si affacciava dal finestrino quando non avrebbe dovuto. Mi sentivo come l’ignoto spettatore di Seduto in riva al fosso… a guardare l’acqua che va… che ha il biglietto ma la corsa la lasciava fare agli altri. Agli altri spettatori distratti che mi passavano davanti… che, forse in fondo, quella pioggia non la meritavano. L’unico a meritarla ero io…

  Perché Dio ha voluto che mi fermassi in stazione…
ad osservare la vita…

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