Si viene si va… per sempre! (V)

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che la Spagna e l’Ungheria non sono poi tanto male…
Devo scappare… sai… genitori… casa… famiglia…
Mi capisci…
Ah! Ti devo 5 euro! Ricordamelo…
P.S. Minchia che freddo!!

11:41

Ero seduto su un muretto. Respiravo guardando l’orizzonte davanti a me. Non riuscivo a vedere la fine di questa immensità. Trovavo così strano non riuscire a percepire la fine di un qualcosa di finito come il mondo. Però era bello sapere che potevo avere l’infinito così vicino a me da poterlo toccare se solo facessi un passo più in là… ma muovendomi, le cose cambierebbero… e l’infinito si sposterebbe in un altro luogo… toccherebbe altre mete a me inaccessibili, mantenendo sempre la sua aura di fantasia.

Ero in una via sperduta del Molise. La mia Audi era parcheggiata dietro di me. Mi ero perso. Non avevo la più pallida idea di dove mi trovassi. Presi il mio cellulare dalla tasca. Provai un’ultima volta ad accenderlo. Niente… morto… e con lui era morto anche il mio navigatore. Guardai lo schermo nero con una smorfia di rassegnazione.
E ora chi mi tira fuori da questo casino?
Incrociai le gambe sul muretto di cemento che costeggiava quella lingua d’asfalto che avrebbe dovuto essere una strada, anziché un viottolo di campagna. Maledetto navigatore ignorante! Quell’aggeggio doveva saperne più di me, doveva farmi da guida e invece mi aveva spinto per chilometri e chilometri a viaggiare nel nulla. Non un cartello… un’indicazione… una freccia per terra. Niente! Eravamo solo io… la mia macchina, questo muretto e chilometri e chilometri di prati, alberi da frutto, campi e qualche casa troppo lontana per un: mi può dare una mano?

Forse la vita voleva mettermi alla prova. Voleva vedere se mi sarei incazzato come al solito. Se avrei scaraventato qualche bestemmia al cielo per farlo tuonare un po’. Ma non gliela diedi vinta. Ero calmo e pacato. Perché arrabbiarmi, poi? Alla fine… nel bene o nel male, la soluzione si trova sempre. Solo che io scelgo sempre quella più facile e quella più sbagliata.
Se vuoi punirmi per questo, sappi che è un supplizio fantastico…

Tirava un bel venticello che mi rinfrescava la mente. Chiusi gli occhi e mi lasciai percorrere dal freddo. Avrei voluto tanto che arrivasse al mio cuore, così avrebbe smesso di darmi il tormento. Gira e rigira è sempre lui il protagonista della mia vita. Fuori sono solo un ragazzo di ventitré anni, quasi ventiquattro… con un giubbotto di pelle che mi è sempre andato un po’ largo… con i capelli a spazzola e gli occhi profondi che la sanno lunga. Sono io… e troppo spesso lascio che il mio passato parli per me.
Tutto quel verde mi fece pensare. Nella mia Milano, trovare pezzi di natura è molto difficile. E uno di quei “pezzi” lo condividemmo insieme.
Posso mandarti un ricordo? Sono un po’ lontano… ma spero che ti arrivi lo stesso… bambolina.

Ricordi quando eravamo sul prato del Parco di Porta Venezia, con quella coperta blu che si riempiva sempre di foglie e ciuffi d’erba? Ti piaceva. Ti piaceva stare sdraiata tra le mie gambe con la testa appoggiata al mio petto. Ricordi gli scarabocchi infantili che facevamo quando portavo pastelli e fogli bianchi? Ricordi la Settimana enigmistica che non riuscivamo mai a finire, perché spesso litigavamo su una definizione e uno dei due voleva avere per forza ragione? Che testardi… Due teste dure che spesso si davano capocciate di pensieri diversi. A volte me lo chiedo se eravamo poi tanto diversi… E mi chiedo anche se sia stato giusto demolire un castello di 4 anni in pochi giorni. Non lo so… Lascio scorrere… cerco il mio spazio. Ma a volte sento un vuoto incolmabile… e parlo di te a me stesso fingendo che tu ci sia ancora.

Una lacrima scese e accesa dal vento mi bruciò la guancia. La asciugai con il polsino in stoffa del giubbotto, troppo abituato a raccogliere la mia sofferenza. Sentii dei passi dietro di me. Un uomo anziano portava una carriola piena di erbacce e strumenti di lavoro. Aveva un viso serio e deciso scolpito dagli anni. Si avvicinava nella mia direzione con un passo svelto. Aveva le scarpe sporche di terra e i vestiti non erano da meno. Sorrisi, sperando che fosse la mia soluzione. Scesi dal muretto e gli andai incontro. Lui si fermò a pochi passi da me.
– Salve signore… mi può dare una mano? –
– Certo giovanotto! Che posso fare? –
– …dirmi come fare a tornare a casa… –
– Dove devi andare? –
– Benevento… –
Il signore si stupì. Si mise una mano sulla fronte e si guardò intorno.
– Benevento?! Come diavolo hai fatto a finire qui? –
– Beh… è una lunga storia… se mi aiuta gliela racconto… –

Si viene si va… di umana commedia (IV)

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10:12

Aprii gli occhi. Un soffitto bianco e insolito mi sovrastava. Voltai la testa da un lato e un paio di vertebre scroccarono, rivelando un gran torcicollo. Non era stata una grande idea usare un asciugamano come cuscino. Purtroppo, questo passava la modesta dimora di Enzo e dovevo accontentarmi. Spostai il plaid e mi misi seduto. Anche il mio stomaco si era svegliato, ribollendo gas e acidi vari. Sul tavolo del salotto c’era ancora la bottiglia vuota del Pampero. Il pensiero autodistruttivo di farmi un altro bicchierino mi attraversò la mente. Fortuna che non ne era rimasto nemmeno un goccio.
Tic… tac… tic… tac…
Sentivo un ticchettio volteggiare in quella stanza vuota. Mi alzai alla ricerca del trasgressore di quell’amato silenzio. Di primo acchito sperai che le mie orecchie fossero ancora buone dopo l’ingente lavoro in discoteca ieri notte. Andai verso la vecchia televisione a tubo catodico disposta malamente nell’angolo in fondo. Accostai l’orecchio… niente. Per terra, attaccato ad un lungo filo del telefono, c’era il modem wifi di Alice. Lo presi in mano… niente, non era lui.
Tic… tac…
Guardai il balcone sperando che il rumore venisse da fuori. Aprii l’anta e ne approfittai anche per inondare i polmoni di un po’ di aria fresca. Chiusi.
Tic… tac…
Il rumore persisteva. Andai verso una lunga cassettiera in legno scuro. Il rumore sembrava più forte. Aprii un cassetto. Dentro c’era un vecchio computer polveroso, di quelli vecchi e massicci. Lo presi e lo poggiai sul tavolo, cercando di sporcarmi le mani il meno possibile. Lo rivoltai sottosopra… di lato… niente, era più morto di un dipinto. Lo rimisi nel cassetto cercando di riposizionarlo nel modo giusto.
Tic… tac…
Il rumore continuava e la mia mente persisteva sulla strada della curiosità. Aprii il cassetto a fianco e finalmente scovai il colpevole. Trovai un grosso orologio da parete un po’ vecchiotto, con qualche grammo di polvere sul quadrante. Chiusi il cassetto e lo misi sulla cassettiera appoggiandolo al muro. Tornai a sedermi sul divano, sentendomi soddisfatto della missione appena compiuta. Dovevo pensare al prossimo passo… che ore erano? Guardai l’orologio…

10:16
Tic… tac… dannati orologi!

:17… Ero lì sul divano con la testa un po’ inclinata e lo sguardo fisso. Le palpebre si chiudevano a ritmi lenti e regolari. Fissavo quel maledetto quadrante…

:18… Mi sono sempre chiesto come facessero gli stessi numeri a trasformarsi da secondi, minuti in ore. A volte i numeri nemmeno compaiono, sostituiti da semplici linee o puntini.

:19… Ero ancora lì a guardare quell’aggeggio con lo stesso desiderio di un avvocato cinquantenne che fissa una spogliarellista in un night. Desiderio di cosa poi? Fermare il tempo? Forse sì…

:20… Il mio respiro si alternava al ticchettio come un grafico altalenante di una funzione trigonometrica.

:21… Dormivano ancora tutti. Era domenica. Mia mamma stava già preparando il pranzo e sicuramente mi stava aspettando.

:22… Non posso restare. Rispondo ad un immaginario Enzo comparso nella stanza. Se fosse stato reale invece, non avrei avuto il coraggio di dirgli di no.

:23… Ero in ritardo. Dovevo fare ottanta chilometri per tornare a casa. E gli autovelox? Erano…

:24… Triiiin… Triiiinn… suonò il mio cellulare. Distolsi lo sguardo dall’orologio. Ero libero. Ero fuori dal magico incanto del tempo. Respiravo a modo mio. Mi alzai e mi guardai intorno. Tutto taceva.

Devo scappare… Enzo, non posso aspettarti.
Mi venne in mente di lasciare un bigliettino. Strappai un pezzo di cartoncino e lo misi in piano su un angolo pulito del tavolo.
Mi serve una penna!
In una casa di studenti di solito le penne scorrono a fiumi. Purtroppo quella non era la solita casa di studenti e una penna che scrivesse sembrava essere l’oggetto più raro. Mi spostai in cucina, dato che il salotto l’avevo già perlustrato da cima a fondo. C’erano vari bigliettini appesi con dei magneti ad una specie di staffa metallica. Una penna? Niente… Guardai ovunque: tavolo, mensole, frigo… niente di niente.
Tornai in corridoio. A destra e sinistra erano disposte in successione le varie porte delle stanze da letto, in fondo c’era la porta d’uscita e dietro di me il bagno. Non volevo svegliare Enzo che forse stava dormendo con la sua ragazza. Nè tantomeno volevo disturbare la spagnola che storpiava il mio nome. Che fare?
C’era ancora un’altra stanza inesplorata. Apparteneva a un’altra coinquilina di Enzo. Mi aveva detto che non c’era in quei giorni. Aprii con lentezza la porta, preparandomi in mente una scusa nel caso avessi trovato qualcuno. La porta scricchiolava odiosamente. Nessuno, la stanza era vuota a parte il disordine. Mi colpì subito il grosso letto matrimoniale su cui avrei preferito dormire invece dello scomodo divano del salotto. Però avrei dovuto spostare un gran mucchio di stupidi peluche. Andai alla scrivania. Qui di penne ne trovai a iosa. Ne presi una e tornai in salotto. Mi sedetti e presi un minuto per pensare a cosa scrivere.
Allora En… Cavolo!
La penna si bloccò dopo la seconda lettera. Non le andava più di scrivere e dovetti tornare a prenderne un’altra. Ne presi una dalla forma a matita. Odiavo quel tipo di penna. Ma in mancanza d’altro…
En… En… En… E che cazzo!
Questa era proprio da buttare. Non scriveva nemmeno sotto minaccia. Volevo scaraventarla nel primo cestino e l’avrei fatto se fosse stata la mia. La rimisi al suo posto. Forse la coinquilina di Enzo era una collezionista di penne usate. Non si può mai sapere. Presi la terza e tornai in salotto… Questa finalmente scriveva…

         Enzo… Grazie del Pampero
            e del fantastico sabato sera!
                 e dì ad Eva e Carmen che….

Nasci solo… e solo andrai… (Solitaryman)

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Vedere ciò che sarà di te in un film ti scombussola dentro. Ti apre in due e ti rivolta all’esterno, mostrando i tuoi punti vitali a chicchessia. Di solito nei film ho sempre visto il passato. Ho confrontato alcune scene di magnifici film con molte mie esperienze e loro spesso davano la soluzione ai miei casini. La soluzione a un qualcosa che era già passato. Quindi niente di utilizzabile, se non per generare qualche indelebile rimorso. Così sono fatti i film…
Sono storie a cui leghi il tuo passato… e il resto è solo pellicola e un gran baccano.
E questo che credevo… fino ad ora…

SolitaryMan

Un affascinante Michael Douglas all’alba dei suoi sessant’anni si gode la vita come se fosse un ventenne. Forse anche di più di un normale ventenne. A volte i ventenni si sanno fermare… bloccati dall’insicurezza… dalla paura… e dalle conseguenze. Codardi incoscienti, per fortuna. Se solo sapessero come giostrare bene e male a loro piacimento… questo mondo sarebbe già finito. Meglio lasciare la follia come vizio per i più vecchi, che hanno gli anni più contati dei nostri. E gli anni passano anche per Ben… le foglie cadono e gli inverni si susseguono. Il tempo non è eterno.
Noi non siamo eterni. Dobbiamo sottostare a queste assurde leggi del mondo.
Prima o poi… moriremo anche noi…
Me per primo…
Perché questo è il mio tormento.
Sapere che c’è una fine…
Sapere che non può durare qualsiasi cosa faccia.
Sapere che i miei anni sono contati e che il tempo scorre anche quando dormo.
Questo mi uccide…
A volte guardo il cielo, lo fisso per un istante, per imprimere l’immagine nei miei occhi. Poi li chiudo… assimilo tutto… fantastico… penso… mi convinco che niente può cambiare… che qualcosa può essere eterno.
Riapro gli occhi, Vedo che la posizione delle nuvole è cambiata e le mie speranze si distruggono.
E quando raccolgo i pezzi di un’illusione, mi sale la rabbia dentro. Cresce pian piano e vorrebbe fare a botte con il mondo.
È lì che sbaglio…
È lì che commetto il primo fatidico errore… che non fa altro che aprire il vaso di Pandora dell’autodistruzione…
E sbaglio… sbaglio… sbaglio…
Senza pensarci… senza valutare i pro e i contro… solo per il gusto di farlo. Solo perché la vita DEVE essere vissuta. E la mia vita la metto davanti a tutto… e a tutti…
Sempre! Gioco con le persone, creando illusioni diaboliche.
Ma il gioco continuerà per qualche anno. Poi cominceranno a cadere piano piano, una dopo l’altra, le persone a te care.
La tua ragazza… che si stancherà delle mille bugie. I tuoi amici… a cui hai detto troppi no infondati… ed infine la tua famiglia… che non sopporterà l’immagine maligna che hai costruito di te.
Perderai tutti…
Anche quelli più fidati. Quelli su cui conti. Quelli che dovrebbero tirarti fuori dalla merda quando ci sei dentro fino al collo.
Ferirai anche loro. In modo violento e inaspettato… quasi fossero estranei.
E sarai solo…
E finirai in una stanza… in una città lontana… a fissare il soffitto, sperando che ti crolli addosso. Morirai… Morirai dentro… lentamente… sempre di più. Affogherai nel tuo stesso respiro quando chiederai aiuto a persone che non ti ascoltano più… Lo sai già che è così…

Le mie palpebre erano immobili di fronte allo scorrere di quelle scene. E continuavo a ripetere “non farlo”, quando Ben si trovava di fronte a una “scelta”. Speravo che non scegliesse la strada più ovvia, ma sapevo già che non mi avrebbe ascoltato.
É più facile commettere un errore che comportarsi decentemente. E in questo mondo di “facilità” gli errori ci sguazzano come pesci in un acquario.
E non a caso il film si chiude con una scelta irrisolta, spaccando in quel momento con un’accetta la mia testa…
Potrei ricaderci? Di nuovo? Non lo so… ma so che una lezione questo film me l’ha insegnata…
Comunque vadano le cose…
Sbaglierò… e sarò sempre da solo…

– Lui è intelligente…
È dolce… divertente…
Un milione di altre cose che tu non sei… –
– Una volta lo ero anche io… ma non dura… –


Cuore Parte V

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E solo Dio sa quanto può far male..

Quando il cuore batte per conto suo. Quando se ne frega della vita e lascia stare i pensieri. Non posso far nulla per contrastarlo. Sono giorni difficili. Sono stanco e incapace di resistere. E’ una guerra già persa, quella con me stesso. Mi conosco troppo bene da saper di essere più forte.. anche quando dall’altra parte della barricata ci sono io.

E tutto è cambiato, non è più come prima..

La scenografia della mia terra è cambiata. La mia casa non sembra quasi più la stessa. Fatico anche a riconoscerla. E non perché sia ubriaco.

Eccola li… ma non mi fermo.

Voglio fare un altro giro. Un’altra folle corsa su questa strada.

E chi lo sa.. magari potrebbe essere l’ultima.

Tutti questi cambiamenti mi fanno pensare..

E se fossi cambiato anche io?

Se non ci fosse più quel Ciro di sempre che mi seguiva nelle imprese assurde.

Forse l’altra sera è stato solo un assaggio di pazzia, dettata da qualche regola ignota. Chissà a cosa pensavo mentre iniziavo quella corsa clandestina con Luca come mio avversario:

Gianni ed Enzo erano con me e si  coprivano gli occhi mentre saltavo qualche semaforo o mi affiancavo a Luca in una strada a doppio senso.

Lo riconosco. Con il suo sguardo beffardo e la sua mentalità sconosciuta, Luca.. è più pazzo di me. Ma a me manca poco. Un solo soffio e diventerò peggio di lui. Basta solo che il mio cuore batta un altro colpo fuori posto e il gioco sarà completo. Il mio quadro ben disegnato verrà macchiato e reso irriconoscibile. Così potrò buttar via la mia fredda razionalità per dar posto alla calda follia.

-No Ciro no!- Urlò Gianni..

Stavo per imboccare uno svincolo contro mano. Volevo superare Luca il prima possibile. Per fortuna non veniva nessuno. Questa notte poteva essere l’ultima per un bel po’ di persone.

.. e lo superai.. ma la soddisfazione non era abbastanza.

La corsa continuò..

Mai mettere due cuori irrequieti al comando di due macchine. Si sa già che poi va a finire così.

Ed ora come ora.. non riesco più ad affrontare i miei sensi di colpa. Sono tutti li a guardarmi e ridere di me. Devo scrollarmeli di dosso il prima possibile. Non posso continuare a far finta di niente e a mentire alla gente con un triste sorriso. E’ dura a volte non poter raccontare. Non poter dire di essere così fragile sotto questa corazza strafottente.

Cosa vuoi.. O mio cuore?

Invoco la tua calma..

Voglio la mia sicurezza.

Non voglio patire..

È così facile mettere a posto la mente e la coscienza non pensando.

Ma con te non ci riesco.

Cos’è?.. Che cos’hai?

Sono domande a cui so che non mi darai risposte..

Trattengo il respiro..

I tuoi battiti si fanno più intensi. Li sento e contandoli cerco di capire come sia fatto questo piccolo organo malinconico.

Tum tum..

Tum tum..

Sembra aver smesso.. Respiro..

E seduto su questa comoda poltrona batto le mie ultime parole di questa notte.. prima di affondare i miei occhi nella calda e tranquilla Combray.. dove Proust si dilettava a descrivere il suo piccolo mondo…

Alla prossima.. Lo spero..

 

Cuore parte IV (concerto Muse ’10)

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..cuore.. (III)

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tum tum.. tum tum..

Veloce.. battito dopo battito il cuore faceva il suo corso. Il suo “sporco” lavoro andava fatto. A suo modo, al suo ritmo, non curante del dolore che mi provocava nel petto. Lui lo sa. Lui non sgarra come me. Forse è vero, forse sono io.. e qui potrei anche fare a meno dei forse.

Vivo in bilico.. sempre sul filo del rasoio. Sempre a guardare la vita da un’altra posizione. Distaccato dal mondo. Come un’anima di un altro corpo. Come un essere insensibile. Come un fantasma in una camera da letto che veglia affianco al mio cadavere. Guardandomi.. osservandomi.. dicendomi qualcosa che io certamente non starò a sentire.. I consigli.. Come dice il mio vecchio poeta, è meglio tenerseli ognuno per se. È meglio seguire i propri, giusti o sbagliati che siano. Perché la vita è così.. e nessuno può capirla..

Che strano a volte, vivere.

 

Una.. due.. tre.. quattro..

 Le gocce cadono in un bicchiere una dopo l’altra. Lente.. cadenti.. quasi infinite. Segnano il tempo. Troppo uguali tra loro.. eppure così diverse. Così perfette ai nostri occhi.  Noi non ce ne accorgiamo. Continuiamo a vivere comunque. Anche se il nostro cuore a volte non ce lo permette. Ci sentiamo importanti.. ci sentiamo forti e superiori.. ci sentiamo invincibili. Ma a certe cose dobbiamo per forza arrenderci tutti.

Il tempo.

Il tempo un giorno mi ucciderà. Un giorno conoscerà il mio punto debole. Saprà sorprendermi.. entrare silenziosamente e sconfiggermi. Abbattere la fortezza di ossa e polmoni che ho costruito per tutti questi anni. Il tempo lo sento addosso.

Sembra strano alla mia età. Sembra strano sentirsi come se il giorno dopo fosse l’ultimo. Ogni giorno. Ogni maledetto giorno.. ogni maledetta notte passata a contare i minuti. Guardando l’orologio e scommettendo sull’ora in cui mi sarei addormentato e quella che non arriva mai sta vincendo un po’ troppo spesso. Le notti sembrano troppo uguali.. proprio come le gocce nel bicchiere.

 

Cinque.. sei.. sette.. otto..

I secondi scorrono sulle lancette. Descrivono un cerchio immaginario.. lento e preciso. Semplice in un istante e complesso nel suo insieme. Numeri e tempo si mescolano tra gli ingranaggi di un aggeggio inventato dall’uomo. Sembra strano a pensarci. Il tempo in fondo l’abbiamo creato noi. Siamo stati noi a voler contare ciò che non possiamo nemmeno vedere o toccare. Siamo stati noi a immaginare questo essere sconosciuto. Questa forza sovrumana inarrestabile.

A pensarci.. quanto sarebbe bello fermare il tempo. Quanto sarebbe bello pensare al giorno dopo senza rimpiangere il giorno prima. Perché il giorno in se non esiste.

Vivere senza numeri sul calendario.. feste programmate e ricorrenze prestabilite. Insomma sopravvivere senza contare i ticchettii scanditi da un oggetto inutile…

Magari fermare una lancetta fermasse il tempo per davvero.

 

Nove.. dieci… undici.. dodici..

Parole scritte sulla tastiera. Uniche.. diverse.. decise e a volte dolorose. Utili a ricordare.. e spesso difficili da digerire. Sono armi che chiunque possiede. Chiunque può usare per fare del bene o del male. Soprattutto se ad accogliere quelle parole è un cuore malandato. Già martoriato da anni e anni di ferite sensibili. Ferite d’amore.  Ferite di storie ormai andate  che solo le parole possono ricordare.

Pensieri.. frasi.. ordini.. urla.. grida.. si susseguono in un crescendo di emozioni interiore. Ci sono certe frasi che descrivono sentieri di brividi sul cuore. Si diramano come le vene nel corpo e le senti dovunque. Le parole, anche quelle più semplici, come un “ciao” scambiato dopo anni di assenza, come un sms ricevuto in speciali circostanze con notizie dolorose, fanno male. Le parole fanno riflettere. Fanno pensare che forse qualcosa veramente può ucciderti. Qualcosa di cui non puoi farene a meno…

 

  

Tredici.. quattordici.. quindici… sedici…

Lacrime versate su una scogliera. Fino a farsi odiare dal mare. Fino desiderare il giorno che verrà. Urlando e detestando il cielo scuro. Pensando che in fondo la fortuna gira e rigira.. e prima o poi arriverà anche a chi ne ha molto bisogno. E le lacrime fanno da cornice all’impossibilità di donare un po’ di questa fortuna che possiedo. Donerei anche la mia vita se servisse a qualcosa. Strapperei anche il mio cuore per donarlo.. sempre sperando che in un altro corpo funzioni meglio. Ma non posso.. e me ne resto qui in questo “comodo” riparo con la mia Tennent’s quasi fuori dal mondo, lontano dalle luci e dai rumori artificiali. Coccolato dalle onde che s’infrangono e dal profumo di salsedine. Nell’altra mano il cellulare. Questo aggeggio tecnologico che dovrei eliminare come ho fatto per l’orologio. Così da rinviare i pensieri ad un’altra vita. E scoprire che in fondo la solitudine non fa così tanto male.

 

Diciassette… diciotto… diciannove… venti…

Righe su uno specchio pulito. In cui la mia faccia si riflette nel centro. A volte mi chiedo se sono davvero io quello li. Se davvero il ragazzo di sempre sa quello che sta facendo. Perché la consapevolezza degli errori a volte arriva un po’ troppo tardi e nell’istante del delirio i limiti sembrano scomparire.  

Il corpo sembra immune e immortale. La mente spazia nell’irrealtà. Il cuore sembra battere decentemente. Le mani tremano insicure. Le labbra insensibili e la voglia di correre all’infinito condiscono il tutto. Il viaggio non è importante. Luoghi e persone ci siano purché casuali. Ho tutto.. e penso che forse mi manca qualcosa. Forse un po’ di sana ragione che mi faccia rigare diritto..

..a messo che questa non sia una delle mie solite battute…

 

 

..tum tum..

..tum tum..

 

 

 

 

 

 

Cuore (I)

pallinarossa3

Percorrevo il lungo corridoio dell’ospedale. I vari reparti mi scorrevano ai lati. Rianimazione… terapia intensiva… pronto soccorso. Il rumore dei passi rimbombava sulle pareti.  A volte incontravo statue di santi e madonne attorniate da miriadi di fiori. Qualche vecchietta malata si fermava lì per dire qualche parola a quel pezzo di marmo colorato dalle sembianze umane. Dura cosa la fede. Sperodi non averne mai bisogno. Per ora la lascio agli altri. Per ora… mi affido a me stesso.

Mi fermai… ero arrivato.. il reparto era quello giusto… la porta era chiusa.. aspettai. L’infermiera m’informò che c’era un paziente all’interno e mi chiese di aspettare. Passeggiai per il corridoio per ingannare il tempo. Appesi alle pareti c’erano i disegni dei bambini. Il tema dominante sembrava lo stesso… una spiaggia… il mare… gente che si divertiva e rideva. I disegni dei bambini a volte sono fantastici. Dal modo in cui disegnano le cose o le persone si può capire cosa desiderino in realtà. Appeso c’era il disegno di una bambina di tre anni di nome Chiara. Aveva disegnato un cuore con un pastello rosso. E nella sua imperfezione e semplicità risultava bellissimo. All’interno di quel cuore, grossomodo, si notava la figura di una donna. Magari era la mamma di quella splendida bambina. Sperai solo che non si trovasse lì per qualcosa di grave.

“Umanizzazione dell’ospedale” veniva chiamata quella forma d’arte. Ossia dare un volto più gradevole a quel luogo di sofferenza… e sperai che quei dipinti alle pareti allevieassero anche le mie di sofferenze.

Tum.. tum..

Tum.. tum..

Il cuore riprese a farsi sentire. Riprese a martellarmi il petto come a dire “sono qui e non puoi fermarmi”. Mi rassegnai… alzai gli occhi e rilessi il nome del reparto.

Cardiologia

 

 

..Ricordi in random..

 

Avete mai fatto degli errori nella vita? Dico davvero. Alzi la mano chi non ha mai fatto una cazzata nella vita. E non sto parlando di piccole stronzate da ragazzi tipo in motorino senza casco… o  fumare droghe leggere. Parlo di qualcosa di più… qualcosa di grosso. Qualcosa che ti rimane sulla coscienza a vita e mai se ne andrà. E a peggiorare le cose ci si mette anche quel cavolo di “senno di poi” a dire ininterrottamente: “poteva andare in un altro modo, le cose in fondo non erano poi così male”. Perché cambiarle Ciro? Perché? E non starmi lì a dire le solite stronzate. Le solite scuse che rifili agli amici. O per meglio dire i tuoi genitori. Io sono qui… sono più vicino di quanto credi. Io sono il tuo cuore… che ora si ribella e non vuole più starti a sentire. Il tuo cuore purtroppo sa tutto. La mente può a volte dimenticare… essere ingannata… offuscata da qualcosa di non sempre legale. E alla fine creare la felicità apparente, quella che ti piace tanto. Una bella pennellata di bianco su un muro marcio da anni. Non serve a niente. Dopo pochi giorni la muffa e il marciume tornano alla vista. E le vie sono due: o continuare a rimbiancare… o abbattere definitivamente quel muro. La metafora magari non è delle migliori ma il senso si è capito.

La frase “puoi mentire a te stesso ma non puoi mentire al tuo cuore” mi aveva sempre fatto sorridere. Non ci credevo tanto. Perché logicamente le parole, i fatti e le azioni passano dalla bocca, dai muscoli, dagli occhi alla mente. E qui formano i ricordi. Questi coltelli dalla punta affilata che il più delle volte possono far male. E mi sta anche bene stare male per un ricordo “pesante”. Ma quando succede il processo inverso come si spiega? Cioè… se si sta male prima ancora di sapere la causa che genera il dolore? Se il cuore ti inizia a pompare all’impazzata senza un reale motivo iniziale… Se il petto ti fa male a tal punto da darti pugni per la rabbia immotivata… Se non riesci a dormire… ed inizi pensare. E lì parte la vaga ricerca del “motivo”. Del mio perché. E sbaglio… sbaglio… sbaglio. Ogni volta. Ogni santa volta. Perché la mente ricade negli errori. Negli sbagli che ho commesso in passato. E il dolore peggiora. Si fa più acuto… come se ora conoscesse il mio punto debole. Dannato cuore.

 

– Si può vivere senza? –

Il dottore mi fa un sorriso e mi fa entrare.

Delirio irreale di una mente distorta…

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Macchie di sangue sul freddo pavimento disegnano piccoli ruscelli rossi. Una mano insanguinata pende da un lato del divano malconcio. Dalla mano, cadono una alla volta le gocce rosse che finiscono sulle mattonelle bianche.
Uno spreco…
Così tanta vita che se ne va inutilmente. C’è chi pagherebbe oro per avere quel sangue buttato lì sul pavimento. C’è chi invece pagherebbe per altre cose.. come una dose o una bottiglia di rum.
Chi paga per la vita e chi paga per la morte.
E’ questo il mondo…
È uno strano modo per affrontare le cose. Chissà la mente di cosa ha bisogno per ragionare in modo corretto. Per fare scelte accurate… per non cadere in tentazione. Per morire nel modo migliore possibile. Si può scegliere di morire a questo mondo? Senza sentire il rumore di quel battito di ali che ti urla nella testa e ti dice “vivi”… “sopravvivi”…

Ma torniamo al nostro corpo sopra al divano che gocciola sangue. Lentamente sposto la visuale e scopro piccoli particolari ad ogni movimento. Un tavolino in vetro… quattro bottiglie di birra riverse tra pezzi di carta e sporcizia. C’è del vomito per terra vicino al divano. Ha il colore giallo e una puzza nauseabonda. Forse regalo di quel corpo ancora caldo. E’ notte fonda… e nessuno passerà di lì. Un lampione in strada alterna il suo fascio di luce. Lo si nota da una saracinesca verde quasi tutta abbassata. E’ giusto che le cose finiscano così? E’ giusto che non ci sia una via d’uscita? Un piccolo varco tra la folla che ti porti di nuovo al punto di partenza… Cosa c’è in fondo di così difficile nello stare in vita…

Questa macchina così perfetta chiamata corpo umano vacilla sotto i colpi di una semplice lama. Ed eccola lì l’arma in questione… tutta insanguinata. Non c’è bisogno di fare domande… di cercare i colpevoli… di chiedere confessioni o alibi. Una fotografia basta e avanza per capire lo svolgimento dei fatti. Una fotografia di quel corpo silenzioso adagiato per il lungo sul divano. Con le gambe ritte e i piedi che sbucano dal bracciolo. Ai piedi le sue solite Nike tutte impolverate segno di una lunga corsa in motorino. La tentazione di girarmi e guardare il suo viso è troppo forte ma riesco a mantenermi…
È ancora troppo presto per sapere il suo volto. E’ ancora troppo presto per sapere chi sia. Non voglio ancora voltarmi… Ho paura di ciò che vedrò.
Faccio un giro… Torno dietro e mi siedo per terra, a fianco al vomito, con la mano insanguinata che mi penzola a pochi centimetri dalla faccia. Piccola ed esile… con le dita affusolate. Sul pollice ha un anello e lungo l’indice un rivolo di sangue che rovina nel vuoto.

Tac… tac… tac…

Conto le gocce una ad una. Sembrano tutte uguali… e sembrano non finire mai. Con un dito sfioro il suo indice e raccolgo un po’ di sangue interrompendo la lunga catena. Lo porto alla bocca e l’assaggio sperando che sia solo ketchup frutto di un banale scherzo infantile. Ma le speranze sono illuse quando sento il sapore metallico e la lingua pizzicarmi. E ora l’aria è cambiata… un brivido mi percorre la schiena… sento freddo… forse più di lui… forse più del freddo stesso. E lo stomaco si chiude… non solo per il vomito… e non per il suo sangue ma per il mio che pompa nelle vene a ritmi incredibili.
Il cuore batte. Segue la scena da una posizione nascosta. Sarà solo il mio a battere in questa stanza? Mi chiedo. E attendo una risposta da questo tizio sconosciuto. Fosse solo un segno… fosse solo un attimo… fosse anche un movimento involontario. Lo attendo paziente seduto con le gambe incrociate. Fermo, con gli occhi fissi ed attenti su quella mano immobile. Quella mano aperta come a chiedere pietà. Pietà di una vita dal sapore troppo amaro… con schizzi di follia e botte di felicità. E’ troppo facile scivolare così in basso. Il difficile è restare a galla… magari con l’acqua alla gola e il respiro affannato. Non è sempre facile lo so… sono gli errori che la fanno da padrone in questo mondo. Non c’è una soluzione… e se c’è, di certo non è questa.
Una lacrima mi scorre lungo la guancia. Quella lacrima sembra chiedere perché? E cadendo si unisce alle gocce di sangue sul pavimento.
Non lo so… in questo momento non riesco a spiegarmelo.
Qui con la vita non si può mai dire..
arrivi quando sembri andata via..
Chi sei?
E perché io sono qui?
Ad ascoltare il tuo sangue. Non voglio sapere… Non ho il coraggio di alzarmi. Distolgo lo sguardo ma non fermo le lacrime. Quelle non riesco a reggerle.
Con gli occhi arrossati e la vista annebbiata, le lacrime fanno da lente d’ingrandimento ai sentimenti.
Improvvisamente sobbalzo all’indietro. Spaventato da un movimento istantaneo della mano penzolante. Ho il cuore a mille che cerca di calmarsi.
Era solo un tic nervoso. Solo una scarica di nervi sulla carne e i muscoli hanno fatto il loro dovere.
È La vita… la semplice vita che si muove.
Mi rialzo.
Il volto è coperto da un bracciolo. Non lo vedo. Vedo il suo corpo… le sue gambe.. e il braccio con la mano che termina sul bordo del divano. Faccio un passo ed urto una bottiglia che rotolando finisce conto il muro producendo un rumore infernale in quest’ora tarda. Mi giro e controllo le spalle con la paura che qualcuno mi stia dietro… fosse solo un alito di vento entrato da chissà dove.
Faccio un altro passo, questa volta con più attenzione. Oltrepasso il coltello sul pavimento insanguinato. Lo guardo con ammirazione. Mi sembra di conoscerlo. Ma sarà solo un dettaglio. Un po’ tutto qui mi è familiare e non riesco a capire il perché. E mentre le domande si affollano, percorro lentamente la linea del divano. Fino a voltare l’angolo…
E’ giunto il momento…
Voglio sapere chi sei!
Questa è la fine di questa strana storia.
Respiro profondo…
Mi giro…
Spalanco gli occhi…
Un grido soffocato mi muore in gola e con la mano mi tappo la bocca come per evitare di dire qualcosa. L’altra mano si stringe in un pugno quasi a farsi male. Quasi a conficcare le unghie nella pelle. Spero con tutto me stesso che quello adagiato sul divano sia solo uno specchio che riflette il mio volto. Ma non è così… Perché quel corpo ha le mie stesse sembianze. Ha i miei capelli… i miei occhi… la mia pelle. E quello per terra credo che sia il mio sangue. Non posso crederci… non riesco a concepirlo. Che ci faccio lì?
E perché sono quasi in fin di vita?
Sono allibito… Ma la forza piano piano si riprende i miei muscoli, al momento invasi dalla paura. E subentra la rabbia…
Salto sul divano…
Prendo le spalle di questo corpo e cerco di rianimarlo scuotendolo.
“Svegliati cavolo! Svegliati!”
“Dimmi perché??”
Non risponde. Ha gli occhi bianchi. Le pupille sembrano sparite. E non fa nessun cenno di resistenza. L’anima sembra aver abbandonato questo corpo. Il mio corpo.
“Svegliatiii!!”

Boomm boomm boomm

Sento bussare fortemente alla saracinesca. Mi volto di scatto… e…

E mi sveglio all’improvviso…
Apro gli occhi e guardo il mio solito soffitto bianco. La mia tenda che scende da un lato… e i miei poster appesi alle pareti. Respiro forte… Ho la fronte sudata e il mio corpo è tutto un tremore.
Sono nel mio letto. E soprattutto…

Sono ancora vivo…

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