Com’era ardente il sole sui nostri semplici passi. La città del nord s’era trasformata in una torrida metropoli dell’equatore. Il caldo ossessionava la carne e le membra, e sgorgava copioso dai nostri pori sudoriferi.
Nei Jardin des Touleries il tutto era ampiamente enfatizzato. L’immenso spazio aperto era intervallato da larghi sentieri di sabbia grossa e, con il sole che batteva, quella terra sotto i piedi sembrava una spiaggia artificiale; e una grossa e immensa fontana dava l’impressione di un mare contenuto, spremuto e rimpicciolito all’interno di un parco meraviglioso. Numerose persone erano lì a godersi un po’ di tregua dall’afa che tormentava i piccoli appartamentini.
Noi, che all’apparenza sembravamo sei ragazzi sprovveduti tutt’altro che turisti, percorremmo per il lungo il grande giardino fino ad arrivare all’Arc du Carrousel. E mentre gli altri erano intenti parlare e a lamentarsi del caldo, i miei occhi restavano incollati sulla scena di fronte a me. L’avevo sempre immaginato, visto nei films e nelle foto; sognavo quando ne leggevo le descrizioni nei libri di Dan Brown e m’immaginavo un giorno a vederlo dal vivo: il museo del Louvre.
A un primo occhio, spiccava la piramide di vetro centrale. Avevo letto delle polemiche che scatenò quando fu costruita. Si diceva che avrebbe deturpato l’immagine di un complesso storico di rilevanza mondiale. Confesso che se nell’89 avessi avuto qualche anno in più, mi sarei unito anch’io alle proteste. Ma vedendola ora, anzi, crescendo con quell’immagine stereotipata dai media del museo, vedere un Louvre senza piramide, suonerebbe strano… come se mancasse qualcosa.
Per me, ci stava benissimo quell’affare di vetro lì in mezzo. Dicano quel che vogliono, dicano pure che contrasti con le forme arrotondate del barocco settecentesco, o che il Louvre non è di certo un museo futurista. Al contrario di tutti, penso che quella piramide sia un perfetto simbolo d’integrazione tra presente e passato. E aveva anche la sua funzione: era l’ingresso principale.
Stavamo quasi per entrare quando Yann, il francese della squadra, ci annunciò la sua dipartita. Ci salutò tutti e con mio sommo dispiacere gli strinsi la mano e gli dissi che era stato un piacere discorrere con lui. Così, dopo che Yann prese la metro e poi il treno per tornare al suo paesino, restammo in 5 a varcare la soglia del Louvre.
Il cuore mi batteva, ero ansioso. Ero nell’unico museo degno di portare questo nome. Ero all’interno di un film mentale che scorreva all’infinito. Quante opere conteneva! E così poco tempo per vederle tutte! Ci avrei passato un’intera settimana a gustarmi le più belle opere d’arte della terra. Ma il tempo scorreva e quei pelandroni dei miei compagni non si decidevano a darsi una mossa.
Afferrai una cartina da un banchetto e feci un grosso errore a consegnarla ad Antonio rendendolo così il capo-squadra della comitiva. E fra poco capirete il perché.
Come un topo in mezzo ad un mare di cibo che, invece di mangiare, si affanna a cercare un piccolo pezzo di formaggio, anche noi come prima cosa, andammo a ricercare ciò che chiunque andrebbe a vedere in quel museo: La Gioconda. Non che non fossi contento di vederla, anzi, ma volevo arrivarci per gradi. Che ne so, fermarsi da qualche Raffaello o un Delacroix come un Caravaggio o un Perugino. Niente, come tori incitati dal torero partimmo per vedere la famosa Monna Lisa.
Salimmo lungo la scala Daru per arrivare all’entrata Sully. Su un piano mediano della scala, che di lì in poi si diramava in due direzioni, c’era la mitica Nike di Samotracia. Un’imponente statua di donna alata, purtroppo priva di testa e braccia, risalente al II secolo avanti Cristo. Bellissima.
Percorremmo con rapidità degna di un maratoneta, una decina di stanze. Cercavo di osservare quanta più roba possibile mentre i ragazzi spesso mi lasciavano indietro. Lì raggiunsi e in un attimo arrivammo nella illustre sala della Gioconda, passando davanti a non meno illustri quadri.
Su una parete spoglia in mezzo alla sala rettangolare, dietro un pesantissimo e spessissimo vetro, scansando le decine di teste delle persone davanti a me, vidi il quadro. Mi avvicinai per vedere meglio. La folla era molto fitta. Tutti accalcati a scattar foto che su internet potevano trovarsi a una risoluzione migliore. Infatti, il quadro era molto più piccolo di come me l’aspettavo. Non per questo non bello! La Monna Lisa era un tantino bruttina a dirla tutta… ma sorprendentemente enigmatica. Ovunque tu ti trovi, davanti a lei, sembra che i suoi occhi stiano fissando proprio te e nessun altro. Restai a fissarla per un po’… quel quadro era così importante che aveva bisogno della meritata lunga osservazione. I miei occhi erano attratti dai suoi. Impazzisco alle illusioni ottiche, sono il mio debole. E il mio debole diventò fissare quello sguardo. Costatai che guardandola in foto non si aveva lo stesso effetto. Chissà perché? Dopotutto una foto è una foto! Cosa c’è di più fedele all’originale? Cosa nasconde quella tela? Un gran mistero sicuramente. Quel matto di Da Vinci era un genio… onore al merito.
Quando la folla divenne troppo pressante, mi allontanai. I miei amici ovviamente avevano già finito di ammirarla. Erano intenti a osservare un altro dipinto della sala.
– E che è sto coso? –
– È un Caravaggio porcaputtana! Ragazzi! Che ignoranza! – dissi infastidito.
– Dai Ciro… che ci vuoi fa… abbiamo troppa storia alle spalle per conoscerla tutta! – mi disse Antonio mortificato. Quella frase mi fece sorridere. Lo consolai…
– Vabbè… non fa niente… pensa quelli che verranno tra cent’anni quanta ne dovranno studiare! –
E dopo i discorsi esistenziali, aprimmo la cartina per avere uno spunto sulla prossima meta.
La Venere di Milo.
Tornammo sui nostri passi e ripassammo per la scalinata Daru proprio davanti alla Nike. Entrammo in una sala piena di statue. Prima di arrivare alla Venere mi fermai incantato davanti ad una statua. Raffigurava una donna seminuda con il braccio teso ed in mano una pallina. Assomigliava tanto alla mia pallina rossa. Chiusi gli occhi e per un attimo la vidi vivere davanti a me. La sua carne si dipinse di rosa, i suoi capelli di un castano chiaro, le sue poche vesti di un bianco perlaceo e la pallina, anche se all’epoca era un colore molto raro, di un rosso scarlatto. La vidi lanciarla nel vuoto con un gesto improvviso, poi aprii gli occhi… e tutto tornò alla normalità.
Raggiunsi la Venere. Bella anche lei. E soprattutto anche lei dava dei gran grattacapi agli storici! Come tutti sanno (lo spero) le braccia sono state rotte e perse nella storia. Nel corso dei secoli, numerosi studiosi hanno avanzato teorie sulla posizione originaria degli arti amputati. E nessuno riesce ancora a darsi una spiegazione plausibile. Cominciai a pensare che, per avere importanza in quel museo, e sei una statua, ti deve mancare qualcosa. La statua di prima con la pallina era praticamente intatta e non destava la minima attenzione come la Nike o la Venere. Avanzai sempre di più la teoria dell’enigmaticità delle cose. Ossia, se un visitatore che si ferma a guardare un’opera riesce a rispondere a tutte le domande che si pone nella mente, quell’opera avrà poca influenza. Non posso fare esempi pratici di domande, perché ognuno ha i suoi perché. Come il mio perché della pallina in mano a quella statua. A qualcun altro, sarà sembrato normale. Ma non a me… perché io possedevo un mio perché.
Ritornammo nella sala dei dipinti, ripassando ovviamente davanti alla Nike; e questa volta anch’io formulai delle ipotesi su dove avesse le braccia; e la stanchezza mi fece pensare solo a gesti scabrosi. Entrammo in una sala dalle pareti altissime. Sui muri erano appesi enormi quadri su tela. Finalmente avevo la possibilità di osservare La libertà che guida il popolo di Delacroix e L’incoronazione di Napoleone di David. Due dipinti che avevo trovato tra le pagine del mio libro di storia delle superiori. Belli, e sorprendentemente grandi! Più di quanto si possa immaginare.
Filammo via anche da lì. E, passando in una piccola e stretta sala dalle pareti verde scuro, notai un piccolo quadro appeso su un muro, vicino alla porta.
– Oh oh! Chi si vede! – dissi come se avessi incontrato un vecchio amico.
– Non sapevo che c’eri anche tu qui! –
Mi avvicinai al quadro che raffigurava un uomo a mezzo busto. Era un autoritratto di Albrecht Dürer. L’autore di un’incisione sorprendentemente fantastica. La richiamai nella memoria. Quanto amavo quella sua opera, tanto cara anche a quel simbolista di Dan Brown. Così densa di particolari, di allusioni, di simboli, di rompicapi, di “perché” insomma! E quella persona che guardavo nel quadro ne era l’autore.
Volevo tanto avere il potere di rendere reali le cose. Volevo rendere reale quell’uomo per porgli un fottio di domande. Anche se ero sicuro che avrebbe parlato solo in tedesco e non mi avrebbe capito. Volevo sapere, volevo conoscere, internet e i libri non bastavano più. C’erano ancora enigmi irrisolti dentro la mia testa. Enigmi che quel quadro poneva ogni volta alla mia attenzione. Cosa si nascondeva dietro quel quadro mio caro Dürer?
Non me lo dirai mai… perché così facendo, sparirebbero i miei dubbi… e tu finiresti per non affascinarmi più…
Forse… è meglio così!
Hey 🙂
Mi piace l’idea di girare il mondo con lo zaino… se vuoi compagnia, fammi un fischio :-p 😉
Il Louvre… un sogno…. anche se ammetto che il quadro che non potrei fare a meno di andare a vedere lì, nonchè il mio quadro preferito, è “La vergine delle rocce” di Leonardo…(ovviamente la versione che c’è al Louvre… quella del National Gallery non mi piace!)… quanto amo quel quadro…. e quanto amo la genialità del suo autore.
Buon week-end Snake… ci si legge 🙂
Richiamo ciò che dice “bottepiccola”: in certi posti bisogna andarci con calma.
E’ uno dei motivi per cui un solo weekend a Parigi non mi soddisferebbe mai!
Me l’hanno sempre proposto ma puntalmente rifiuto! 😉
Già! Penso che a me non basterebbe nemmeno un mese!
Sicuramente ci ritornerò e vedrò quello che mi sono perso stavolta!
Ciao! 🙂
come ti invidio marò…..mi sarebbe piaciuto essere al tuo posto uffaaaaaaaaa……un abbraccio snake!
Ciao Anima! Non m’invidiare! Partiiiii!
🙂
Con il tuo post,caro Ciro,hai avvalorato ancora di più la mia teoria..certe mete bisogna toccarle in completa solitudine,per coglierne l’essenza e la bellezza fino al nocciolo,senza palle al piede che ti mettono fretta 🙂
Un giorno… quando avrò abbastanza soldi… mi girerò tutto il mondo! Io e il mio zaino! 🙂